è difficile oggi essere di sinistra

Se abbia ancora un senso distinguere destra e sinistra è stato uno dei temi centrali del dibattito politico contemporaneo, proceduto di pari passo a quella progressiva omologazione dell’offerta politica cui abbiamo assistito negli ultimi decenni. L’opinione oggi dominante vuole che nel mondo nuovo della globalizzazione le ideologie non abbiano più ragion d’essere e che siano “ferri vecchi della storia così come chi ancora ne fa uso”.

In questo libro, avvalendosi di un ampio supporto bibliografico e giornalistico, nonché di dettagliati riferimenti storici, l’autore contesta tale tesi, ritenendola l’asse portante di una narrazione funzionale alla difesa degli interessi dei grandi detentori di ricchezza e delle multinazionali. Sostenere la fine delle ideologie si rivela essere solo un modo per eliminare le idee di sinistra dal confronto politico, lasciando campo libero alle oligarchie dominanti, poiché la globalizzazione non ha segnato la fine della lotta di classe, bensì l’inizio di una nuova epoca nella quale essa viene combattuta da un lato soltanto, quello dei ricchi.

Non è che le idee di sinistra siano collassate su sé stesse perché ormai anacronistiche, come si vuol far credere, sono scomparse dall’orizzonte politico perché private di rappresentanza. Questo è stato possibile grazie allo strapotere acquisito da quelle oligarchie, che, da una parte, condizionano e indirizzano le scelte politiche a loro favore, riducendo di fatto la democrazia a una scatola vuota, e, dall’altra, favoriscono l’affermazione di un pensiero unico che isola e soffoca ogni tesi che vada controcorrente.

Giovanni Messina, È difficile oggi essere di sinistra, OMBand D.E., 2024

1. L’albero delle ideologie è sempre verde

È veramente difficile oggi in Italia essere di sinistra. Non solo, è diventato difficile anche individuare cosa significhi essere di sinistra. Sembra infatti che in questi ultimi anni i tratti distintivi dei vari soggetti politici si siano andati confondendo e ingarbugliando al punto da risultare indefinibili.

Ci si orienta un po’ per stereotipi e un po’ per semplificazioni. Se il sovranismo, per esempio, è di destra, vuol dire che l’europeismo sarà di sinistra. Poi, però, troviamo ambienti di sinistra critici verso l’Unione Europea e personaggi di destra che si proclamano convinti europeisti, soprattutto una volta pervenuti al governo. L’esaltazione del progresso, per fare un altro esempio, appartiene storicamente alla cultura di sinistra. Eppure, sono proprio gruppi di sinistra quelli che denunciano l’impatto sempre più insostenibile che esso ha sull’ambiente, mentre tra gli esponenti della destra prevale più spesso un ostentato scetticismo.

Alla fine, sia privato cittadino, sia rappresentante di uno schieramento politico, ognuno si va ritagliando spazi, per così dire, personalizzati: un po’ a destra e un po’ a sinistra, un piede di qua e un piede di là, oltre la destra e la sinistra, ancora più oltre, ecc. Come se fossero venuti meno quegli elementi identitari idonei a rendere inequivocabile la matrice di un soggetto politico, relegandola nel regno delle cose opinabili. All’inizio del XXI secolo può così succedere che un presidente del Consiglio promuova un provvedimento (tipo il Jobs act) e poi si senta in dovere di aggiungere: «guardate che è un provvedimento di sinistra». Muovendo quindi dall’implicita possibilità che ci siano persone non in grado di distinguere un provvedimento di destra da uno di sinistra, o addirittura di scambiare quello che è di sinistra con uno di destra.

Per capire quando la bussola è impazzita dobbiamo tornare indietro di alcuni decenni, più precisamente al passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica o, se vogliamo allargare lo sguardo, visto che non solo di un fenomeno nazionale si tratta, alla caduta del Muro di Berlino e alla fine della guerra fredda.

È a questi eventi che si associa la cosiddetta morte delle ideologie, espressione con cui si intende la scomparsa di fascismo, nazismo e comunismo a seguito della fine dei regimi a tali ideologie ispirati.

Pur essendo comunemente condivisa, tuttavia, tale espressione appare abbastanza discutibile per diversi motivi.

In primo luogo, non tiene conto dell’ideologia liberale, che, pur con qualche ammaccatura, sopravvive, né di altre ideologie che vanno nascendo, come l’ecologismo o quelle cha animano i movimenti antiglobalizzazione. Sarebbe stato più corretto, tutt’al più, parlare di morte di alcune ideologie.

Non considera, inoltre, che tante persone e gruppi politici in ogni parte del mondo continuano a professare o a ispirarsi alle ideologie sopracitate, senza contare che alcuni paesi continuano ancora a definirsi comunisti. In ogni caso, appare arbitrario dedurre dalla fine di un regime la scomparsa delle idee che l’hanno ispirato.

Infine, essendo un’ideologia una visione del mondo accompagnata dal progetto di un suo cambiamento, se ne dovrebbe dedurre che nel nuovo millennio nessuno abbia più un’idea globale del mondo né, tanto meno, il desiderio di cambiarlo. Cosa che con tutta evidenza non è.

La “morte delle ideologie”, dunque, nonché la cosiddetta “fine della storia”, che per qualche tempo a essa si è accompagnata (prima di perdersi per strada), appaiono formule semplicistiche che proprio in virtù dell’essere tali sono diventate virali. Utili soltanto, o forse create apposta, per sostenere che nel capitalismo del dopo guerra fredda sia inutile lottare. Non a caso, evocare la presunta scomparsa delle ideologie prelude ogni volta alla domanda se sia possibile distinguere ancora destra e sinistra. Una domanda palesemente retorica, ammettendo solo la risposta negativa.

Numerosi intellettuali, senza volerlo, hanno offerto un utile assist a questo nuovo pensiero dominante, sostenendo che tale distinzione sia ormai obsoleta, poiché le trasformazioni portate dalla globalizzazione hanno sparigliato a livello planetario le condizioni socio-economico-culturali a tal punto da rendere i concetti di destra e sinistra paradigmi non più idonei a fotografare la dialettica politica contemporanea.[1]

Tuttavia, il fatto che, a differenza del presupposto precedente, quest’ultima riflessione sia indiscutibilmente vera, che cioè la globalizzazione abbia gettato le basi di un mondo completamente diverso da quello del secolo scorso, non implica che siano venute meno quella pluralità di interessi e quelle conflittualità che caratterizzavano quella società. Semmai, sono aumentate e si sono anche allargati i fronti. Non solo conflittualità economiche, ma anche conflittualità sociali di origine religiosa, etnica, ecc., non solo all’interno del quadro nazionale, ma che tendono sempre più ad assumere una dimensione transnazionale.

Se il mondo avesse invertito rotta, se ci fossimo lasciati alle spalle ogni forma di ingiustizia sociale, povertà, sfruttamento, ecc. e avessimo proceduto a vele spiegate verso un mondo più equo e più giusto, non avrebbe avuto più senso parlare di destra e di sinistra. Ma se con la globalizzazione le conflittualità si sono andate ulteriormente inasprendo, se anche nelle società sviluppate le sacche di povertà dilagano e le condizioni dei lavoratori conoscono livelli di sfruttamento che credevamo ormai relegati ad altre epoche, come mai la vulgata secondo cui destra e sinistra non esistono più ha raccolto un così ampio successo? Come si può prendere per buona una tesi che oltre ad andare contro ogni ragionevolezza, va anche contro l’evidenza?

Sembra che alcuni intellettuali abbiano l’ossessione di rincorrere spiegazioni sempre più elaborate. Ma non necessariamente fenomeno più complesso richiede spiegazione più complessa. Non in questo caso, comunque, essendo qui la complessità solo in superficie. Nella sostanza, continuano a esserci oppressi e oppressori e crescono diseguaglianze e ingiustizie sociali. Fin quando così funzionerà il mondo, le categorie migliori per orientarci, in quanto più efficaci per ridurre le questioni ai minimi termini, per stabilire cioè se stai dalla parte degli oppressi o dalla parte degli oppressori, se vuoi ridurre le diseguaglianze sociali o ignorarle, sono proprio destra e sinistra. Qualcuno non lo vede e qualcun altro finge di non vederlo, ma «l’albero delle ideologie è sempre verde».[2] Al contrario della frettolosa conclusione di Fukuyama, la storia è ben lungi dall’essere finita. Non solo continua, ma continua secondo la stessa logica del passato. Oggi più di ieri, allora, destra e sinistra rimangono categorie imprescindibili dell’agire politico. Il problema che ci dovremmo porre, semmai, è un altro: sono rappresentate? E se lo sono, in che misura e in che modo?

(leggi successivo 2.)



[1] «La dicotomia Destra e Sinistra, in tutte le sue varianti e con tutte le sue correzioni possibili di dettaglio, non è in grado di orientarci economicamente, politicamente e culturalmente nei confronti dell’attuale globalizzazione capitalistica». Costanzo Preve, Destra e sinistra. La natura inservibile di due categorie tradizionali.

[2] Norberto Bobbio, Destra e sinistra.

Di Giovanni

"Trascorsi nell'antico Pci, ho lavorato in diverse regioni italiane e all'estero (Francia, Cina, Corea), scrittore per hobby e per hobby, da qualche tempo, ho aperto anche un blog ( quartopensiero ) nel quale mi occupo, in maniera più o meno ironica, dei temi che mi stanno a cuore: laicità, istruzione, giustizia sociale e cose di questo tipo."

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