C’è un olocausto che non ricordiamo, su cui non si esercita la nostra memoria ipocrita neppure in un’occasione come il 27 gennaio, in cui amiamo far sfoggio di tutta la nostra retorica buonista; eppure è quello che potremmo definire ur-Holocaust, il primo olocausto, quello da cui tutto è cominciato.

Ed è cominciato prima che il partito nazista salisse al potere. Nel 1920 lo psichiatra Alfred Hoche e il giurista Karl Binding pubblicarono un opuscolo intitolato Il permesso di annientare vite indegne di essere vissute, che divenne una sorta di fondamento medico e giuridico per la soppressione dei soggetti “deboli”, dannosi per la società. Nel 1926, quando al governo c’era una coalizione di tutti i partiti “democratici”, socialisti compresi, e la Germania venne finalmente ammessa alla Società delle nazioni, fu promulgata una prima legge “per fronteggiare zingari, vagabondi e oziosi”, che nel 1933, quando Hitler era diventato da poco cancelliere – ma non ancora Führer – venne sostituita da una legge, non troppo diversa nella concezione, “per la protezione della popolazione dalle nocività di zingari, vagabondi e oziosi”.

Sono gli anni in cui vengono velocemente costruiti i primi campi di concentramento, dove venivano recluse le persone che erano definite con la parola Asoziale e che, nella successiva codificazione dello sterminio – quando serviva “un metodo nella follia” – furono indicate con il triangolo nero, che veniva cucito sulla divisa di questa particolare categoria di internati.

Erano tutti i soggetti emarginati, i senza fissa dimora, i mendicanti, le prostitute, i funamboli e gli artisti di strada, gli alcolizzati e i tossicodipendenti, i ladruncoli e i borseggiatori, i ciarlatani e gli imbroglioni, ossia tutti quelli che in qualche modo erano considerati “irregolari” all’interno della società. Quelli che non vogliamo che vedano i nostri figli, ma che spesso non disdegniamo di “usare” quando ci fanno comodo. Poi c’erano quelli che non lavoravano, che risultavano disoccupati da troppo tempo, quelli che “rifiutavano” di essere aiutati. E ancora c’erano i ribelli sociali, le “teste calde”, quelli che erano colpevoli di “disseminare il disordine” nei luoghi di lavoro, magari perché chiedevano paghe più alte o maggiore dignità. Il nazismo – come il fascismo – era un movimento che era stato creato e finanziato dai capitalisti affinché facesse per loro il lavoro “sporco” e immediatamente ripagò questo debito.

Tra gli asociali c’erano anche le persone accusate di comportamenti matrimoniali o sessuali irregolari. Ovviamente non i mariti che tradivano le mogli, questo era – ed è – un comportamento matrimoniale assolutamente regolare e ben accetto, così come era – ed è – un comportamento sessuale regolare fare violenza alle proprie mogli, figli, sorelle, purché tutti resti in famiglia. A essere asociali erano le lesbiche, alle quali non veniva riconosciuto neppure il “diritto” di rientrare nella categoria di quelli che venivano contraddistinti dal triangolo rosa, ossia gli omosessuali maschi, perché le donne erano discriminate persino nella discriminazione sistematica. Naturalmente c’era una giustificazione – i maschi ne hanno sempre una – e c’era anche un fondamento scientifico, perché si riteneva che tutti questi difetti – dalla pigrizia alla pederastia, dal ladrocinio all’alcolismo – fossero ereditari. E infatti una delle prime misure presa contro gli asociali era quella di renderli sterili, così che non si potessero riprodurre, ma quegli stessi scienziati erano concordi nel ritenere che perfino da una donna lesbica potesse nascere un figlio “normale”: era il padre che doveva essere “sano”. Per questo le lesbiche venivano usate come puttane nei campi di concentramento dai soldati tedeschi: un comportamento sessuale assolutamente regolare ovviamente.

Infine c’erano nella composita compagnia degli asociali gli anarchici e i comunisti, che spesso non venivano “marchiati” con il triangolo rosso degli oppositori politici: anche loro – quasi come le donne – non erano degni di essere considerati “veri” uomini, erano un gradino più sotto, asociali appunto. O – nel migliore dei casi – anche loro “malati”; ma visto che non c’era – e non c’è – una cura per fare guarire i comunisti, meglio sopprimerli, prima che si moltiplichino.

Questo olocausto non lo abbiamo dimenticato, lo abbiamo voluto dimenticare, perché in fondo gli asociali non piacciono neppure a noi, spesso abbiamo paura di loro. Li evitiamo in pubblico, condanniamo i loro comportamenti, ma in privato non rinunciamo ad andare a puttane, non rinunciamo a perderci nel gioco e negli abusi, non rinunciamo ai nostri viaggi per godere con bambini e bambine stranieri. Probabilmente – ma non ne sono del tutto certo – non pensiamo più che questi asociali siano persone geneticamente inferiori, più simili ad animali che ad esseri umani, probabilmente non siamo così scientificamente razzisti come erano i nostri nonni negli anni Venti in tutta Europa – non solo in Germania – ma pensate quante volte a un leader è bastato promettere una legge “per fronteggiare zingari, vagabondi e oziosi” per ottenere il nostro immediato consenso, quante volte ci siamo girati dall’altra parte di fronte a uno di questi asociali incontrato per strada, sperando nell’arrivo di un’autorità capace di togliercelo di torno, quante volte questi asociali sono stati derisi, picchiati, uccisi, solo perché sono quello che sono. Quando annuiamo, mentre ascoltiamo qualcuno fare propaganda contro i poveri, contro quelli che non vogliono lavorare – perché il lavoro c’è, sono “loro” che non vogliono fare fatica – anche noi partecipiamo a questo silenzioso olocausto, l’olocausto dei poveri, di quelli che non vogliono piegarsi a regole che non hanno scritto e che non capiscono. E questo olocausto, che è cominciato prima di tutti gli altri che hanno funestato la storia del Novecento, è continuato anche dopo che le truppe dell’Armata rossa hanno aperto i cancelli di Auschwitz, è continuato in Germania e nei paesi che avevano vinto la guerra in nome di valori di umanità e di civiltà, e continua silenziosamente ogni giorno nelle nostre città, sotto i nostri occhi. Ma noi resistiamo, ci basta non avere memoria.

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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