Matteo Merli, “Don’t forget me” “Nella mia preoccupazione per le sorti del Reich, osservavo con crescente pessimismo le decisioni del suo governo, sia che si trattasse delle dichiarazioni di guerra a ripetizione, a mio parere superflue, sia degli ordini riguardanti la questione ebraica. (…) La mia intenzione era di restare fedele al giuramento alla bandiera e di compiere il mio dovere dovunque gli ordini mi avessero mandato. (…)

Avevo compreso che i capi del Reich non badavano alle esigenze prescritte dalla tradizione. Se ne fregavano. (…) Ma anche la parte avversa, composta da individui al comando di frazioni in urto tra loro, non poteva arrogarsi di diritto il monopolio dell’etica. La politica è sempre stata e sempre sarà solo una volgare puttana.“. Adolf Heichman la pensava così: lui, nero e grigio burocrate dello sterminio, consapevole esecutore delle direttive della Conferenza di Wannsee, quella meticolosa descrizione e ideazione della “soluzione finale della questione ebraica” ordinata da Adolf Hitler, riteneva che la politica fosse solo un accidente, un inciampo nel percorso di una attuazione diretta, senza intoppi, di ben altri problemi organizzativi che avrebbero davvero dato al Reich grandezza: non la politica delle fazioni. Persino quella che veniva prodotta a Berlino e che si permetteva atti formali come le dichiarazioni di guerra. Eichmann non perde tempo con dichiarazioni belliche: del resto non spetta a lui. Probabilmente gli stanno anche un po’ stretti i soli panni del ragioniere dello sterminio, ma li interpreta alla perfezione: la perfezione omicidiaria che lo accompagnerà fino a quando, dismessi i panni del risoluto colonnello nazista, fuggirà in America Latina per vivere sotto falso nome con la famiglia e, tradito da un amore del figlio per una fanciulla argentina, perseguito dalla giustizia tedesca (di una Repubblica federale ancora piena di funzionari con enormi nostalgie per il Reich hitleriano), cadrà nelle mani del Mossad. Sembrerebbe impossibile se si fa riferimento ad una sorta di stereotipo storico (dettato dunque da una certa storiografia in merito) che vorrebbe il Terzo Reich come una perfetta macchina priva di storture, di dissenso, di critica: solo “obbedir tacendo”. Ed invece scopriamo che è impossibile eliminare, anche nella più terroristica delle strutture di stato, quel “nuovo ordine nazista” che la Germania imponeva a sé stessa volendola proiettare sul mondo intero, l’opinione e creare una uniformità assoluta. La tendenza è chiara: mai nessun regime assoluto ha imposto così totalmente un principio unico e sovrano cui ci si doveva piegare senza apertamente e manifestatamente opporsi. Il Führerprinzip (tradotto come “principio di supremazia del capo” o anche come “principio del Führer” avendo un po’ tutti presente a cosa si facesse riferimento quando si parlava di “guida” nella Germania del Terzo Reich) era prima di tutto una regola interna al Partito nazista. Ma, siccome il partito era unico e non poteva esservi altra morale politica e sociale se non quella nazista, ne conseguiva che il Führerprinzip aveva assunto le fattezze di una “costituzione” ad articolo unico per tutto il popolo tedesco. Un dogmatismo laico che assurgeva a misticismo religioso proprio nella ostentazione ossessiva del culto della “guida della nazione”.

Ma attenzione, le parole di Heichmann non sembrino disfattismo: sono soltanto una estremizzazione del pensiero nazista che ha “dovuto” fare politica per ottenere il dominio imperiale sui territori che riteneva “spazio vitale” per la lotta della Germania “per la sopravvivenza“. Sono tutti frammenti di espressioni di Hitler. Un aspetto questo indagato a fondo dallo storico britannico Ian Kershaw che si domanda proprio ciò tanto ne “La fine del Terzo Reich” (Bompiani) quanto nella corposa biografia di “Hitler” (edita sempre da Bompiani) che in una forma piacevolmente romanzata, che mantiene tutte le caratteristiche di un accurato lavoro storiografico: come abbia potuto, un regime durato soltanto dodici anni (rispetto alla previsione del Reich millenario sognato dal caporale naturalizzato tedesco) trovare così largo consenso anche in settori della popolazione che lo avversavano coscientemente, sapendo bene che non avrebbe condotto la Germania alla “vittoria totale” bensì alla disfatta. La seduzione politica operata dal nazismo origina da diversi fattori concomitanti che hanno persuaso un burocrate come Heichmann, che avrebbe svolto qualunque lavoro di calcolo su qualunque cosa (considerando un carico di spaghetti da spedire in un mercato al pari di un carico di deportati da inviare ad Auschwitz): questi fattori possono essere ricondotti anzitutto alla crisi economica vissuta da mezzo mondo negli anni ’30 e alle ripercussioni delle spese di guerra in una Germania umiliata dal Trattato di Versailles; poi anche nella debolezza delle forze democratico-borghesi, litigiose, incapaci di dare al popolo tedesco un governo duraturo e un legame stabile tra economia e politica (e viceversa); infine nella appropriazione da parte dei nazisti di argomenti sociali che erano percepiti come più rassicuranti se espressi da antisemiti e violenti come le SA e dai capi dell’NSDAP piuttosto che dai comunisti e dai socialdemocratici. Seppure in Germania il movimento comunista, per comodità diciamo la “sinistra”, fosse forte e avesse milioni e milioni di voti alle elezioni, è proprio un sottile solleticamento “antipolitico” (fatto politicamente) alla Heichmann che spinga il popolo tedesco tra le braccia del nazionalsocialismo: urlando nei suoi comizi per tutta la Germania, Hitler ripete che i partiti classici hanno fallito e hanno condotto la nazione alla rovina e che solo una politica di riaffermazione di un orgoglio nazionalista, di un riarmo di un esercito ridotto a sole 100.000 unità, di una smilitarizzazione dei territori ancora occupati da francesi e inglesi, di un ritorno alla madrepatria di tutti i territori in cui vivono popolazioni di lingua tedesca (l’eco dell’Anschluss dell’Austria e della appropriazione dei Sudeti si sente già dal 1933) può ridare speranza e dignità alla vita quotidiana del popolo. Ecco che la “politica puttana” di Eichmann, che pure Hitler considera tale perché ritiene la “politica classica”, quella “borghese” e “democratica” al pari di un escremento, incapace di dare un futuro di dominio ai tedeschi, assume i connotati di una delle tante contraddizioni e formulazioni menzognere del nazismo. Il nazismo vive e si nutre di falsità, di bluff, di giochi diplomatici che sono sempre scorretti e che pretendono di apparire come la migliore delle intenzioni per mantenere la pace. Matteo Merli, “Auschwitz” Il nazismo disprezza il parlamentarismo ma proprio grazie alle elezioni diventa potere assoluto. Dunque sfrutta le imperfezioni congenite nella democrazia (che non può diventare assolutismo ed escludere che la si utilizzi distortamente come mezzo per negare sé stessa) per distruggerla e per proclamare che “una volta ottenuto il potere non lo lasceremo più” (Goebbels). Provate a trovare qualche similitudine con l’oggi: nessuna storia si ripete mai uguale a sé stessa, soprattutto se parliamo di cause ed effetti che si diversificano per collocazioni temporali molto distanti tra loro. Eppure somiglianze se ne registrano se si osserva attentamente comportamenti, parole, atteggiamenti che dicono di voler rispettare lo Stato di diritto, la democrazia, la Repubblica e che invece infrangono i più elementari diritti sociali, civili e umani. Se la Repubblica di Weimar, come sostiene Joachim Fest, “aveva avuto il torto di ostacolare una vera e propria rivoluzione sociale che spazzasse via il vecchiume monarchico” (“Obiettivo Hitler, la resistenza al nazismo e l’attentato del 20 luglio 1944“, Garzanti), la Repubblica italiana di oggi ha il torto di accettare progressivamente un logoramento delle sue istituzioni democratiche lasciando spazio ad una tolleranza nei confronti di politiche governative che rendono la popolazione sempre più convinta della necessità della “linea dura” che va oltre il più classico dei machiavellismi: tutto viene fatto alla luce del sole, con dichiarazioni che mettono in conflitto i poteri dello Stato e che creano persino crisi diplomatiche. Quando si pensa di poter aver sempre un minimo margine di azione per fermare l’avanzata di un modello repressivo e comprimente le libertà fondamentali dell’uomo e del cittadino, si commette già il primo errore. Bisogna prevenire il “minor margine” e lottare per dire ai cittadini che quella che anche loro oggi sono stati costretti a considerare “politica puttana” da decenni di malcostume istituzionale e di demoralizzazione dell’interesse pubblico rispetto al privilegio di quello privato, è necessaria e non può essere sostituita da convenzioni comportamentali di un ministro piuttosto che un altro che impone la sua morale sulla legge, oltre la Costituzione semplicemente affermando: “Io vado dritto per la mia strada”. Una coscienza civile, prima ancora che una coscienza di classe, deve ritrovare il perimetro ampio di una indignazione che rimetta al loro posto individui che fanno politiche xenofobe e razziste, pericolosamente antisociali, spacciandole per politiche di sicurezza nei confronti del Paese. Troppi sono gli Heichmann che si stanno moltiplicando in Italia: troppi ancora hanno una considerazione per la politica simile a quella del gerarca nazista. Solo una puttana, qualcosa che si mette al servizio del mercimonio e niente altro. Cento volte meglio mettersi al servizio del mercimonio piuttosto di mettersi al servizio della cieca obbedienza nel nome della superiorità razziale, del diritto di nascita su un territorio, dello spargimento di odio, pregiudizio e crudeltà che sono la cattiva coscienza di una parte del popolo italiano: quello più povero e sfruttato, quello che ha sentito meno in questi anni la vicinanza della Repubblica quando ha affrontato, ed anche ora affronta, una discesa lenta nella miseria da cui le destre neofasciste e neonaziste vogliono salvarlo barattando i pacchi di pasta con gli spazi di libertà personale e colletiva

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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