Su gentile concessione dell’autore

Pietro marino

Pensavo di evitare, ma considerando quanto hanno significato politicamente per me #Tsipras e #Syriza, mi tocca tracciare una parabola.
La sinistra greca fu la mia prima vera “passione politica”. Nel 2014-2015 rappresentò per moltissimi una speranza di cambiamento. Un “partitino” della sinistra radicale, che, nel giro di pochi anni, era arrivato a diventare principale forza d’opposizione e poi, addirittura, primo partito. Nel Paese padre della nostra cultura e della idea stessa di democrazia, in cui la crisi e la scelleratezza delle regole europee avevano mostrato la loro faccia più feroce, la democrazia, intesa come reale possibilità di potere popolare, rinasceva.
Tsipras e Syriza avevano conquistato il governo.

Le immagini di piazza Syntagma piene di bandiere, piene di gente che cantava “Bella Ciao” – a quanto pare in Grecia andava forte la versione italiana dei Modena City Ramblers – e che spintonava per abbracciare, con le lacrime agli occhi, quello che li avrebbe salvati dopo anni di soffocamento: Alexis Tsipras.
La potenza comunicativa – e purtroppo, scoprimmo poi, non pratica – di quei momenti era immensa. Tutto il mondo politico europeo dovette fare i conti con il terremoto greco, soprattutto nel momento più duro della lotta tra i vertici europei e il popolo greco, perché sì, in quel momento Tsipras davvero incarnava il popolo greco.

Ricordo Giorgia Meloni, parzialmente imbarazzata, costretta a dire a SkyTG24 “Be’, a me certo non fa piacere vedere una piazza piena di bandiere rosse, ma sostengo la battaglia di Tsipras contro l’austerity”. O un tweet simile di Marine Le Pen.
Insomma, non si poteva più discutere di politica e di economia europee ignorando la grandezza di ciò che stava accadendo in Grecia.
La Grecia, dove la gente ballava in piazza, mentre il mondo della finanza tremava. Borse impazzite. Istituzioni europee e dei singoli Stati membri intimoriti dalla possibilità dell’effetto Tsipras. Dalla possibilità che ogni popolo europeo alzasse la testa.

Ed è per questo che la Grecia andava stroncata. Come monito per tutti i popoli europei: non ci si ribella al potere di Bruxelles.

E arriviamo al drammatico luglio 2015. Era il periodo degli esami di Stato. Io passavo il tempo con un occhio sui libri e uno su tv e smartphone, per restare aggiornato su ciò che accadeva in Grecia. Nella prima prova – scelsi il tema sulla Resistenza – arrivai a citare la sinistra greca come esempio di resistenza attuale alle imposizioni dell’UE, inserendo la figura di Manolis Glezos, anziano partigiano greco che prima aveva combattuto i nazifascisti, poi i colonnelli e poi aveva aderito al partito di Tsipras per combattere, ancora una volta, ultra-ottantenne, per la dignità e la libertà del popolo greco.

Luglio 2015 segna anche il momento in cui, da europeista convinto diventai “eurorealista”, definizione che preferisco a “euroscettico”.
Perché, per l’appunto, al di là dell’ideale di un’Europa unita nella pace e nella solidarietà, nel luglio 2015, dopo la straordinaria vittoria dell’OXI (No) al referendum greco sul memorandum, l’Unione Europea mostrò definitivamente il suo vero volto, imponendo un memorandum ancora più duro per spezzare ogni possibilità di speranza, di cambiamento, per rendere Tsipras, agli occhi dei greci e degli europei, da eroe ad “aguzzino” e traditore del suo stesso popolo.

L’UE ebbe gioco facile: la Grecia è uno Stato troppo debole e non ha un’economia tale da potersi permettere di minacciare un’uscita unilaterale (che, anzi, era stata proposta provocatoriamente dalla stessa UE). Eppure venne tentata anche questa carta, quando Tsipras, dalla Russia, dopo un incontro con Putin, dichiarò “La UE deve capire che non è l’unica alternativa”. L’aiuto russo, poi, venne meno. Inoltre, a livello europeo, non ci fu un solo Stato-membro ad appoggiare la battaglia di Tsipras. Debole e isolata, la Grecia fu costretta a cedere.

Da allora, nonostante alcuni tentativi di muoversi negli strettissimi margini delle imposizioni europee, di fatto, il programma di cambiamento rivoluzionario di Tsipras si era svuotato totalmente.
Non ho mai aderito alla “Chiesa” di chi iniziò a definire Tsipras un traditore. Avevo seguito tutti i passaggi della battaglia. Sapevo che aveva tentato ogni strada percorribile e che partiva da una posizione di rapporti di forza totalmente sbilanciati a suo sfavore.
Ma nemmeno riuscivo a condividere l’entusiasmo di molti per le piccole concessioni che riusciva ad ottenere, perché ci sono varie scelte che non ho potuto sostenere, nonostante provassi a contestualizzarle, una fra tutte la stretta sulle libertà sindacali.

Oggi Syriza, dopo l’esito delle elezioni greche, passa all’opposizione e il centrodestra torna al governo. Nonostante i sondaggi di questi anni spesso avessero mostrato Syriza al di sotto del 20% o di poco al di sopra, il partito di Tsipras è riuscito a mantenersi al di sopra del 30%, mostrando di essere stato in grado, negli ultimi tempi, di recuperare consenso. Cosa che non è riuscita al KKE, la cui linea ultra-ortodossa lo inchioda al 5% da anni, con addirittura un leggero calo, nonostante tutte le condizioni, sociali, economiche e politiche, fossero dalla sua parte.

Syriza è il secondo partito greco e primo partito dell’opposizione.
Mi auguro che in questi anni di opposizione riesca ad elaborare una linea più attenta alla costruzione di strade alternative. Perché il problema di fondo della tattica che ha portato al governo è stata la totale fiducia nella “sensibilità democratica”. Tsipras era convinto che con un’immensa vittoria alle elezioni, con un’immensa vittoria del referendum e con le piazze piene, potesse convincere le istituzioni europee ad ascoltarlo. Ma ha peccato di ingenuità, della stessa di cui peccano varie sinistre europee, nonostante la vicenda greca:
l’Unione Europea non è un organismo democratico e, molto probabilmente, non lo sarà mai e la politica internazionale non ha alcun diritto, alcuna regola, se non quella dei rapporti di forze e delle alleanze.

Di AFV

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