Phúc quella notte non avrebbe dovuto essere lì, da solo. Eppure doveva essere lì. Suo padre – che non vedeva da anni, da quando il ragazzo si era unito al Fronte di liberazione – era morto da pochi giorni e sua madre stava davvero molto male: almeno lei doveva vedere il figlio prima di andarsene. Phúc si era fermato nella capanna di sua madre meno di un’ora, il tempo di salutarla e di mangiare una ciotola di riso. Gli parve irrispettoso mangiare, ma aveva davvero fame. Era troppo pericoloso rimanere di più: quelle misere capanne avevano occhi e orecchie. Non poteva assolutamente dormire lì: la mattina seguente sarebbero stati trovati morti sia lui che la madre. O meglio non sarebbero stati trovati affatto.

Ma anche muoversi nella giungla di notte sarebbe stato molto pericoloso. Vicino al fiume c’erano alcune pietre che sembravano formare una specie di capanna. Phúc controllò che non ci fossero animali, che non ci fossero uova di serpente – nel qual caso la madre sarebbe presto arrivata e sarebbe stata feroce. Si appoggiò alla parete di roccia, si mise il moschetto sulle ginocchia incrociate e cominciò ad aspettare. Non doveva assolutamente addormentarsi, ma non poteva neppure fare rumore. Doveva riuscire a concentrarsi su qualcosa che lo tenesse sveglio. 

All’improvviso apparve sulle acque quasi immobili del fiume il riflesso della luna. Phúc conosceva bene le fasi lunari, le aveva imparate perché la sua era una famiglia di contadini e perché durante la guerra era fondamentale sapere quanta luce ci fosse in cielo di notte. Quella notte la luna era quasi al primo quarto, una falce definita, limpida, appena increspata dal muoversi dell’acqua. Phúc aveva imparato così a calcolare il passare delle stagioni, non sapeva che giorno fosse, e non aveva neppure bisogno di saperlo né mentre coltivava il riso, né mentre aspettava di colpire gli americani. 

Che fatica non chiudere gli occhi. Gli venne un sorriso pensando a quanti sforzi faceva sua madre per farlo addormentare quando era un bambino. All’improvviso gli tornò in mente una vecchia favola, che sua madre gli aveva raccontato tante volte.

Un vecchio attraversa di notte un’intricata foresta, mentre in cielo risplende la luna piena. Incontra quattro animali, una scimmia, una lontra, uno sciacallo e un coniglio. Il viandante è stanco e chiede ai quattro animali di dargli qualcosa da mangiare. La scimmia si arrampica sugli alberi più alti e gli porta dei frutti bellissimi; la lontra si getta in acqua e cattura dei grossi pesci; lo sciacallo si infila in una casa e ruba per lui un pezzo di pane appena sfornato. Il coniglio non sa cosa fare, non sa arrampicarsi, non sa nuotare, non è abbastanza coraggioso e furbo per entrare in una casa, al massimo riesce a portare al vecchio qualche filo d’erba, dividendo con lui la sua magra cena. A quel punto il viandante rivela la sua vera identità: è un dio sceso sulla terra per osservare la vita delle creature che la abitano. Colpito dal gesto del coniglio decide di portarlo con sé, imprimendone l’immagine sulla luna. Phúc pensò che era diventato comunista anche ascoltando quella storia, perché i poveri devono sempre aiutarsi e dividere il poco che hanno.

Il ragazzo continuò a guardare il riflesso della luna sull’acqua. Doveva concentrarsi su quell’immagine se non voleva dormire. Chissà, forse un giorno i compagni russi arriveranno sulla luna, pensò. Ma chissà quanto succederà: lui non vivrà abbastanza per vederlo.

Mentre pensava a tutte queste cose Phúc doveva spostarsi perché anche la luna si muoveva e dal fondo del suo nascondiglio non riusciva più a vederne il riflesso. Alla fine il ragazzo uscì e alzò gli occhi al cielo: lei era lì, come se lo stesse aspettando. Fece uno strano pensiero – o chissà forse fu un sogno durato appena un minuto. Immaginò che la luna fosse una giovane donna e che si fosse alla fine accorta che lui la stava osservando. La luna guarda Phúc e se ne innamora, poi, per una qualche magia, lo fa cadere in un sonno profondo e ogni notte torna lì, in quel riparo di fortuna, dove lui dorme, e lo accarezza e lo bacia, notte dopo notte.

Che strana storia sono andato a immaginarmi, pensò Phúc, mentre vedeva il mattino farsi largo faticosamente tra i rami della giungla. Aspettò ancora un po’ e si mise in cammino. Era pronto a sparare se un qualche nemico lo avesse visto, ed era anche pronto a morire. Poteva succedere ogni giorno e ogni notte. Ma stranamente quella mattina sembrava che non fosse in giro nessuno. Avanzò per un bel pezzo senza vedere neppure le tracce di una pattuglia americana: come se quella mattina fossero tutti impegnati da qualche altra parte, se guardassero tutti da un’altra parte. 

Phúc non sapeva che giorno era, e non lo sapeva neppure la luna. Per lei era un giorno come un altro. Ma in quella lunga notte – e almeno per quella notte – lei aveva salvato Phúc e questo le bastava.

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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