Coronavirus. Parliamone. Ma senza esagerare in affermazioni che quasi istintivamente, per loro intrinseca natura, finiscono per scivolare verso quelle “false notizie” che vanno così di moda oggi, nuova manipolazione degli istinti primordiali di una formazione dell’opinione pubblica che, lo si voglia o meno, finisce per depotenziare non tanto la tanto orrorifica “egemonia culturale” della sinistra, quanto semmai il semplice riferimento alla razionalità. Pura e semplice.

Coronavirus, dunque. Può essere che noi comunisti finiamo per scorgere gli effetti del capitalismo laddove anche qualcosa può sfuggire ad un sistema economico globale, che regolamenta la vita di ciascuno di noi dalla culla alla tomba, ma viene da pensare – fatte alcune letture scientifiche sul caso (fonte “Nature“) – che probabilmente l’eccessivo consumo di carni, in particolare di animali selvatici, nei mercati di un enorme paese come la Cina sia una delle ragioni dello sviluppo di questi virus.

Serpenti o pipistrelli che siano, contagio da animale ad uomo, da carcassa di animale ad essere umano, diffusione anche asintomatica, fuori dal campo delle ipotesi, la scienza al momento – come in una rigorosa ricostruzione dei fatti operata con metodi da polizia francese – ci dice che nel mercato del pesce di Wuhan c’è l’origine di questa patologia. Tutti i primi pazienti affetti da polmonite e dalle cui analisi è stato riscontrato un settimo ceppo di Coronavirus (simile a Mers e Sars) denominato “2019-nCoV” avevano in comune solamente questo elemento: essersi recati in quel mercato ad acquistare dei prodotti ittici.

Per carità, dall’epoca delle epoche virus, malattie di ogni tipo hanno tempestato la vita umana, animale e vegetale: ogni organismo che sia biologicamente attivo, anche se inanimato come può essere un corpo senza vita, produce delle trasformazioni chimiche e non si sfugge alla complessità delle mutazioni nell’intero universo, figuriamoci su questo sassolino che chiamiamo Terra e che è un frammento di polvere di altre stelle, così come lo siamo noi.

Dunque, con tutta probabilità, anche senza la presenza invasiva del sistema capitalistico nel mondo, virus e malattie varie si sviluppano “naturalmente“, nel vero senso del termine. Però, è altrettanto vero, perché verificabile, che gli stili di vita che noi adottiamo influenzano le condizioni di sviluppo dei virus e contribuiscono alla loro trasformazione, al passaggio magari dagli animali agli uomini e alla nascita di vere e proprie pandemie.

Nel 1346, sempre dalla Cina (in questo caso dalle regioni più settentrionali rispetto a Wuhan e Hubei), provenne attraverso le rotte commerciali che collegavano l’impero della dinastia Yuan con il Medio Oriente siriano e poi la Turchia, passando per i Balcani, la temibile “peste nera” che fece dell’Europa un immenso cimitero: ancora oggi le stime sono approssimative ma abbastanza sicure nel fissare sui 20 milioni il numero dei morti provocato da questa epidemia.

Quella che allora era l’unica forma di “globalizzazione“, la via del commercio tra Europa ed Asia, è stata involontariamente anche la direttrice su cui ha viaggiato una malattia incurabile trasmessa dai ratti agli uomini tramite le pulci. I mercantili e le carovane che provenivano dall’Asia e trasportavano enormi quantità di merci furono gli inconsapevoli incubatori di tutto ciò.

Ne conseguì, forse anche con qualche giustificazione, una ondata di vero e proprio terrore, di panico inestinguibile nel breve periodo: la Chiesa cattolica lanciò anatemi, tanto per cambiare, sul popolo ebraico e l’antisemitismo divenne la prima delle superstizioni che raccontavano di qualche castigo divino sempre e solo per colpa della messa a morte di Gesù di Nazareth da parte dei concitati membri del Sinedrio, piuttosto che del patriota Barabba.

Basta leggere pazientemente “I promessi sposi” per avere un altro esempio di trascrittura del comportamento popolare davanti alla peste: tre secoli dopo, con effetti certamente meno devastanti rispetto a quella nera, il morbo continua a imperversare qua e là per il Vecchio Mondo. A trascinarselo appresso questa volta è la guerra: la Serenissima Repubblica di Venezia, per estendere i suoi domini su Mantova, contesa con il Ducato di Milano, aveva assoldato i famosi Lanzichenecchi, mercenari tedeschi che nel dilagare in Italia, devastandone le città, avevano lasciato come regalo alle popolazioni della penisola il temibile contagio.

Le scene manzoniane sulla peste a Milano andrebbero davvero rilette per rendersi conto di quanto sia lungo il cammino dell’emancipazione dai pregiudizi, anche se nascenti in un contesto di reale paura. La fine del Griso e il ritratto dolce della madre di Cecilia ne sono testimonianza di grande liricità letteraria.

Oggi l’isteria si limita a cercare ad esempio, sempre a Milano, le mascherine nella Chinatown locale, dove vive una comunità di 30.000 cinesi, per proteggersi da un virus che non ha ancora varcato le soglie dei nostri confini, e che è già tra di noi perché viaggia sulle sottili e tremende ali del pregiudizio, della cattiva informazione e, diciamolo pure, di una diffusa disposizione al razzismo che si ingrossa notevolmente se riesce a nutrirsi di paure che fanno oltre la “semplice” fobia sociale nei confronti del migrante o dei rom e sinti.

Ma distinguiamo l’ipocondriaco dall’isterico: una nevrosi psichica caratterizzata dalla paura delle malattie è cosa ben diversa dal timore che chi è cinese e ci sta intorno sia un potenziale untore per il solo fatto di non essere italiano, francese o spagnolo.

Purtroppo la stretta attualità dei tempi, l’espansione di un capitalismo vorace e la diffusione globale immediata di notizie che un tempo sarebbero passate attraverso i più lenti canali della sola carta stampata, non aiutano a radicare la consapevolezza della necessità della calma, a usare la ragione comprendendo ciò che la scienza ci dice in merito allo sviluppo dei virus.

L’elemento comune allo sviluppo dei virus biologici e a quello dei virus razzisti e xenofobi è proprio la velocità: da un lato quella di trasmissione delle patologie da un lato per via degli scambi commerciali e umani su mezzi di trasporto capaci di raggiungere gli opposti estremi del pianeta in meno di un giorno; dall’altro lato quella di spericolata corsa delle “fake news” mediante i “social network“.

Sarebbe quasi banale affermarlo, perché dovrebbe essere evidente, ma il sistema economico in cui viviamo sollecita tutti questi comportamenti e incoraggia la diffusione anche dei virus mediante lo smodato consumo di cibi tutt’altro che sani: sappiamo ormai bene che gli allevamenti intensivi di pollame, di carni bovine e ovine, di molti altri tipi di animali, sono luoghi dove prolifera un consumo abnorme di antibiotici che sostituiscono il naturale nutrimento di questi esseri viventi.

Il loro ingrassamento forzato comporta un danno all’intero ecosistema: non siamo minacciati solamente dall’inquinamento atmosferico, dalle particelle di diossina nell’aria, come se ci trovassimo davanti ad un fenomeno a sé stante. Anche qui tutto si lega: la deforestazione selvaggia che lascia spazio a immensi pascoli, il bisogno di quantitativi di acqua e foraggio spropositati per far crescere il bestiame e poi macellarlo (ponendo fine a sofferenze veramente terribili) sono cause dell’impoverimento ecologico del pianeta che aiuta gli agenti inquinanti a non essere assorbiti e mitigati nei loro effetti sull’intero eco-sistema.

Noi leggiamo le notizie e ci sembra che nulla leghi il Coronavirus al consumo di carne o di pesce se non il fatto che il focolaio dell’infezione sia stato individuato nel mercato ittico di Wuhan. Invece le problematiche di sviluppo delle malattie moderne sono profondamente simbiotiche con tutto ciò che concerne il sistema dei consumi, gli scambi delle merci, gli spostamenti quotidiani di ciascuno di noi.

Siamo oltre sette miliardi di individui, di cui un miliardo e mezzo solamente in quella Cina dove nasce e cresce la minaccia che oggi percepiamo come tale.

Nessun allarmismo è mai pienamente giustificato, ma forse iniziare ad acquisire la consapevolezza che non esistono maledizioni celesti e tanto meno popoli untori e popoli di immuni monatti che li possono fronteggiare a viso aperto, ecco, essere consapevoli delle cause può aiutarci ad essere meno isterici, più umani e quindi capaci di sostenere al meglio tutti gli sforzi che la scienza fa per preservare la specie umana sul pianeta, tutelarne la salute, anche se sovente, piegandosi alle leggi del mercato, la stessa sperimentazione medica violenta i diritti degli animali, li trasforma in esprimenti da laboratorio e, nei casi più crudeli, in quella pratica che ha il suono sinistro di “vivisezione“.

Purtroppo, come si può vedere, il capitalismo c’entra sempre. Non è complottismo questo. E’ il contrario: la dimostrazione che solo la conoscenza della realtà dei fatti ci può aiutare a superare i fatti stessi e a farci vivere in un mondo migliore, a misura tanto di uomo quanto di animale e di vegetale.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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