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Riceviamo e pubblichiamo

di Franco Astengo

Riaffermare la centralità del lavoro, questo dovrebbe essere l’impegno che collettivamente dovremmo assumerci in questa giornata di ricordo dei cinquant’anni passati dall’approvazione dello Statuto dei Lavoratori.

E’ evidente come il bilancio non possa essere, in questo caso, che quello di un arretramento sul terreno dei diritti, dell’emergere di una complicata complessità nelle forme del lavoro non sufficientemente analizzata sul piano dello sviluppo delle contraddizioni sociali, di una necessità di riprendere il filo del discorso in quasi fase resa assolutamente drammatica anche dall’emergenza sanitaria.

Fanno impressione le parole di una sottosegretaria a 5 stelle: “Turismo, ristorazione e Made in Italy. Così investiremo i 100 miliardi”.

Siamo di fronte alla dimostrazione evidente dell’incapacità di comprendere la fragilità del nostro sistema produttivo.

La qualità di intervento pubblico su come questa fragilità dovrebbe rappresentare il punto nevralgico su cui impegnare tutte le risorse disponibili non solo sul piano economico – finanziario.

In questi anni l’Italia ha pagato , prima di tutto, il mancato aggancio della sua industria ai processi più avanzati d’innovazione tecnologica. Anzi si sono persi settori nevralgici in quella dimensione dove pure, si pensi all’elettronica, ci si era collocati all’avanguardia. Determinante sotto quest’aspetto la defaillance progressiva dell’Università con la conseguente “fuga dei cervelli” a livello strategico. Un fattore questo della progressiva incapacità dell’Università italiana di fornire un contributo all’evoluzione tecnologica del Paese assolutamente decisivo per leggere correttamente la crisi.

Si segnalano ancora due elementi tra loro intrecciati: la progressiva obsolescenza delle principali infrastrutture, in particolare le ferrovie ma anche autostrade e porti e un utilizzo del suolo avvenuto soltanto in funzione speculativa, in molti casi scambiando la deindustrializzazione con la speculazione edilizia e incidendo moltissimo sulla fragilità strutturale del territorio. Un discorso di programmazione affatto diverso, beninteso, dal semplicistico “sblocco delle grandi opere”.

All’interno di questo quadro l’elevato tasso di disoccupazione presumibilmente risulterà ancora in crescita quando si tireranno le somme di questi ultimi tre mesi così come si registrerà un ulteriore aumento dei livelli di disuguaglianza, non soltanto sul piano economico, tra le diverse aree del Paese ben oltre l’atavico divario tra Nord e Sud.

Tutto ciò si è rovesciato negativamente sul mondo del lavoro esaltando modelli profondamente sbagliati, elevando a simulacro la precarietà, intensificando i meccanismi dello sfruttamento.

Le politiche tipo job act hanno indotto altri processi di impoverimento generale così come dopo le elezioni del 2018 i due governi che si sono succeduti si sono mossi in direzione ostinatamente contraria, recuperando il “peggio” degli anni passati: dall’assistenzialismo, alla subordinazione delle scelte al clientelismo elettorale arrivato, proprio in occasione delle già citate elezioni del 4 marzo 2018, a codificare su scala di massa il “voto di scambio”,come pure era già avvenuto su scala numericamente più modesta negli anni scorsi:ricordando “meno tasse per Totti” e il solito “milione di posti di lavoro”.

Un discorso che si è ancora ampliato con la confusione emersa nell’assumere i provvedimenti riguardanti le categorie colpite dal lockdown.

L’emergenza sanitaria ha così coinciso con il ricordo dei 50 anni trascorsi dall’approvazione dello Statuto.

Si pone l’interrogativo sul come riaffermare la centralità del lavoro.

Si dovrebbe cercare di comprendere come non si possa continuare come prima e come sia necessario rompere con i dogmi neoliberisti che hanno portato a trascurare assieme i diritti dei lavoratori e i bisogni primari delle persone.

Si dovrebbe riuscire a cambiare pensiero ma sembra troppo facile abbandonarsi alla demagogia della semplificazione dell’immutabilità dell’esistente.

Di AFV

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