Ci sono voluti quarantatré anni per catturare l’ex capo di “Cosa nostra“, Salvatore Riina. Ce ne sono voluti trenta per intrappolare quello che viene definito “l’ultimo boss“, malato, ridotto quasi in fin di vita da un tumore al colon prima e da metastasi al fegato oggi. L’hanno “cinturato” dentro ad una clinica, mentre stava facendo degli accertamenti medici. Sembra non abbia nemmeno tentato la fuga. Il cerchio si era ormai stretto troppo. Forse un cerchio atteso da tempo e nemmeno così intempestivo come potrebbe sembrare.

Matteo Messina Denaro è ora nelle mani dello Stato italiano, assicurato a quella giustizia cui è riuscito a sottrarsi per tre decenni: dal 1993 ad oggi. Appena dopo la strage di Capaci, appena dopo l’arresto del capo dei Corleonesi, la fine di colui che aveva governato la mafia siciliana (e non solamente quella) senza che neppure i magistrati ne conoscessero il nome e la fisionomia fino a pochi anni prima.

Aveva accumulato un patrimonio pari a 4/5 miliardi di euro. Un impero che amministrava forse nemmeno più direttamente, stando “sommerso“, senza orchestrare più azioni eclatanti, ma circondandosi di prestanome e, comunque, con il proprio covo sempre nel trapanese. Le cronache dicono che abbia tentato di lasciare la clinica oncologica sgusciando dietro una via secondaria, imbardato con cappello e giacca di montone.

Lo hanno catturato immediatamente e da quel momento sono partite tutte le ipotesi possibili sulla sua latitanza, sul suo essere anguillescamente sfuggito alla presa dello Stato per trent’anni. Che sono e restano tantissimi e che pesano sulla incoscienza collettiva davanti al fenomeno mafioso in quanto tale, sopravvalutato a volte, sottovalutato tante altre.

L’esultanza per la sua cattura ci ha ubriacato, ci ha resi (si spera) solo momentaneamente acritici, ci ha portati a pensare in queste ore che la partita tra la Repubblica e Cosa nostra sia vicina alla fine.

Qualcuno pensa di poter dire che addirittura questo sia stato il capitolo finale e che, magari, d’ora in poi possa fare un po’ comodo a tutti non parlare più di “mafia” al presente, ma di farlo solo riferendosi al passato, come se fosse parte della Storia con la esse maiuscola, come se non esistesse più in Italia quel fenomeno antisociale, incivile, immorale e perverso che abbiamo conosciuto dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi.

Per le sue stragi, per le centinaia di omicidi che si sono diffusi da Sud a Nord, dall’Europa all’America, da Palermo a Little Italy, dalla Sicilia allo Stato di Nuova York.

E magari, sull’onda di questa euforia, in parte certamente giustificata, non fosse altro per una notizia che segna oggettivamente un punto fermo nella storia della criminalità organizzata, in quella stessa definizione di “associazione a delinquere di stampo mafioso“, che è un reato quasi unico al mondo, dentro al nostro Codice penale, forse corriamo il rischio di sottovalutare le nuove mafie, le nuove cosche, l’originalità dei nuovi affari criminali.

Se ci riferiamo a “Cosa nostra“, per l’appunto come l’abbiamo vista all’opera, decritta dai collaboratori di giustizia fin nei minimi particolari, se pensiamo a quella mafia lì, è chiaro che possiamo dire che, con l’arresto di Messina Denaro, finisce certamente un epoca.

Ma laddove un tempo ha termine, ne ha sempre inizio un altro. A meno che non vi sia una sospensione del corso degli eventi nella loro ciclicità e non si vengano a creare condizioni tali da impedire una continuità, da evitare che si ripetano in forme differenti gli esempi del recente passato. Non lo scriviamo noi, semplici osservatori politico-sociali di un fenomeno esportato un po’ in tutto il mondo dal nostro Bel Paese.

Lo dicono apertamente magistrati e giudici che commentano in queste ore quello che il governo si affretta a considerare come un successo, e che in effetti è tale e diventa tale, paradossalmente, proprio per tutto il tempo trascorso nel lavoro meticoloso delle Forze dell’Ordine e dei giudici, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, facendo una vita d’inferno, per andare a stanare colui che riusciva così bene a vivere nella sua terra senza essere visto, senza essere udito, senza essere quindi prendibile.

L’encomio dovuto al sacrificio di chi ha speso la vita per ottenere questi risultati è un dovere civico, civile, morale, laicamente repubblicano. Ma è lecita una serie di domande che ci si deve porre se si vuole continuare a vivere in uno Stato democratico o che, almeno, ha il doveroso ardire di continuare a definirsi tale: quale rete di protezione ha garantito la latitanza dei tanti mafiosi che sono sfuggiti alla giustizia per anni, per decenni?

Fino a che punto sono arrivate le commistioni tra politica e criminalità organizzata anche in queste fasi di occultamento dei maggiori capimafia?

Dalle confessioni di Tommaso Buscetta in avanti, dal grande lavoro del pool di Falcone, Borsellino e Caponnetto ad oggi, sappiamo per certo che il fenomeno mafioso non è mai stato un “semplice” problema di mera criminalità, seppure organizzata, seppure piramidale e ramificata in tutta la Trinacria, in larga parte del Paese e oltre mari ed oceani.

Sappiamo che la mafia di campagna dei tempi borbonici e anche post-garibaldini è diventata col tempo altro da sé stessa, ha cambiato fisionomia, “missione“, ed è diventata da liberale e filo-sabauda, quale era, un metodo di gestione del potere locale.

Si è costantemente accompagnata al potere politico e ha stretto i legami più forti con una economia territoriale che, alla fine, ha fagocitato, estromettendo la borghesia otto-novecentesca per diventare la padrona degli affari più sporchi tra le due sponde dell’Atlantico.

Quando Peppino Impastato la definiva dai microfoni di Radio Aut “…una montagna di merda…“, le dava la sua unica, giusta connotazione: sporcizia maleodorante, rifiuto di una società che si faceva dominare da un potere che era nello Stato e che non era affatto quello che troppi cronisti e scrittori hanno un po’ generosamente definito “l’anti-Stato“.

No, la mafia era dentro le istituzioni: piccole e grandi. Dai comuni alle province, dalle regioni al Parlamento nazionale, fin dentro i governi e gli apparati di sicurezza che avrebbero dovuto proteggere la Repubblica dai suoi nemici.

Il capitolo della “trattativa Stato-mafia” poi torna come un villain cinematografico riappare nelle pellicole psicoanalitiche in stile “Settimo sigillo“, con quella morte che gioca a scacchi col cavaliere. Che perde. Ma che gioca comunque la partita con questa avversaria dal volto lattiginoso: affascinante ed inquietante al tempo stesso.

Qualcuno anche in queste ore se lo domanda, dopo le dichiarazioni fatte in una trasmissione televisiva da un collaboratore stretto del boss: «L’unica speranza dei Graviano è che venga abrogato l’ergastolo ostativo” e sul nuovo governo: “Che arrivi un regalino?… Che magari presumiamo che un Matteo Messina Denaro sia molto malato e faccia una trattativa per consegnarsi lui stesso per fare un arresto clamoroso?».

A pensar male si fa peccato, si incorre oggi anche nell’accusa – spesso più che corroborata da evidenze incontestabili – di “complottismo“; ma qui non si tratta di pensare male, ma di valutare tutte le circostanze, anche quelle fantasticamente attenuanti per uno Stato che impiega tre decenni per penetrare la cortina fumogena della mafiosità diffusa, per destrutturare le sue reti fatte di tanti nodi gordiani che, però, non possono essere fulmineamente risolti a filo di spada.

La lotta alla mafia, come ci hanno insegnato tutti coloro che l’hanno davvero fatta e che sono morti saltando per aria su autostrade, davanti alla casa della propria madre o sui binari di una ferrovia il giorno prima delle elezioni, come tra tutti, forse per primo, Giovanni Falcone l’ha insegnato, non si può fare solo tramite la magistratura, ma la si deve fare prima di tutto nella quotidianità del sociale, nella vita di noi tutti, nella impermeabilità che dobbiamo diventare a fenomeni come quello di Cosa nostra et similia.

La lotta alla mafia inizia dai banchi di scuola, da una convinta percezione di un sentire collettivo, del far parte di una comunità pubblica, di una società civile capace di separarsi dal suo contrario: tutto ciò che la vuole svilire, negare, asservire e trattare a piacere per ingrossare i profitti privati, gli introiti del malaffare, della criminalità di qualunque tipo.

Mafia, camorra, ‘ndrangheta: la stagione lunghissima del crimine dentro i gangli dello Stato non finisce oggi, ma indubbiamente si avvia ad un tramonto d’epoca. Lo si nota, per fortuna, ormai da molti anni, dopo che i capimafia sono stati tutti assicurati alle patrie galere: gli ammazzamenti quotidiani per le vie della povera Sicilia sono praticamente finiti.

Ma, se cala il silenzio omicidiario e terroristico degli omicidi a sangue freddo, se non detonano più i carichi di tritolo, non deve scendere per questo motivo il silenzio delle coscienza, della memoria su tutto quello che è accaduto. Oggi si festeggia la cattura del ricercato numero uno, di quello in cima alla lista del Ministero dell’Interno per pericolosità e per somma, quindi, di crimini commessi o mandati a commettere.

Ma non possiamo, al contempo, dimenticare che i motivi che hanno permesso alla criminalità organizzata di prosperare non finiscono con la cattura di Messina Denaro. Gli interessi economici e finanziari, i commerci di armi, di droghe pesanti, la stessa prostituzione e i rapporti con le altre mafie sparse per il mondo restano tutti quanti davanti, dietro e intorno a noi.

Davanti allo Stato, dentro la Repubblica, intorno ai confini morali del nostro Paese che merita di vedere onorata la memoria di chi si batté contro Cosa nostra con una nuova politica che dia al pubblico quell’importanza che la Costituzione gli attribuisce: che rinforzi il sistema scolastico, che dia sempre meno spazio al privato e che diventi più che competitiva con il malaffare che vorrebbe penetrare nelle esistente dei cittadini sfruttandone le debolezze. Fisiche, mentali, economiche, culturali.

La mafia di ieri, probabilmente potrà anche diventare un ricordo, ma andrà comunque sempre ricordata.

Mentre la mafia di oggi, che parlerà altre lingue, utilizzerà altri canali per accumulare ingenti profitti, va affrontata non istituendo il 16 gennaio come festa nazionale, ma superando la demagogia governativa, e dando vita a riforme politiche esattamente opposte a quelle delle destre che, a cominciare dal rapporto con la giustizia, non hanno mai brillato per coerenza costituzionale, per rettitudine morale, per conseguente impegno di lotta dalle stanze di Palazzo Chigi.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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