E’tutto un puntare: alla riuscita di una sfida, di una gara; alle visualizzazioni avute su You Tube; ai “mi piace” messi sotto ai video; alle monetizzazioni raggiunte grazie a tutto questo. E’ la competizione assoluta, senza discrimine alcuno, senza linea di demarcazione, senza punto di non ritorno.

Non c’è un momento in cui fermarsi, riflettere e dire: «Mah… forse questa “challenge” è troppo pericolosa», forse perché non riguarda solo i quattro ragazzi che sono in macchina e che si propongono di passare su una Lamborghini cinquanta ore, ma anche la gente che si vede sfrecciare accanto la lussiosa automobile italiana.

I “The Borderline” sono soltanto uno dei tanti gruppi di giovanissimi che cercano di fare fortuna con Internet, sfruttando la condivisione di massa, il coinvolgimento compulsivo della rete che non fa altro se non rimbalzare i contenuti da un profilo social ad un altro e, in questo modo, dà vita ad un circuito perverso di visualizzazioni che rendono “virale” un contenuto.

Viste da un “boomer” come il sottoscritto, le imprese dei The Borderline potrebbero apparire come delle innoque ragazzate, in cui tutto è recitato all’imperfezione, tutto viene costruito come su un set di un cinepanettone, dove a contare non sono le informazioni o gli spunti che se ne possono trarre, ma soltanto le battute sguaiate, fatte nel linguaggio tipico delle generazioni Z o “millenials” le estremizzazioni dei comportamenti. Appunto, le sfide.

Bear Grills ha fatto di peggio, da militare lupetto britannico impegnato in vere e proprie sfide nella natura più naturale possibile, più selvaggia ed incontaminata dalla nefanda presenza umana. Qualcosa di interessante dalle sue giornate nei boschi, tra i ghiacci e le nevi, nei deserti e nei mari c’era da imparare per chi pensava di fare una vacanza da “uomini duri“.

Invece i The Borderline vorrebbero solo far divertire i loro coetanei e monetizzare per fare video ancora più belli, avvincenti e, ovviamente, monetizzanti. A muovere tutta questa voglia di “youtubare” dei giovani è un protagonismo un po’ edonistico che si vorrebbe poter tradurre in una specie di simpatia a tutto tondo, di gigioneggiamento indiscriminato con tanto di marchio esclusivo, di perfezionamento sempre più professionale dei video e della loro diffusione.

Hanno seicentomila “followers“, molto probabilmente di età compresa tra il quattordici e i quaranta anni, e sono seguiti su Instagram e su Tik Tok.

A scrivere queste righe, lo confesso, mi sento davvero appartenere a quella parte di mezzo secolo che ho vissuto fino ad ora e che rimpiange un po’ gli anni ’80 e ’90, quando non esisteva Internet, quando le opinioni si scambiavano di persona e non sui social e sulle chat, quando ci si accapigliava anche su sport, politica, attualità e mille facezie, ma lo si faceva con un rispetto maggiore, almeno conoscendosi un po’ di persona.

Ma i tempi cambiamo, inesorabilmente e inevitabilmente e, in qualche modo, si deve provare a comprenderne i significati più evidenti come quelli più ancestralmente reconditi e che, magari, stanno proprio nel modo di “youtubare” di un gruppo di ragazzi che scorazzano per le vie delle città italiane, riprendendosi per cinquanta ore in una lussuosissima fuoriserie che, anche solo a noleggiarla per due giorni, vuol dire sborsare qualche migliaio di euro (immagino…).

Là nell’agro romano, a Casal Palocco, trentaquattresima zona della capitale, una macchina va avanti e indietro per una via non larga, a due corsie. La vedono sfrecciare ben oltre quei cinquanta chilometri orari cui ci si dovrebbe attenere guidando in qualunque centro urbano. Testimoni riferiscono che forse andava a novanta, cento all’ora. Insomma, molto veloce.

Prima della tragedia, gli youtuber si fanno dei video, ovviamente, da postare sui social più frequentati dai giovani e dai giovanissimi. Irridono chi non può permettersi una Lamborghini, status symbol dell’essere al passo coi tempi, dell’essere fighi e degni di rispetto. Ma forse lo fanno con un tanto sottile filo ironico che, per quanto è sottile, pare davvero invisibile e, oltrettutto, così labile e debole da tenere malamente insieme un minimo di percezione dell’ironia stessa.

Passa una macchina piccola, una Smart e giù a dire che ò un’auto da poveracci, da sfigati, che la si può comperare per trecento euro al Conad. Poi qualche citazioni cinematrografica malamente interpretata e riportata; un riferimento a cartoni animati non certo dei gloriosi tempi di Go Nagai e, mentre i fans aspettano il video della sfida delle cinquanta ore in Lamborghini, arriva invece la notizia di una tragedia.

Rimbalza anche questa come un video ameno di un gruppo di youtuber. Rimbalza dall’ANSA a tutte le testate giornalistiche: là nell’agro romano, nella trentaquattresima zona della capitale una Lamborghini di colore blu, un bellissimo suv che sembra un gigante della strada e che ha la nobiltà dei lineamenti per vantarsene, si è scontrato con una di quelle Smart che si possono comperare ai Conad per trecento euro.

No. Non è una parte della sfida dei The Borderline.

E’ la tragicità del dramma affidato non al caso, ma all’incoscienza, alla superficialità, alla voglia di esagerare per esagerare, per essere i più visti del web, per essere il canale più cliccato dai coetanei, per essere magari anche quello più monetizzato. I quattro o cinque ragazzi che sono sulla straordinaria auto impattano contro un’utilitaria dove viaggiano una mamma e i suoi due piccoli figlioli. Meno di trent’anni lei, cinque e tre anni i bambini.

Erano appena usciti dall’asilo e stavano andando a casa. Le lamiere si sono contorte, la scena dell’incidente è raccapricciante. Come lo sono sempre le scene di tutti i tamponamenti dove un bolide arriva addosso ad un moscerino della strada.

I sanitari del 118 fanno l’impossibile per stabilizzare il bambino di cinque anni. Morirà poco dopo nel trasporto all’ospedale. La mamma e l’altra figliola se la cavano con alcune ferite. I The Borderline sono illesi. Nessun video di quella sfida andrà mai su You Tube. I carabinieri sequestrano i loro cellulari per capire cosa sia avvenuto; soprattutto per sapere cosa abbia causato quell’impatto. Una distrazione mentre giravano il video? Sostanze stupefacenti?

Fin qui la cronaca. Adesso alcune considerazioni.

Non esiste perdono possibile. Si fa fatica ad immaginare che tutto questo possa accadere. Ma questa società dell’arrivismo a tutto spiano l’abbiamo vellicata per troppo tempo e lei, a sua volta, ci ha coccolato infantilmente, ci ha reso dipendenti da una necessità inderogabile: avere successo o essere condannati all’irrilevanza. Trascurando i valori fondanti di un’esistenza che, se davvero contemplano il rapporto con i propri simili e dissimili (umani e non umani, compreso il contesto naturale), non possono non poggiare sulla ricerca costante dell’empatia.

Ed anche dell’antipatia, ma che almeno sia sincera, manifesta e riconoscibile. Insopportabile è la seduzione della finzione, del mascheramento stigmatizzato da Pirandello, dell’assunzione di ogni tipo di volto che piaccia al maggior pubblico possibile. Per essere qualcuno, per sentirsi fighi, per essere accettati dai gruppi, dal branco, da una socalità che si subisce più che vivere.

Il successo, la fama, la riconoscibilità degli altri nei nostri cofronti e, quindi, il denaro.

La possibilità di fare qualcosa che entusiasma e piace, per quanto banale, piatto, ridicolo, demenziale e persino osceno sia nel rapporto tra presunzione di attorialità e attorialità medesima, sovraintende le esistenze di una parte delle generazioni più moderne ed attuali. E sarebbe anche comprensibile dentro il perimetro dell’esuberanza giovanile, della voglia di arrampicarsi oltre le nuvole, di saltare ogni ostacolo, di trasgredire per il solo gusto di farlo; se non fosse che certe dinamiche possono portare alla tragedia.

Sfidarsi a stare due giorni su una zattera in mezzo ad un lago non è come sfrecciare con una macchina potentissima (600 o più cavalli?): Tesla o Lamborghini che sia.

Provare a stare in casa sempre due giorni e mezzo senza genitori e vedere cosa accade sarà un po’ diverso dal prendere un auto e fare avanti e indietro per una trafficata via della capitale, sapendo che guidare con prudenza vuol dire evitare eccitamento, rabbia, stanchezza, euforia, confusione, magari anche i cellulari che ti distraggono mentre riprendono o la cannabis che non aiuta, in questi casi…

Non possiamo rassegnarci a pensare che tutti i giovanissimi siano degli irresponsabili, dei rampantisti del web che sognano la fama, il successo, i guadagni ottenuti con le visualizzazioni e i “likes“. Non possiamo farlo perché, oggettivamente, non è così e perché ogni assolutizzazione è sempre, ma veramente sempre sbagliata: per il semplice fatto che la realtà è composita, complessa e riguarda esperienze di crescita diversissime fra loro.

Ma questo non ci esime dal considerare i fenomeni come i The Borderline dal punto di vista sociologico, quindi sviluppando una analisi un po’ meno emotiva e rabbiosa a causa della stupidità con cui hanno, per colpa, creato una situazione tragica, gettato nello sconforto una famiglia, ucciso un bambino e, forse l’unico dato positivo di questa cronaca nerissima, definitivamente decretato la fine delle loro bravate internettiane.

Non possiamo rubricare il tutto alla voce della fatalità, del caso, dell’impossibilità di prevedere un fatto simile. Eh certo che i quattro ragazzi in auto non volevano uccidere nessuno. Ci mancherebbe ancora fosse così. Ma la estrema superficialità di quella sfida, la sua insensatezza, il suo essere rivolta all’esterno del gruppo e non soltanto al loro interno, avrebbe dovuto far presagire che qualcuno, oltre i protagonisti dei video, avrebbe potuto andarci di mezzo.

Questo doveva essere il minimo comun denominatore mentale di un gruppo maturo di ragazzi che si vogliono anche divertire, che vogliono farlo pure avendo qualche guadagno su Internet, ma che non hanno alcun diritto di mettere a rischio l’incolumità propria e di altre persone.

Una sfida pari pari l’avevano già fatta con una Tesla, altro bolide ultracostoso, da miliardiari. E quindi viene da pensare che l’asticella della sfida si fosse alzato, per attirare sempre più contatti, per avere sempre più visualizzazioni e non per il solo piacere di fare qualcosa che fosse finalizzato al piacere stesso. Ma innocuo.

Il rischio emulazione, poi, è un altro elemento non trascurabile. Sono seicentomila le persone iscritte al canale You Tube dei The Borderline? Che cosa potrebbe succedere se qualche ragazza, qualche ragazzo decidesse di fare la stessa cosa con la macchina del proprio genitore, spingendo gli amici a filmare il tutto per mostrare la bravata su Internet e far vedere al mondo quanto si è fighi e quanto si è intrepidamente incapaci di provare paura?

Ecco, proprio la paura. Perché non arriva al momento giusto? Perché non scatta parallelamente ad un istinto di autoconservazione e di rispetto per le altrui vite, spinta da un moto etico e civico di preservazione di sé stessi e di chi ci circonda? Non accade perché prevale la voglia di provare il massimo di adrenalina possibile, il brivido dell’eccesso, oltre che del successo, la sensazione di straordinarietà che ci raggiunge quando realizziamo proprio il massimo della pericolosità di una sfida: il fattore di rischio.

Ogni sfida contiene un rischio. Ed ogni rischio si differenzia da situazione a situazione. Quindi non si può criminalizzare il rischio in sé, così come la sfida non è imputabile a tutto tondo. Ma la stupidità e l’immaturità che provocano delle tragedie vanno messe sotto accusa, perché non è possibile – se è vero quanto riportato da alcuni testimoni accorsi sul luogo del tremendo incidente – che gli youtuber, scesi dal grande suv Lamborghini, dopo l’impatto stessero ancora filmando l’accaduto e ridendosela beatamente.

Lo stridere delle lamiere fra loro è meno fragorso del confronto acido tra un bambino che sta morendo, una madre disperata, una sorellina sotto schock e le risate di un gruppo di ventenni che pensano che tutto quello si possa anche riprendere con i cellulari e magari mettere successivamente sul proprio canale monetizzante.

Qui siamo davvero oltre ogni morale. Siamo alla preistoria delle emozioni, alla totale mancanza di empatia e di immedesimazione nel dolore dell’altro, superata dalla spasmodica necessità di riconoscersi sempre e soltanto in sé stessi e in ciò che si fa, senza curarsi delle conseguenze.

Una società che, del resto, istilla nelle menti di ciascuno e di tutti che è ottimale solo il successo e che ogni fallimento è una dimostrazione di debolezza, è un contesto in cui è molto difficile crescere pensando che quando si sbaglia o non si raggiunge un obiettivo, nonostante tutto, si è imparato qualcosa e non si sono buttati via tempo, energie e impegno.

Una società come questa cresce milioni di giovani nel culto dell’esteriorità, dell’apparenza, del sembrare, tralasciando l’interiorità, l’essenza, la concretezza di quello che sembra aleatorio e imprendibile: il vasto mondo dei sentimenti e delle emozioni, spesso ridicolizzate e trattate alla stregua della debolezza, della mancanza di mascolinità, di forza, di durezza e, quindi, di prestigio universalmente riconosciuto.

Ci insegnano che piangere è da codardi, da femminucce, da frocetti e chissà cos’altro. Invece anche piangere è parte della costruzione continua del nostro modo di raffrontarci con ciò che ci fa soffrire e che non dobbiamo reprimere, apparendo sempre inossidabili, belli, perfetti in tutto: dalla pettinatura alla muscolatura, dal sorriso all’abbigliamento, da come ci esprime a quello che si fa.

Il rischio che corriamo è di giudicare soltanto senza capire il contesto. Quei ragazzi hanno, involontariamente, dato seguito ad una enorme tragedia, per cui il perdono ha ben poco valore e il carcere ne forse anche meno. Ma la rabbia è sacrosanta e non possiamo toglierla a chi ha avuto un lutto così grande come la perdita di un figlio di cinque anni. La rabbia e la giustizia che deve fare il suo corso. Ed anche con una certa dose di esemplare severità.

The Borderline, che probabilmente da oggi non esistono più come gruppo di youtuber, devono riflettere per molti anni su quello che hanno causato, ripensandosi e ripensando la loro vita alla luce proprio degli spettri che ora gli si mostrano davanti: una ectomplasmaticità dei sensi di colpa, che si addensano nei sonni agitati e durante le giornate di angoscia che saranno procurate loro dal tam tam mediatico che gli si riverserà addosso, quasi come una sorta di nemesi dal sapore antico e moderno al tempo stesso.

Se da tutto si può trarre un insegnamento, anche da questa storia triste, tragica, pari ad un forte pugno nello stomaco, cerchiamo tutto quello che può aiutare in particolare i giovanissimi a non emulare, a non voler soltanto sembrare e apparire, a non voler primeggiare sempre e ad ogni costo: su Internet come nella vita reale.

L’immaturità a cui il liberismo vuole condannare le giovani generazioni, e a cui ha costretto anche le precedenti, la si combatte con un ritorno alla socialità, con la sconfitta dell’individualismo. Un lavoro di lunghissima lena. Un lavoro che però servirà ad evitare nuove tragedie come quella avvenuta tra Acilia e Casal Palocco.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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