Antonio Semproni 

Guido Caserza apre il suo “Canto dei morti sul lavoro” (Zona, 2022) con un inesorabile inventario di morti bianche.

A colpire il lettore come un pugno in bocca è l’identificazione dell’andare al lavoro con l’andare a morire (“Andavano al lavoro/andavano a morire”): è un’invenzione poetica spiazzante, perché mostra quanto il rischio ‘morte’ sia implicito nei luoghi di lavoro e sia omertosamente dato per scontato, come un assunto irretrattabile. Un verso recita che la morte avrebbe “stipulato” ai lavoratori “un bel contratto” e infatti quanto emerge dalla poetica di Caserza è che i salariati effettivamente lavorino per la morte: quando non biologica, essa va intesa quale morte civile, morte della socialdemocrazia, morte della coscienza di classe, morte della res publica (“la morte concima/l’esito del lavoro”).

Caserza è ben cosciente della dissoluzione dell’identità politica del singolo e della disgregazione di quei legami collettivi capaci di farsi carico delle sue rivendicazioni: nota subito come lo sguardo che dirige la forza lavoro è uno “sguardo potente” che “ha diviso/la falce dal/martello/il popolo/in individui/in atomi”, non di rado in conflitto tra loro a tutto vantaggio del capitale, cosicché l’espressione ‘guerra tra poveri’ è “una locuzione che getta/luce sul dominio incontrastato/della classe padronale”; per di più, il capitale si è ben nascosto agli sguardi dei salariati, tanto che si parla di “morti bianche/per l’assenza/di una mano/una mano/una mano/direttamente/responsabile/dell’incidente”. È la logica della mano invisibile esaltata al massimo grado dai post-smithiani e post-illuministi, del pilota automatico legittimato dai tecnocrati: lo status quo dell’economia, con le esternalità negative che ne conseguono, è così perché così deve essere, non c’è alternativa, né responsabili, soltanto tecnici incaricati di adeguare l’ontico all’ontologico (“Il capitale poggia sicuro in sé stesso/e per se stesso si giustifica”).

Queste logiche, permettendo al capitale di tenere in mano le redini del mercato, sono strumentali all’estrazione del massimo profitto dai lavoratori, comportando “la perenne/disponibilità a buon prezzo/della merce umana/anche a prezzo della morte”: in altre parole, per risparmiare sul costo del lavoro ben si accetta il rischio ‘morte’. E come farà una forza lavoro atomizzata e a basso tasso di sindacalizzazione a pretendere la retta applicazione delle norme di sicurezza sul lavoro? Semplicemente rimarrà inerte. Come insegna Savino Balzano, un lavoratore precario e privo di rappresentanza sindacale è poco incline e mal equipaggiato per rivendicare i propri diritti, anche quelli concernenti la propria sicurezza e incolumità.

A questa morte sul lavoro e della cultura del lavoro – quale affermata dal socialismo operaio a cominciare dal diciannovesimo secolo – fa da pendant il mito “nella sovranità/individuale, ognuno/imprenditore di sé/stesso”, che affonda nella razionalità illuministica e assurge a imperativo dello smantellamento dello Stato sociale: esso devolve all’individuo l’onere di trovare la propria soluzione (biografica e solipsistica) a problemi globali, che quindi assumono una dimensione (e necessiterebbero di una gestione) collettiva.

Con il corollario che “tutto deriva dall’individuo (…) così li resero remoti e colpevoli/della propria miseria e della propria morte”: ecco la povertà come colpa e la giustificazione, almeno sotto il profilo morale, dei tagli al welfare e della dismissione dello Stato-datore di lavoro. La strada da battere per chi si affaccia sul mondo del lavoro o vi ha fatto ingresso da relativamente poco è quella della partita IVA, della previdenza integrativa, se non addirittura del rentier: “se avesse comprato/sette anni fa dieci azioni Netflix/oggi non avrebbero avuto/bisogno di quei soldi/avrebbe avuto un bel funerale/bisogna sapere osare”.

In questo scenario di devastazione sociale e culturale il capitale può dormire tranquillo, senza “fantasmagorie di morti che (…) infestano il suo sonno”: la legge è dalla sua parte (v. l’abolizione dell’art. 18, i voucher, etc.), come pure il potere politico, sempre più slegato da quelle garanzie (rappresentative e partecipative) a tutela della sovranità popolare: “gli uomini armati di legge (…) implacabili esigono la vita di altri uomini”; “solo il padrone si erge (torreggia!)/sul tempo presente, e se ne esalta,/e se ne ingloria: la legge è dalla sua parte”.

Insomma, la poetica di Caserza, lungi dal romanticizzare le morti bianche – come fa invece larga parte del potere (“il comune conferisce/la cittadinanza italiana conferisce/alla vedova e ai figli”) –, ci rende un’analisi acuta e profonda delle cause delle morti bianche, senza alcuno sconto né reticenza, per mezzo di una scrittura caustica e incalzante, che finalmente rende un po’ di giustizia a “millenni di lavoratori”.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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