Alessio Pracanica

Crisi identitarie, errori, scomuniche, faide e nostalgie: la crisi della sinistra sta diventando un genere interpretativo a se stante, una nuova sterminata biblioteca universale dove in ogni volume custodito è possibile ritrovare un pezzo di storia personale e del suo fallimento. Ma è anche una storia che ha tanto ancora da dire.

Del perduto amor: la crisi della sinistra

La Sinistra, intesa come spazio politico, è ormai da troppi anni un deserto affollato di parole. Non è certo sinistra il Pd, confuso e verticistico tentativo di neo-balenismo, né bianco né rosa, quanto grigio contenitore di ogni possibile contraddizione.

Non si spiegherebbe altrimenti come abbia potuto, o possa tutt’ora, ospitare al suo interno non solo il famigerato Renzi, ma figure come Letta junior, CalendaDe Luca, Emiliano, che in altri tempi sarebbero state scavalcate a sinistra perfino da un Fanfani.

Ancor meno sinistra si riscontra il quel coacervo di gruppuscoli che si auto-definiscono post-comunisti. Divisi su tutto, dal merito al metodo. Fuorché dal comune intento di accapigliarsi su chi debba avere, in esclusiva, l’onore e l’onere di sventolare uno straccio rosso.

Svuotato simbolo, a cui talvolta corrispondono programmi e dichiarazioni che sembrano ispirate al leghismo dei primordi, con il solo ed evidente scopo di racimolare qualche zero virgola nelle periferie impoverite.

Un quadro che è conseguenza della sottovalutazione, o addirittura della totale rimozione, del trauma culturale successivo al crollo del Muro di Berlino.

L'addio a Giorgio Galli, un gigante della cultura

Il termine potrà forse sembrare enfatico o eccessivo, ma andrebbe ricordato che nel giro di pochi mesi, si passò dal celebrare l’Unione Sovietica come Paradiso del Lavoratore, a vituperarla come inferno in terra.

Mentre qualche autorevole leader, magari reduce dalla celebrazione dei carri armati a Budapest o dalla denuncia del perfido accerchiamento operato dalla Nato, traslocava armi e bagagli nelle retrovie del pensiero occidentale. Definendosi da sempre libertario, antistalinista e, alla fin fine, comunista solo per mancanza di alternative.

La fine del dogma della perfezione, del monolitismo dottrinario, dell’impermeabilità a ogni critica, credibili solo finché c’era in sella un gelido scacchista come Togliatti, produsse echi diversi, in alto come in basso.

L’elettorato, confuso e frastornato, si trovò spogliato di ogni identità. Svegliandosi una bella mattina, come lucidamente cantava Bennato, tutto sbagliato. E in molti casi, soprattutto nel centro-nord, continuò a inseguire, più che a seguire, un Partito in tutti i suoi capitomboli e cambiamenti di nome, in automatico. Per abitudine, più che per convinzione.

I vertici invece si fratturarono in due grossolane macro-categorie.

Da un lato i nostalgici, schierati in difesa di simboli e bandiere.

In fisica, quando un’onda elettromagnetica si propaga per una certa distanza, le deviazioni rispetto all’andamento ideale inducono un fenomeno definito perdita di coerenza.

Una buona metafora di quanto successo nel mondo comunista, dove a forza di collidere l’un con l’altro, litigando su chi fosse l’unico e autentico erede, si è prodotto un pulviscolo di particelle scompagnate.

Ne esiste circa una decina, di queste particelle. Nei sondaggi non si vedono perché di solito riassunte sotto la scritta altri, con accanto qualche zero virgola di percentuale. Avendo dimenticato che l’identità è uno scheletro, non un costume da indossare e soprattutto che la mera nostalgia dei bei tempi andati non è un programma politico.

La dannazione della sinistra è la narrazione degli ex

Dall’altro lato, il grosso dei quadri dirigenziali si produsse in innumerevoli giri di valzer, nel tentativo di seppellire il passato, dopo aver affibbiato al relativamente colpevole PCI anche le colpe del PCUS.

Per fare questo si abbracciarono le dottrine economiche più aliene, rispetto al percorso di provenienza, sperando di acquisire insieme alla patente liberista anche quella democratica. Quando sarebbe stato più logico e dignitoso limitarsi a esibire l’attestato della seconda, già conseguito nei duri anni della Resistenza.

L’appiattimento sul versante ideologico venne mascherato con l’entusiastica adozione di un nemico. Quello di ieri, era il più perverso e terribile che si potesse immaginare. Ovvero quel commissario tecnico da Bar Sport che rispondeva al nome di Silvio Berlusconi.

Il nemico ideale. Miliardario, piduista, amico degli amici, gaffeur inesorabile e sgrammaticato quanto basta. Così perfetto da tenerselo caro e volerlo tenacemente conservare. Giacché mai il Ds/Ulivo/Pd ha osato mettere ai voti quella legge sul conflitto di interessi che sarebbe scontata nei paesi civili.

Inframmezzando questo cordiale duello rusticano con tentativi di improbabili alleanze. Con tutti. Da Bossi a Buttiglione, da Braccobaldo a Grillo.

Limitandosi a estrarre dal cilindro nuovi, quanto incredibili leader da opporgli. Romano Prodi. Degnissima persona e antico tecnocrate democristiano.

Enrico Letta. Nipote del giaguaro e uomo che definì “miracolo” l’ascesa al governo di un rigido neoliberista come Mario Monti.

Matteo Renzi. Ovvero quello che è riuscito a condensare in soli 250 caratteri di Twitter le lunghe filippiche berlusconiane, che avevano come unico argomento quanto fosse meraviglioso l’esser governati da tipi come loro.

Berlusconi, il nemico di ieri, con funerali di Stato e lunghe dirette tv, adesso è ricordato come uno dei padri della patria moderna. Nel mentre negli ultimi anni ha provato ad apparire come nuovo, l’uomo della ruspa, Salvini l’affonda barconi, implacabile azzannatore di panozzi in diretta Istagram.

Oggi tocca a Giorgia Meloni, ex sovranista oggi iperatlantista. Domani chissà.

Perché un buon nemico da sbandierare gridando al mostro, sembra essere sufficiente sostituto all’assenza di una visione politica. Di un’idea, un’ideuzza, un’ideina, che pure garantisca all’elettore di votare per qualcosa e non solo contro.

Già, gli elettori. Questi personaggi di fantasia creati dai sondaggisti.

La cosa più comica e lacrimevole è che un elettorato di sinistra tutt’ora esiste. E resiste. Pur in absentia di partiti.

Perdendo pezzi anche solo per motivi anagrafici. Se ne stanno andando quelli che ricordano, che hanno subito le bombe e le manganellate. Pur tuttavia c’è.

La Legge di Murphy applicata alla sinistra

Non più celebrata classe operaia. Semmai folla di laureati precari e privi di futuro. Pensionati e impiegati. Donne e uomini. Piegati a forza di flessibilità. Sfiduciati da mille contraddizioni e sfilacciati da millanta tentativi.

Senza più una casa, un tetto politico sotto cui ripararsi. Scampati ai ruggenti anni del berlusconismo selvaggio, alla prodigiosa trasformazione da cittadini a consumatori.

Accomunati dal desiderio di un paese senza mafie, corruzioni, occhiolini e cedimenti a lobby e potentati. Di diritti scritti al ribasso per non scontentare i vescovi e tassazioni indirette al rialzo per compiacere i mercati.

Gente che vorrebbe farcela da sola, fidando in sé e nei propri talenti, senza dover cedere il passo ai figli, agli amici, ai sodali di una classe dirigente bulimica e senza più alcun pudore.

Che considera lo stipendio una doverosa retribuzione e non “benessere munificamente elargito da generosi imprenditori”. Che vede nelle poche tutele sopravvissute alla compulsiva distruzione renziana, il giusto abito di dignità che dovrebbe vestire ogni fatica.

Nel nome di quella giustizia sociale che sembra cosa sorpassata e quasi disdicevole da invocare.

A mancare, insomma, non è l’elettorato. Almeno potenziale. Forse non da percentuali bulgare, che in questo paese maggioranza non lo si è mai stati. Ma certo aliquota sufficiente a rappresentare con dignità un determinato pensiero.

Chi però intendesse in qualche modo raggrumarlo sotto un simbolo, un programma, una cosa (ogni riferimento è puramente voluto) deve tenere a mente alcune cose.

Il tempo si sta esaurendo. Entro pochi anni assisteremo alla completa evaporazione di ogni concetto e dello spazio stesso in cui quei concetti acquistano piena completezza.

La sfiducia è tanta. Ormai necessario anticorpo contro le troppe resurrezioni solo annunciate, rischia di trasformarsi in ostacolo.

Ogni tentativo dovrà ripartire, per forza di cose, dalla formazione di una nuova cultura di sinistra, che tenga conto delle trasformazioni sociali, economiche, antropologiche del mondo. E che sappia, parimenti, ridare a vecchie parole il loro precipuo significato e accompagnarle con i giusti complementi.

Perché non può esserci lavoro senza dignità, economia senza solidarietà, giustizia senza equità, politica senza responsabilità. Almeno per noi.

Last, but not least, risolvere finalmente i conti con il passato. Riconoscendo che lo stalinismo non è stato sinistra, ma una forma dialetticamente alternativa di totalitarismo.

Antitetico a tutto quello che, nel lungo cammino della storia, abbiamo anche solo preteso di rappresentare.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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