Orazio Luongo 

Con gli anni, il rapporto tra sinistra e giustizia sociale si è fatto via via sempre più complicato, tanto da sollevare un legittimo interrogativo: ma questa sinistra, o almeno questa cospicua parte della politica e della società italiana che continua ad autorappresentarsi come tale, ha davvero ancora nel suo orizzonte ideale, nel suo DNA, l’obiettivo della giustizia sociale? In altre parole, possiamo dire che la funzione storica della sinistra, quella cioè di puntare alla costruzione di una società egualitaria, sia tuttora valida?

Se ci fermassimo alle dichiarazioni di principio, all’autorappresentazione appunto, probabilmente la risposta sarebbe sì. Ma, andando oltre le parole, quello che è successo negli anni tumultuosi della globalizzazione, tanto alla sinistra italiana quanto alle sinistre degli altri paesi capitalisti, arrivate al governo passando per l’infatuazione neoliberista, è stata una sostanziale rinuncia alla giustizia sociale. O quantomeno, alla salvaguardia degli interessi materiali dei ceti meno abbienti. Una progressiva ritirata dal terreno della difesa dei diritti e delle rivendicazioni sociali che ha coinciso praticamente quasi alla perfezione con una nuova centralità delle libertà individuali e dei diritti civili. Ma anche con una lenta ed inesorabile perdita di fiducia e consensi. Entrambi, paradossalmente raccolti nel tempo da una destra pronta ad offrire ad una società arrabbiata e disorientata dalle cicliche crisi di sistema, un’idea tutta sua di giustizia sociale. Fatta di esclusione e di risentimento verso chi è più in basso nella scala sociale, ma anche di un profondo pregiudizio verso chi vive una condizione di povertà.

Un’idea che per certi versi, con eccezioni minoritarie, non si discosta molto da quella che negli ultimi decenni ha preso a far breccia anche a sinistra. Per cui un livello di diseguaglianze “fisiologico”, ad un tratto, deve essere cominciato a sembrare tollerabile.

Esempio plastico: il reddito di cittadinanza. Misura osteggiata per lungo tempo sia a sinistra che nel sindacato perché considerata un grande disincentivo al lavoro: insostenibile sul piano economico e culturalmente involutiva, si diceva. Insomma, qualcosa di molto simile, nella sostanza, a ciò che avrebbe propagandato poi la destra con la sua narrazione aporofobica, contro “divanisti” e nullafacenti vari.

Un’avversione per una misura in sostegno dei ceti più deboli, peraltro molto lontana da un vero e proprio reddito di cittadinanza, sancita da tre voti contrari del Partito Democratico, e l’astensione delle altre sinistre parlamentari. Giustificabile solo in parte con la cultura lavorista novecentesca, con l’idea di un’antinomia insanabile tra diritto al lavoro e diritto al reddito, ma di fatto incomprensibile rispetto a un quadro di diffusione della povertà e di pauperizzazione del lavoro, dovuti all’accumularsi di crisi continue nell’arco di pochi anni. Dalla crisi finanziaria del biennio 2007-2008 alla guerra passando per la pandemia, quindici anni segnati dal raddoppio della povertà assoluta e da una compressione salariale che non ha eguali in Europa. E peggio ancora, dal consolidarsi di una realtà fatta di povertà nonostante il lavoro, che ha messo in crisi l’antico dogma del lavoro capace di nobilitare, e che ad oggi interessa soprattutto giovani, donne e Mezzogiorno. Quei giovani e quelle donne, e più in generale quella moltitudine di precari e sottoccupati con bassi salari, a cui l’aiuto del Reddito aveva permesso di sottrarsi all’angoscia dell’indigenza e del ricatto occupazionale. Quel Sud popolato da milioni di lavoratori poveri, che ancora non ha recuperato i danni della prima crisi finanziaria, a cui anche i governi di centrosinistra per anni hanno continuato a proporre la ricetta degli incentivi per gli investimenti e le assunzioni, e poi delle agevolazioni fiscali e delle zone franche senza che questo producesse alcunché in termini di riduzione reale della povertà e della disoccupazione. Ma solo una crescita dei profitti, a fronte dell’ingrossarsi di un esercito di sfruttati da immettere ed espellere dal lavoro a seconda degli andamenti del mercato. In totale ossequio a quel principio di flessibilità che a partire dagli anni Novanta è diventato la bussola del maggiore partito della sinistra italiana. Quando si cominciò a parlare di flexsecurity, senza che le tutele e i diritti sociali però crescessero di una virgola.

Da lì, l’inizio di un graduale divorzio. Culminato forse proprio con i tre No di quel partito ad una delle poche cose di sinistra fatte nel nostro paese in anni recenti. O almeno, una delle poche percepita come tale dalla maggior parte degli italiani. Quegli stessi italiani a cui appena qualche anno dopo, davanti al rischio, poi concretizzatosi, della destra al governo, con una giravolta si è provato a spiegare che il reddito di cittadinanza era una misura di cui non si poteva fare a meno. Un po’ come col salario minimo: ieri inutile, o addirittura deleterio per la contrattazione collettiva, oggi rimedio sovrano a tutti i problemi del lavoro.

Troppo tardi. Se questa sinistra brancola alla ricerca di una funzione storica smarrita, ci sono milioni di uomini e donne rimasti indietro che hanno già capito che quella funzione, qualsiasi essa sia oggi, non è più battersi per loro

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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