Ormai i dibattiti pubblici, diffusi nella quotidianità dei nostri spazi sociali, dai condomìni alle strade, alle vie, alle piazze, dai bar alle palestre, dalle scuole agli atenei, dai luoghi di lavoro alla più stretta intimità familiare e personale, si ispirano a qualunque cosa che faccia modernamente moda, che sia la tendenza del momento perché quella tale parola ha preso campo sui social ed è diventata “virale“.

Così, nella fluidità devastante di una confusione ideale che va dalla guerra in Ucraina ai pettegolezzi sui personaggi veramente importanti di televisione e Internet, c’è spazio anche per discutere di quella tale pubblicità dove una bambina osserva mestamente delle pesche che, si presuppone, siano belle succose. La bimba le guarda, incurante di essersi allontanata dalla mamma che, infatti, la cerca per i corridoi del supermercato. La trova e asseconda il desiderio della figlia. Le compera una pesca.

La scena passa nell’ambito domestico. Si ride, si scherza e viene il momento di andare dal papà, che aspetta di sotto, accanto all’automobile. Si intuisce che i genitori sono separati perché la madre dice alla piccola che la chiamerà in serata per salutarla. La frugoletta scende le scale, abbraccia il papà e siede in auto. Tira fuori il frutto magico e lo dà al babbo dicendo che è per lui, da parte della mamma.

Lo sguardo del padre si rivolge alla finestra al primo piano, poi ritorna sulla bimba e i due partono con in sovraimpressione il logo del supermercato e la scritta: «Non c’è una spesa che non sia importante».

Quasi due minuti di uno spot interminabile; un piccolo cortometraggio. Fatto pure bene, se intende far scendere la lacrimuccia per quell’empatia che la piccola vorrebbe ricreare tra i genitori separati. Poco dopo la messa in onda di questa pubblicità, Meloni, Salvini, Pillon e altri della maggioranza di governo e del governo stesso si sono prodotti in uno sperticato applauso per un messaggio, a dire loro, familistico, di ottimi sentimenti.

Il titolo della réclame avrebbe dovuto essere “La pesca“. I governativi di destra lo cambiano in: “La famiglia“. E qui il film di Ettore Scola c’entra molto poco. Io ero a tavola quando l’ho visto e ho avuto due impressioni. Una prima di sapere di cosa realmente si trattasse e una dopo aver osservato che era una pubblicità di una catena di ipermercati.

La prima impressione è stata di trovarmi davanti ad una pubblicità progresso che invitava a considerare i sentimenti dei bambini e quelli degli adulti nel contesto di una separazione divorziale. La seconda, a posteriori, è stata quella di un messaggio certamente non disonesto, almeno nei contenuti e nel modo in cui è stato veicolato, ma consapevolmente mandato alla vastità della platea dei consumatori per creare un dibattito ad arte in merito.

Insomma, una bella furbata, un’ottima trovata di chi l’ha pensata e fortemente voluta, sapendo che avrebbe creato, in tempo di social, di meme, di ripetizione costante dei contenuti in mille maniere e modi, una certissima vis polemica dalla rete alle case, dai nostri cellulari alle colonne dei giornali, rimbalzando praticamente ovunque.

Lo scopo primo di chi deve fare affari è stato raggiunto: far parlare di sé. Nel bene o nel male, che se ne parli. Il secondo scopo, non c’è che dire, era quello certamente onesto di far passare un messaggio positivo ma increspato da venature che davvero un po’ rasentano la tendenza a strumentalizzare i bambini per problemi che, invece, dovrebbero essere risolti dagli adulti. Indubbiamente, la protagonista dello spot non è solo la pesca, ma è la mano della bimba e, quindi, lei stessa che porge il frutto al papà sorridente.

Nessuno in quella pubblicità mostra rancori, sentimenti ostili o cenni minimi di contrapposizione emotiva. La famiglia, pure separata, sembra felice e malinconicamente tale tanto da parte della madre che dà uno sguardo dalle tendine dabbasso, quanto da parte del padre che, chino verso la bimba, volta il capo e contraccambia un po’ iconicamente quella linea dei sentimenti che traspare invisibile dalla casa alla strada.

Mentre finivo la mia cena, dove le pesche c’erano, ma tagliazzute nella macedonia, ho pensato che nulla di altro potesse essere quella pubblicità se non il tentativo, per l’appunto scaltro e comprensibilmente interessato (nel mondo della pubblicità e del mercato) di mettere in moto la normale captatio benevolentiae che qualunque “consiglio per gli acquisti” deve contenere nel messaggio che veicola e che intende penetrare nei nostri crani abituati al vuoto, alla banalità, al semplificazionismo esasperato dei concetti.

Ingenuamente, non ho ritenuto che potesse nascerne una diatriba tra destra e sinistra, tra centro e periferia della politica, della società e dei social. E’ davvero un’epoca di stravolgimenti comunicativi.

La macchina divoratrice e distruttrice della criticità ponderata, di un utile criticismo sensato e razionale, divora qualunque interpretazione logica, data da una immediatezza che, probabilmente, proprio perché fa riferimento ad una istintualità quasi ancestrale, rimane il migliore approccio possibile al messaggio che si è appena recepito dalla televisione o dal web.

Tabula rasa. Tutto azzerato. Bisogna riconsedirare il primo commento della propria mente in virtù dei tanti retropensieri e delle retrospettive che, un po’ pregiudizialmente e un po’ con la dovizia della meticolosa ricerca delle storture che vengono introdotte in un linguaggio del detto – non detto, del lasciato intendere e, quindi della subliminalità indisiosamente vishiosa del messaggio, sono ideate ad arte per eterodirigere le opinioni.

Insomma, visto che c’è chi plaude al familismo che sarebbe la prima conseguenza riflessiva della pubblicità della pesca; visto che c’è chi vi legge un tentativo di mortificare la figura della donna – madre, su cui verrebbe a ricadere la colpa della separazione; visto che c’è chi invece soggettivizza il tutto nel personaggio della figlia che è il legame tra i genitori e nella trama del cortissimometraggio scorge l’eccessiva insistenza proprio su ciò; visto che le analisi si sprecano, mi permetto anche io di dire la mia.

Della natura della pubblicità, come già accennato prima, non si può discutere: uno spot è un ripetuto tentativo di convincimento a preferire un prodotto piuttosto che un altro. Per una sorta di empatia che si crea tra chi riceve e chi manda quella comunicazione. La riproposizione sistematica su ogni rete televisiva, ed ora anche su telefonini, tablet e computer di immagini e suoni che divengono qualcosa di endemicamente piacevole, induce a prediligere un acquisto piuttosto che un altro.

Questo è il compito degli esperti di comunicazione, di marketing, di seduzione pelosa delle incoscienze umane. Assodato che la missione della pubblicità non è in discussione, quello che si può ancora dire dei due minuti de “La pesca” riguarda essenzialmente il contenuto che, infatti, è al centro della polemica nazionalpopolare.

Ognuno è libero di dare l’interpretazione che più gli è congeniale: per esempio andando anche a scavare nella proprietà dell’azienda, nel fatto che è sempre stata piuttosto vicino alla destra e che, quindi, probabilmente la famiglia tradizionale è nelle sue corde, piuttosto che l’unione civile.

Si può dire tutto e il contrario di tutto. E’ ovvio che questo non è uno spot che sponsorizza il divorzio come diritto conquistato dopo lunghe lotte socio-politiche in anni non certamente facili dello sviluppo di una nuova democrazia italiana. Ma, del resto, perché mai si dovrebbe fare una pubblicità di questo tipo? Se si vuole spingere i clienti ad andare a comperare al proprio ipermercato si proverà a puntare sulla qualità dei prodotti o sull’efficienza della propria rete di vendita. Invece no.

Perché la pesca, che avrebbe dovuto, come prodotto, essere la protagonista della réclame, diventa la comprimaria: attorno a lei ci sono i sentimenti e le emozioni un po’ ruffiane che vogliono dare alla bambina il compito di essere lei la ricomponitrice di una unità della famiglia che, a ben pensarci, è qualcosa di ben più rilevante se, fuoriuscendo dall’innocenza del ruolo che la piccola ha dovuto recitare, diventa un messaggio che entra nelle case e viene visto dai piccoli, dagli adolescenti.

Questa è la forzatura che, personalmente, leggo in questa pubblicità: attribuire ai minori il compito di farsi carico delle incongruità di un rapporto che li riguarda in quanto figli, ma che, obiettivamente, è riconducibile a relazioni molto più complicate rispetto alla semplicità cui, oggettivamente, i bambini riducono (ed anche molto giustamente) tutto e tutti.

Perché i bambini vengono trasformati nell’anello mancante di una catena che si è spezzata? Per carità, forse sarebbe stato peggio se l’iniziativa della pesca fosse partita dalla madre o dal padre che, dandola alla piccola, avrebbero voluto far arrivare un chiaro spunto di un tentativo di riconciliazione di coppia. Al peggio, davvero, non c’è mai fine. Chi lo ha scritto ha ragione: lo spot si porta appresso, per lunghezza e per una attesa di un finale che non è così eclatante come ci si poteva immaginare, una riguardevole sensazione di noia.

Le millanta letture dietrologiche e le interpretazioni di una politica che deve sfuggire al giudizio dell’elettorato sulla manovra di bilancio incompletabile e, ancora una volta, deflagrante per i ceti più deboli e bisognosi, consentono a questo Paese di soffermarsi molto distrattamente su una pubblicità che è la prospettazione di un sentimento sdolcinato, tuttavia non biasimevole. Repetita iuvant: il desiderio di un figlio di rivedere i genitori insieme nella sua vita è legittimo.

Però i bambini non possono essere dati in pasto alla commercializzazione dei sentimenti, facendoli diventare il trait d’union di un normale avvicendamento dei rapporti di coppia. Noi vorremmo far diventare eterno l’amore, così che possa superare anche la nostra variabilità interiore, rendendo stabile e immarcescibile ciò che invece è destinato ogni momento al mutamento. Noi vorremmo far sembrare la famiglia come l’unica possibilità di felicità per un nucleo di persone che hanno figli.

Ed invece, spesso, la famiglia è il teatro delle peggiori tragedie. Di queste ore sono le cronache nerissime di uomini che sterminano mogli, figli, suocere perché si sentono esclusi da una società che impone dei modelli di successo cui non si arriva, mentre l’ombra del fallimento si getta addosso ad una fragilità già piuttosto incipiente.

Non possono essere i figli più teneramente piccoli a salvarci dai nostri mostri interiri o, anche più semplicemente, dalle contraddizioni che possiamo vivere reciprocamente. Il messaggio sbagliato, se c’è, di quella pubblicità sta tutto, soltanto qui. Nell’aver dato alla bambina un ruolo più grande di lei. Un ruolo che invece noi, come adulti e come cittadini, come umani e come persone, dovremmo in qualche modo interpretare per evitare che siano i bambini a soffrire al nostro pari.

Non possono sopportarlo, non devono subirlo. Lasciate i piccoli fuori dalle pubblicità. I bambini devono solamente giocare e non invece essere il veicolo di sensi di colpa di cui noi soltanto siamo responsabili. Di cui noi soltanto possiamo trovare la soluzione.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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