Ragionando sui dati Istat attorno all’occupazione si va delineando il quadro di crisi e di scarsa mobilità sociale nell’Italia meloniana. La campagna della Pubblica Amministrazione sul posto “figo”.

 di Federico Giusti  

I dati relativi all’occupazione sono spesso controversi, specie se tra i posti di lavoro censiti vengono inclusi anche quelli con contratti precari e a tempo determinato. È naturale che in settori come turismo e commercio possano esserci dei picchi in alcuni periodi dell’anno o vistosi cali in altri. I rilevamenti statistici troppo ravvicinati potrebbero ingannare o essere funzionali ad operazioni politiche, manovre economiche e iniziative di legge prendendo a pretesto dati parziali. Per maggiore chiarezza prendiamo ad esempio gli occupati con diploma superiore o laurea.

Nel 2022 (dati ISTAT), “tra gli under 35 con titolo conseguito da almeno un anno e non oltre tre, cresce il tasso di occupazione: 56,5% tra i diplomati e 74,6% tra i laureati (+6,6 e +7,1 punti sul 2021). Per i laureati il valore supera di 4 punti il livello raggiunto prima della crisi del 2008. Restano molto ampie le distanze con l’Europa. Nel Mezzogiorno, i laureati 30-34enni (21,6% contro 29,6% del Nord) hanno un tasso di occupazione 20 punti più basso rispetto al Nord (69,9%, contro 89,2%). Se i genitori hanno un basso livello di istruzione, un giovane su quattro abbandona precocemente gli studi e uno su 10 raggiunge il titolo terziario. Con almeno un genitore laureato, le quote sono, rispettivamente, meno di tre su 100 e circa sette su 10”.Proviamo a riflettere su questi dati con alcune considerazioni:

– l’ascensore sociale è fermo. I figli del proletariato con genitori poco scolarizzati hanno minori opportunità di completare la scuola secondaria e soprattutto acquisire un titolo di studio successivo (laurea breve o lunga). Non si tratta solo di un mero passaggio di consegne tra generazioni ma anche la fotografia di un accesso all’istruzione ostacolato da condizioni economiche precarie e dall’aumento dei costi. Negli anni neo Keynesiani l’accesso all’istruzione era ritenuto indispensabile anche dentro un processo di democratizzazione della società, l’istruzione era considerata non solo opportunità da offrire ai ceti bassi ma anche strumento per promuovere una mobilità sociale e soprattutto per acquisire maggiore forza lavoro da spendere nel ciclo produttivo. I figli delle famiglie monoreddito potevano, 30 anni fa, accedere all’università con maggiore facilità di oggi, il potere di acquisto era maggiore ed erano inferiori i costi da sostenere per l’istruzione;

– quando l’ascensore sociale è fermo, la società continua ad essere ingessata e in sostanza riproduce all’infinito differenze di classe che derivano dalle condizioni economiche e sociali di partenza. La mobilità sociale è stata un fattore rilevante per lo sviluppo del capitalismo europeo (assai meno per quello Statunitense). Oggi la situazione è decisamente cambiata rispetto al passato. Una società in crisi solitamente resta incapace di promuovere l’ascesa sociale delle classi meno abbienti e la forbice economica e salariale continua ad allargarsi (disuguaglianze in crescita, diversificati stili e qualità della vita);

– l’Italia corre – sempre meno – a due velocità, lo si evince anche dall’accesso dei laureati al mondo del lavoro. Nel Sud l’offerta occupazionale continua a essere decisamente bassa rispetto al Nord anche se le statistiche non aiutano a comprendere quali siano i posti offerti, se retribuiti adeguatamente, con quale contratto e inquadramento. Non è detto che un laureato possa accedere a posti per i quali viene esplicitamente richiesto il titolo di studio della laurea breve o lunga e nel settore privato, ma anche in quello pubblico; numerosi laureati coprono posti per i quali è previsto il titolo di studio inferiore. Da qui la sirena del merito e della opportunità di carriera non sempre caratterizzati da aumenti salariali ma tali da presentarsi come soluzione per gli anni a venire.

Torniamo al documento Istat.

Nel 2022, il tasso di occupazione dei laureati raggiunge l’83,4%, valore superiore di 11 punti a quello dei diplomati (72,3%) e di 30 punti a quello di chi ha conseguito al più un titolo secondario inferiore (53,3%);
il tasso di disoccupazione, pari al 3,9%, è invece più basso di 2,6 e 7,0 punti rispettivamente. Si conferma, dunque, l’evidente “premio” occupazionale dell’istruzione, in termini di aumento della probabilità di essere occupati al crescere del titolo di studio conseguito. Nonostante ciò, nel nostro Paese le opportunità occupazionali rimangono più basse di quelle medie europee anche per i laureati: il tasso di occupazione nell’Ue 27 (87,4%) è superiore a quello dell’Italia di quattro punti, differenza simile a quella osservata per i titoli medio-bassi.

In Italia esiste un forte bisogno di infermieri, tecnici di laboratorio, medici. Eppure i numeri chiusi per l’accesso alle facoltà sanitarie non permetteranno di avere laureati nei numeri necessari a sostituire il personale che da qui al 2030 andrà in pensione per sopraggiunti limiti di età. Le condizioni lavorative nella sanità pubblica hanno poi raggiunto livelli tali di insostenibilità da incoraggiare l’esodo verso strutture private o il trasferimento all’estero con retribuzioni decisamente maggiori.

Emblematico è il fatto che proprio le professioni sanitarie siano indispensabili per il welfare ma vengano invece scoraggiate dai numeri chiusi, supplendo alla conseguente carenza di personale con carichi di lavoro in aumento nelle strutture del Servizio Sanitario Nazionale. Questi fatti incontrovertibili sono debitamente occultati o mistificati perché potrebbero, se adeguatamente esposti, confutare certi luoghi comuni proprio sull’impiego pubblico e sulle condizioni di vita in determinati comparti della Pubblica Amministrazione (PA).

L’Italia potrebbe accrescere, seppur di poco, il numero degli occupati in possesso di laurea solo investendo risorse nel servizio sanitario eppure da qui ai prossimi anni ci saranno solo tagli.

Se poi pensiamo alle professionalità occorrenti nella PA per il raggiungimento degli obiettivi del PNRR, ci rendiamo conto di come il precariato continuerà a fare il bello e il cattivo tempo.

È quindi fuorviante la campagna di comunicazione istituzionale della PA affidata ad un video che sembrerebbe concepito nel fatato mondo del Mulino Bianco. Ne consigliamo vivamente ascolto e visione rappresentando la summa del messaggio mediatico Governativo.

Stando agli ultimi dati disponibili, pubblicati da ISTAT a fine 2022, nelle amministrazioni pubbliche italiane vi sono 421.929 dipendenti a tempo determinato (l’11,7%) e 205.420 non dipendenti (il 5,7%). Il numero, come sopra accennato, è destinato a crescere esponenzialmente per l’attuazione dei piani legati al PNRR.

Se poi consideriamo le partite Iva negli ospedali, gli interinali assunti al posto del personale a tempo indeterminato, i forestali a tempo determinato, i vigili discontinui, i precari nella PA sono assai superiori alle statistiche ufficiali.

Lavoro pubblico e precariato rappresentano un binomio sempre più gettonato, la realtà è ben diversa da quella decantata nella campagna di comunicazione istituzionale del ministero della PA, una realtà fatta di precariato, di bassi salari (siamo fanalini di coda nella UE), di mancati investimenti in materia di formazione.

Questa è la realtà occultata e non saranno le campagne di immagine a cambiarla. Da anni i dipendenti della PA sono oggetto di denigrazione, definiti da un Ministro come fannulloni. Quel posto “figo” esaltato dal video è nei fatti ben diverso, poco attrattivo, mal retribuito e con un diffuso precariato.

https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/precariato-diffuso-nella-pubblica-amministrazione-e-ascensore-sociale-in-panne

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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