Ferdinando Pastore

La voglia di guerra viene diffusa dalle norme del virtuale e così scompare. Resta solamente la leggenda narrativa a uso e consumo dello spettatore, quella dell’entusiasmo.

La voglia di guerra del mondo liberista

C’è un richiamo strisciante, invasivo e cortese alle armi. Viene costruita una nuova mistica del combattente rigoroso nella produzione di efficienza.

Il soldato commuove nei video seriali imposti dagli algoritmi quando torna a casa sorridente e appagato del proprio buon lavoro. Detiene una qualità essenziale richiesta agli esseri umani di mercato: la trasparenza. Un individuo robotizzato che assolve diligentemente la managerialità digitale dei droni, delle bombe intelligenti.

La guerra viene diffusa dalle norme del virtuale e così scompare. Resta solamente la leggenda narrativa a uso e consumo dello spettatore, quella dell’entusiasmo di chi si arruola in un impeto emotivo ma razionalizzato dalla tecnica.

Si raggira così l’orrore, perché nascosto alla vista. Il senso della vita va in dissolvenza. Céline raccontò la terra di nessuno della prima guerra mondiale, quella in cui il campo di battaglia era nascosto dalle trincee e dove il nemico al massimo era un’ombra.

Uno spettro in grado di ridurti in poltiglia umana nascosto dietro le sperimentazioni tecnologiche. I generali sentenziavano il ridicolo a brandelli di carne appiccicati al fango e quel piglio alla Sturmtruppen riecheggiava nelle memorie del reduce, ridotto ad anonimo errante con il suo cervello strapazzato dai fischi dei proiettili.

Fu quella guerra, furono quegli uomini sputati dal buon vivere civile che interiorizzarono il tramonto dell’eroe, l’estinzione della ricompensa. L’uomo ridotto a macchina non possedeva gambe, braccia, organi vitali ma componentistica. Lì la coscienza del movimento dei lavoratori assunse una forma di rifiuto assoluto per l’industria di morte.

I contadini, gli operai, i cafoni mutilati si accorsero di essere bulloni per una catena di montaggio.
Oggi la riabilitazione del soldato si serve del virtuale perché la battaglia sia percepita come asettica ma sempre giusta. Così gli imperativi di comando delle alte sfere possono argomentare senza pudori di vendette, di reazioni, di guerre morali.

Logiche scomparse dopo i campi di sterminio, dopo Hiroshima, si riscattano nella guerra di civiltà. Tanto da poter deridere la diplomazia. Anch’essa orpello novecentesco.

Il virtuale decompone la morte che si trasforma in trafiletto. Stanotte cinquanta morti bombardati. Solo cinquanta. Ma sono morti senza nome, senza corpi e anima. Sono invisibili sotto il fumo dei palazzi immortalato dalle immagini. Il virtuale allontana da noi l’altro. Dentro quei palazzi non ci sono famiglie, bambini che vanno a scuola, che calciano un pallone. Il virtuale ricompone il razzismo.

Quelle vite sapevano solo pronunciare Allah Akbar; questo ci dicono i professionisti della propaganda sofisticata. In fondo non una gran perdita.

C’entra qualcosa il nostro modello esistenziale, la nostra passione per l’individualismo concorrenziale in questo manifesto dell’indifferenza? Sì che c’entra, certo. Chi non ha un valore quantificabile in moneta non si può definire propriamente una persona. Tutta questione di scelte o di esercizio della ragione. Il perdente annienta la propria cittadinanza per proprie responsabilità.

La dinamica dello scarto umano è consustanziale all’inganno portato dalla disciplina di mercato. Cosicché una casta aristocratica potrà padroneggiare il cosiddetto merito ed espellere la voce di tutti gli altri.

In questo macabro meccanismo, pilastro ideologico delle liberal-democrazie, si mimetizza la nuova passione per la guerra. Céline è solo un piccolo antidoto

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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