Fabrizio Venafro

Anche in occasione di quest’ultimo conflitto israelo-palestinese, viene rispolverato l’abusato ritornello della contrapposizione tra democrazia e autoritarismo, tra libertà e oppressione. Ciò avviene ogni volta che, come occidentali, vediamo confutati, ancor prima dei nostri ideali, i nostri interessi. L’Occidente si sente depositario dei valori della democrazia, il che significa di libertà e uguaglianza. Ma, al di là della fallacia di tale teorema, se andiamo a indagare il fenomeno democrazia, nella sua realizzazione storica piuttosto che nella sua idealità, ossia non fermandoci all’autorappresentazione che come Occidente propagandiamo per il mondo, scopriamo una realtà più complessa di quella che ci si vuole propinare.

I teorici della democrazia hanno sempre avuto come modello l’organizzazione politica della Grecia antica e, in particolare, dell’Atene del V secolo a.C.. E, in effetti, il termine nasce in quella realtà per indicare una gestione del potere diffusa tra la cittadinanza. È il popolo che, riunito in assemblea, si occupa della gestione della polis. Ma, qui c’è un primo problema perché con popolo si intendono i cittadini e la cittadinanza, in quel contesto, è tutt’altro che inclusiva. Vi sono escluse le donne e gli schiavi. Questi ultimi, i quattro quinti della popolazione, rendono possibile il funzionamento della democrazia. Per dirla con David Held (Modelli di democrazia, 1989), la figura del libero cittadino si stagliò con pieno rilievo sullo sfondo del lavoro schiavile. La cittadinanza prevede un altro da sé. Questo altro da sé è rappresentato dagli schiavi, all’interno della polis, e dai barbari al suo esterno. Già da allora, prende forma la prassi di considerare i barbari come non umani, giustificando così qualsiasi atteggiamento violento che si potesse porre nei loro confronti. Nelle coeve ricostruzioni storiche delle guerre tra greci e persiani, ha origine, come evidenzia Luciano Canfora (Democrazia, Storia di un’ideologia, 2004), il confronto tra oriente e occidente. Una frattura, con confini tutt’altro che netti nel corso dei secoli, che si è trasmessa fino a noi e che ha caratterizzato il pensiero occidentale nel corso di più di due millenni. Tale visione di inclusione/esclusione, noi/loro, umani/non umani, degni o non degni di veder riconosciuti i diritti elementari e la vita stessa, ha alimentato la giustificazione ideologica del razzismo moderno e contemporaneo. I paesi democratici sono cresciuti sulle spalle di altri.

Fin dalle origini, quindi, la prassi democratica si è accompagnata alla discriminazione interna agli stati (liberi e schiavi, possidenti e nullatenenti, nella Grecia antica, capitale e proletariati nell’evo moderno) e a una guerra di rapina all’esterno dei confini nazionali. La democrazia ateniese si reggeva sulla schiavitù e sulla logica imperiale impregnata di razzismo. Quella odierna degli Stati Uniti d’America, si fonda sulla dicotomia interna tra possidenti e non possidenti (gli Usa hanno un indice di disuguaglianza tra i più alti al mondo), oltre che tra bianchi e neri, e sulla logica imperiale ereditata dall’Europa occidentale. Da non sottovalutare il fatto che l’atto fondativo degli Usa sta proprio nella guerra di conquista di territori appartenenti ad altri popoli, nel loro sterminio o nella loro ghettizzazione. I nativi americani (per i quali i concetti di libertà, uguaglianza e gestione diffusa del potere si attagliavano più che ai coloni bianchi) venivano appunto considerati barbari, non umani e non c’erano remore, per la nascente democrazia d’oltreoceano, nello sterminare le popolazioni che vivevano su quei territori da sempre. Le logiche di sterminio nei confronti dei nativi americani erano esplicitamente rivendicate da alcuni governatori di stati e da presidenti come Thomas Jefferson e Theodor Roosevelt (Michael Mann, Il lato oscuro della democrazia. Alle radici della violenza etnica, 2005). La stessa schiavitù dei neri sembra non provocare imbarazzo alla neonata democrazia americana, tanto che i rivoluzionari francesi non considerarono quella americana una rivoluzione democratica improntata alla libertà.

Nella seconda metà del Novecento, sono i comunisti ad essere identificati come i nuovi barbari. Si badi bene che tale epiteto non era riservato solo all’Unione Sovietica e agli stati dell’Europa Orientale, ma a qualsiasi movimento comunista che nel sud del mondo ambiva a liberarsi del lacci del colonialismo. Ed è proprio nei confronti dei comunisti asiatici e sudamericani che si scatena una persecuzione su vasta scala le cui vittime eccellenti risultano proprio la democrazia e l’autodeterminazione dei popoli. Non vi erano scrupoli a rovesciare governi democraticamente eletti se minacciavano gli interessi imperiali e se erano formati da forze di sinistra. Ciò che terrorizzava di più il governo statunitense era proprio la possibilità che governi che si poggiassero su forze comuniste e democratiche potessero avere successo e dimostrare la possibilità di un’alternativa al capitalismo predatorio. Dall’Indonesia al Cile, passando per il Guatemala, il Brasile, l’Argentina, il Vietnam, per citarne alcuni, la logica imperiale ha dominato la seconda metà del Ventesimo secolo, come evidenzia la ricostruzione di Vincent Bevins (Il metodo Giacarta, 2021).

Se si ha presente questo lato oscuro della democrazia, assume una propria coerenza la retorica democratica che si sente recitare in questi giorni e che contrappone la democrazia al terrorismo; ancora una volta, gli umani ai non umani. Si chiede di schierarsi da una parte o dall’altra: con la democrazia o con i barbari. I morti non sono tutti uguali, come il diritto a non vedere invaso il proprio territorio, continuamente violato da Israele, non è equamente riconosciuto. Questo teorema comporta anche che siano giustificati i bombardamenti che mietono vittime tra la popolazione civile di Gaza, sull’assunto che avrebbe solidarizzato con i terroristi non essendosi ribellata. Ma, attenzione, questo ragionamento contiene una contraddizione di fondo che si ritorce contro le stesse democrazie. Perché soprattutto ad esse dovrebbe essere rivolto e non a regimi considerati non democratici. Si assiste così a un completo rovesciamento di logica. L’essere calata in una democrazia, farebbe infatti sì che la popolazione di Israele, come quelle dei paesi occidentali, sia responsabile in solido delle scelte che fanno i governanti. Persino dei pogrom organizzati dai coloni nei confronti dei villaggi arabi in Cisgiordania (il termine è usato da critici israeliani come l’ex numero uno del Mossad Tamir Bardo). Il teorema occidentale dovrebbe far salve proprio le popolazioni dei paesi non democratici che non hanno voce in capitolo sulle scelte delle loro classi dirigenti. In realtà, siamo di fronte a una narrazione fallace che cela il fatto che la democrazia occidentale non ha mai significato la gestione diffusa del potere e ha tra i suoi connotati la calunnia (praticata anche in casa propria), la disuguaglianza e il razzismo.

Il problema, allora, è che la storia, come anche il lessico, la fanno i potenti, almeno nell’immediato. Ci si comporta come il personaggio di Lewis Carrol, Hupty Dumpty, che dice ad Alice: quando io uso una parola essa significa esattamente ciò che io voglio che significhi….né più né meno;e all’obiezione di Alice secondo cui bisognava vedere se si aveva il potere di far significare alle parole cose differenti, il nostro protagonista ribatte: bisogna vedere chi è che comanda, ecco tutto.

Ma se volessimo essere coerenti con quello che predichiamo, non con quello che pratichiamo, allora dovremmo rimettere in discussione questo malinteso senso di democrazia e fare un profondo esame della nostra falsa coscienza

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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