E’trascorso un mese dall’attacco terroristico di Hamas contro Israele. Un mese in cui i morti si sono susseguiti ad altri morti, gli ostaggi ai valichi chiusi, i bombardamenti agli ospedali e alle scuole devastate, la politica genocida del governo di Tel Aviv ai campi profughi colpiti volutamente, come tutto del resto…

La versione ufficiale è sempre la stessa: si cercano i membri delle Brigate Ezzedin al-Qassam e, se anche così fosse, come nel caso di ambulanze dilaniate dalle bombe o di centri di raccolta della popolazione civile di Gaza, per un terrorista ucciso vengono assassinate decine e decine di innocenti.

E’ trascorso un mese da quanto a millequattrocento israeliani è stata strappata l’esistenza: di punto in bianco. In quei kibbutz al limite del confine militarizzato della Striscia di Gaza, in quel rave party in cui centinaia di ragazze e ragazzi si divertivano e, pochi istanti dopo, erano accasciati al suolo, sulla sabbia di un deserto che si tingeva di sangue. Una morte venuta dal cielo, con i miliziani di Hamas a bordo di lunari equipaggiamenti per il volo. Sembrava impossibile che tutto questo potesse accadere, ed invece è successo.

Quella che era considerabile, perché immaginabile come tale, una delle linee di delimitazione più osservate e pattugliate al mondo, si è rivelata sguarnita di truppe, di mezzi difensivi; praticamente un colabrodo che con qualche bomba a mano, qualche ruspa e delle macchine volanti veramente degne della fantasia visionaria (eppure così anticipatrice) di Verne e Well è stato possibile forare, oltrepassare per fare strage di civili, per ammazzare brutalmente uomini, donne, bambini provocando la sterminatrice reazione del governo di Netanyahu.

Tutt’ora questa strategia di Hamas è poco chiara. Ma nella penombra delle ipotesi e delle illazioni, qualcosa comunque traspare in direzione della ricomposizione dei fatti e di un futuro incasellamento di tutte le tessere scombinate di un mosaico che, ad oggi, oggettivamente è impossibile definire chiaramente nella sua immagine ultima.

Le domande restano e devono rimanere come paletti critici, come espressione di un grande interrogativo: i terroristi islamici che dicono di volersi battere la causa dell’indipendenza e della libertà del popolo palestinese, lo sapevano che la reazione israeliana sarebbe stata quella che ha portato a contare diecimila morti a trenta giorni dal 7 ottobre?

La risposta, almeno a questa domanda, sembra abbastanza scontata: sì, lo sapevano. Perché se siamo in grado noi, che viviamo per interposte informazioni ed esperienze la questione israelo-palestinese da decenni e decenni, il polso della situazione dovevano certamente averlo meglio loro che governano la Striscia di Gaza, che la opprimono con un regime autoritario, poliziesco, repressivo e intollerante verso qualunque stile di vita che non sia quello jihadista.

Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, dopo trenta giorni di aggressioni vicendevoli, di bombardamenti da mare e dal cielo, di penetrazione di carri armati e di fanteria nella Striscia, ha giustamente e crudemente affermato che Gaza è ormai un grande cimitero di piccoli corpi, di bambini che sono rimasti intrappolati sotto le macerie di interi quartieri rasi al suolo.

Che sono morti di stenti, col colore della pelle divenuto quello del cemento sbriciolato, grigio chiaro, polveroso e soffocante, in ospedali dove manca tutto, dove vieni operato senza anestesia. Il diritto della risposta israeliana al terrorismo di Hamas si è da subito trasformato in un preciso intento geopolitico: annientare i palestinesi di Gaza, spingerli ad una nuova Nakba, premere sul valico di Rafah affinché fosse l’Egitto ad accoglierli.

Cacciati verso il sud della Striscia, decine di migliaia di profughi, fuggiti nella speranza di scampare alla morte, si sono ritrovati gli aerei israeliani sulle loro teste e con questi le bombe. Altre bombe a cui non era possibile sfuggire. L’attacco di Tsahal ha mostrato niente di più e niente di meno quelli che erano gli ordini del governo di Tel Aviv: occupare Gaza per gestirla anzitutto militarmente.

Il ruolo dell’ANP in questo contesto è stato messo in rilievo da una spinta statunitense ad una serie di dichiarazioni che, altrimenti, sarebbero state rimandate, perché prendere una posizione chiara in questa tragedia voleva e vuole dire unire tanto la condanna morale del genocidio del popolo palestinese da parte di Israele quanto esporre una via di uscita dal ginepraio della guerra in un contesto internazionale tutt’altro che chiaro e dai contorni definibili. Lo schema delle alleanze è completamente saltato.

L’Arabia Saudita, per fare un esempio, ha rinviato al 2025 la ridefinizione degli accordi con lo Stato ebraico. Il Qatar ha ufficialmente deprecato gli attacchi di Hamas, ma continua a sostenerne l’azione con proventi economici, aprendo ad una intermediazione che va nella direzione auspicata da Washington che, a sua volta, teme il coinvolgimento dell’Iran nella polveriera mediorientale e un conflitto veramente regionale, palesemente ingestibile, incontrollabile, altrimenti non circoscrivibile.

Dopo trenta giorni di massacri, il diritto di difesa di Israele appare per quello che voleva essere nelle intenzioni di Netanyahu e della sua cerchia governativa del gabinetto di guerra che unisce maggioranza e opposizione della Knesset: una occasione per farla finita con una parte delle rivendicazioni palestinesi, un ulteriore ridimensionamento degli spazi rimasti nella West Bank, un sostegno esponenziale alle politiche coloniali, brutalmente razziste, violente, sopraffattrici verso qualunque diritto fondamentale, umano, civile, sociale che non sia il loro.

L’espansionismo israeliano trova nel 7 ottobre l’occasione per farla finita una volta per tutte con i palestinesi. Una grande tragedia nazionale diventa il trampolino di lancio di una nuova sfida al mondo intero: l’esistenza dello Stato ebraico sopra ogni altra cosa. E pazienza se viola le risoluzioni dell’ONU, se non tiene conto del diritto internazionale che disciplina le guerre, se milioni di persone soffrono la sete, la fame e non hanno più le loro case o hanno perso intere famiglie sotto i bombardamenti.

La distinzione tra Hamas e i palestinesi è una questione che resta a noi occidentali per illuderci di discutere su una distinzione che Israele dice a parole di voler perseguire ma, nei fatti, fa esattamente l’opposto e colpisce indiscriminatamente qualunque obiettivo possa fare tantissimi feriti, tanti morti e portare Gaza e il suo territorio limitrofo ad una resa incondizionata sotto ogni punto di vista.

L’assedio di Gaza è quindi prodromico di una ossessione che si realizza perché è nella natura stessa di una mutazione ancora più nazionalista del sionismo classico per uno Stato che si pretende democratico e che, invece, altro non è se non un avamposto dell’imperialismo a stelle e strisce e una negazione di sé stesso come nazione civile che può stare in quel consesso di paesi liberi che dovrebbero dettare l’eticamente corretto al resto del pianeta.

Lo spirito dei kibbutz, delle comunità di base che vivono attorno ad una idea di consociazione e di condivisione di eguali diritti ed eguali responsabilità è l’opposto della politica colonialista in Cisgiordania, della guerra contro i palestinesi a Gaza, della repressione totalizzante verso chiunque non sia israeliano e, quindi, distinguibile dal panarabismo che, comunque, si fatica a vedere in questo conflitto.

La Turchia, la Siria, l’Iran ed anche l’Arabia Saudita hanno preso delle posizioni nette al riguardo, pur nelle rispettive differenze che determinano le specificità in politica estera e i bilateralismi. E’ ovvio che il rapporto tra Teheran e Hamas non è lo stesso che intercorre tra il movimento jihadista ed Ankara. Così come non si possono classificare alla stessa stregua neppure gli schemi alleantisti tra Hezbollah e Brigate Ezzedin al-Qassam o con i pasdaran iraniani.

Il quadro è davvero molto complesso e non è stato semplificato da un’Israele guidato da una destra estremista, fanaticamente iper-religiosa, che considera l’ebraicità l’unica cultura vera della regione, quella eletta da Iddio, al pari del musulmani più intransigenti che, per l’appunto si richiamano, alla loro fedeltà anzitutto al Profeta e ad Allah prima ancora che alla libertà e alla integrità del popolo palestinese.

Il rischio della sovrapposizione dei piani è nelle cose: religione, politica, tattiche e strategie militari per il dominio di importanti rotte commerciali, e per lo stabilimento di altrettanto determinanti avamposti occidentali o (medio)orientali nella trafficatissima zona tra il Mediterraneo e il Golfo Persico fa da presupposto strutturale ad un riallineamento degli opposti poli di un capitalismo liberista che non è per niente estraneo alla sola reale fisionomia bellica del conflitto.

Si combatte sul campo, si spiana Gaza e si fa strage dei civili mentre, dietro le quinte, si muovono grandissimi interessi petroliferi, militaristi e di ogni altra natura possibile e immaginabile. Hamas aveva chiamato l’operazione terrorista del 7 ottobre “Alluvione al-Aqsa“, dandole un carattere potenzialmente deflagrante, come se avesse la certezza che quell’attacco sarebbe riuscito in grande e avrebbe devastato Israele e sconquassato l’intero Medio Oriente. Così è stato.

Ed allora si torna ad una delle domande iniziali: è mai possibile che uno Stato che ha un apparato spionistico di eccellenza, con servizi segreti interni ed esterni che vantano successi pressoché ininterrotti, che nella loro storia hanno messo a segno colpi come il rapimento di Eichmann, che hanno costanti rapporti con gli americani, con la CIA, quindi con le strutture più longeve dello spionaggio internazionale, si sia fatto beffare in questo modo il 7 ottobre?

Quella barriera che faceva di Gaza una prigione a cielo aperto, prima che diventasse un immenso cimitero, davvero era un perimetro di cartapesta? Davvero era così frangibile per il fatto che il governo di Netanyahu aveva da qualche tempo spostato la maggior parte della sua militarissima attenzione verso la ulteriore colonizzazione della Cisgiordania? Davvero poteva essere lasciata sguarnita in questo modo?

Sono interrogativi che rimangono inevasi. Per volontà o per impossibilità ad arrivare ad un punto di svolta su una indagine che, nel mezzo della guerra, nessuno al momento intende fare. Il complottismo è sempre pronto a fare la sua parte, ma quello che occorrerebbe mettere in sequenza sarebbe ogni singolo atto della politica israeliana degli ultimi sei mesi, dell’ultimo anno. Se è vero che Hamas non veniva monitorata, spiata e intercettata proprio da dodici mesi a questa parte, pare elementarmente banale domandarsi: perché?

Una sottovalutazione del pericolo? Oppure una scelta consapevole e voluta? In entrambe le ipotesi ci troveremmo davanti ad un comportamento che ondeggia dal mancato criterio alla vera e propria intenzione criminale. Come la guerra. Come la colonizzazione forzata del territorio palestinese. Come tutto quello che ne consegue seppure indirettamente.

L’ondata di antisemitismo che monta in tutta Europa, ed in molte altre zone del pianeta, è la conseguenza di questo genocidio nei confronti dei palestinesi. Estremisti dell’una e dell’altra parte si confrontano in uno spietato, cinico gioco al massacro, colpendo chi non ha nessuna responsabilità, nessuna colpa, nel nome di una giustizia e di una libertà che è coniugata con un suprematismo ideologico e religioso che siamo abituati a riconoscere dopo innumerevoli stragi fatte nel nome di dio, delle radici proprie, dell’identità.

Le ombre del passato si stagliano su una foschia del presente che impedisce di vedere un percorso diplomatico come soluzione delle guerre che aprono questo secondo decennio del nuovo secolo. Le ombre del passato che sfuggono alla memoria, che si rigenerano grazie ai peggiori istinti che si fanno forti degli interessi che li supportano.

Orrore, crudeltà, odio e morte sono il corollario impressionante di una scena mondiale dove va in rappresentazione un nuovo catastrofico atto della tragedia di una umanità incorreggibile. Lavorare alla costruzione della pace è oggi un atto davvero rivoluzionario.

MARCO SFERINI

foto: screenshot ed elaborazione propria

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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