Davide Sali 

Con la radio che ronzava, per il mondo, cose strane

Canzone per l’estate, Fabrizio De André

La congiuntura geopolitica che stiamo vivendo in questo periodo è definibile – sulla scia di Giovanni Arrighi – “transizione egemonica”[1]. Gli Stati Uniti, fatti ebbri dalla loro vittoria sull’Unione Sovietica, hanno vissuto trent’anni nell’illusione di essere la prima e incontrastata potenza mondiale. Questo fatto si vede, tra le altre cose, nella hybris di dividere il globo in paesi del primo mondo, paesi in via di sviluppo e paesi del terzo mondo, quasi che il destino dei secondi e dei terzi non sia altro che quello di diventare tali e quali ai paesi post-industriali dell’Occidente. Non si può voler altro che occidentalizzarsi.

Questo mondo è finito, il nostro è ormai “tutto un altro mondo” (dal titolo di una bellissima mappa di Limes[2]). Ci sembra di poter affermare che, di questo fatto, se ne sono accorti un po’ tutti, non solo gli analisti più lucidi, ma persino i commentatori mediatici occidentali più ideologizzati. Questa transizione egemonica– sia detto di passaggio – non indica la fine del primato americano (che potrebbe continuare tranquillamente ad essere prima potenza mondiale nei prossimi decenni), né tanto meno la fine dell’impero americano; indica, più semplicemente, la crisi del primato e dell’egemonia che apre un periodo di instabilità e di possibilità incerte.

Affrontare a viso aperto questa crisi implica la pesante messa in discussione di dogmi ritenuti validi fino all’altro ieri, ma appare vieppiù evidente che le classi dirigenti, i commentatori mediatici di cui sopra e buona parte dell’opinione pubblica occidentale vivano lacerati tra la constatazione innegabile della transizione egemonica e il lutto verso quell’ordine che si dipingevano come ottimale e di cui rifiutano istericamente la fine. Il loro mondo è abitato da fatti spiacevoli marginali in un contesto di generale prosperità, vivono in un sonno costante della ragione strategica, incapaci di pensare le basi di potere e di violenza su cui poggia questa prosperità. Ebbene ora, stante la fallacia di fondo nell’applicare categorie psicologiche a fenomeni storico-sociali, si può però dire che questi gruppi vivano un ritorno del rimosso e una chiusura sorda a questo ritorno. Ma cosa sta – in una battuta – ritornando? La storia.

Il ritorno della storia implica il ritorno – questa è la nostra tesi – di lotte non mediabili dal dialogo. Questa tesi, così espressa, può dar luogo a dei fraintendimenti: occorre precisare i termini che vi compaiono. Anzitutto, “ritorno”: non si può pensare che la storia se ne fosse effettivamente andata e che quindi il momento unipolare fosse un vero periodo di fine dei conflitti, di pace e di libero scambio. La storia era ed è rimossa dall’orizzonte interpretativo delle classi dirigenti occidentali, le quali concepivano la globalizzazione come effettiva creazione di un villaggio globale e non come l’estensione violenta dell’impero americano, come “l’ideologia dell’egemonia americana”[3]. Il movimento storico, tuttavia, restava operante sottotraccia e si manifestava nei buchi interpretativi, negli scarti, negli inciampi. Ciò che è cambiato ora è che quegli inciampi non sono più ignorabili, essi invece rappresentano ormai la norma.

In secondo luogo, dobbiamo chiarire come intendiamo “storia” unitamente a “dialogo”. La ragione per cui li mettiamo insieme risulterà ora chiara. L’illusione post-storica in cui ci siamo crogiolati negli ultimi trent’anni è l’illusione del dialogo possibile. In breve, aut storia aut dialogo. Questo può sembrare paradossale fintanto che si concepisce il movimento storico come un dialogo tra parti (stati, popoli, culture…) e il momento astorico o post-storico come il dominio e l’egemonia di una sola parte che schiaccia o annulla tutte le altre rendendo impossibile a queste l’ingresso nelle vicende storiche. Ebbene, questa visione sbaglia nell’intendere il dialogo. Il dialogo – e questo è il punto cruciale – è possibile solo a partire da un orizzonte categoriale comune. Perché del dialogo sia possibile, i dialoganti devono condividere un mondo, un orizzonte di discorso, un sistema di compatibilità nel quale sono considerate ovvie e naturali determinate validità. Ad esempio, in un mondo in cui la libertà individuale è un valore, ci si può dividere, si può dialogare su cosa intendere per libertà ed individuo e su quali siano le modalità ottimali per perseguire e rendere efficace il valore. Ma il valore non viene e non può venir discusso. Il valore vale. Punto. Quando si arriva alla necessità di discutere i valori si esce dall’orizzonte del dialogo e si entra in un periodo di crisi, si pone in questione la direzione di una civiltà (o di una vita singola), il senso – cioè l’orientamento – del mondo:

I valori, quando sono vivi, vengono vissuti pre-riflessivamente. Questo diventa necessario quando non tracciano più una via entro cui la vita può muoversi, quando non smuovono più l’esistenza. Sentire un valore significa già indirizzarsi a esso, essere messo in movimento da esso. Solo valori che non dispensano più vita alcuna hanno bisogno di essere giustificati normativamente.[4]

Giustificare normativamente i valori non è possibile, è uno sforzo vano, essi sono l’ordinamento stesso del mondo e il loro venir meno è l’effettivo perder senso del mondo stesso. Ora, è su questo punto che si gioca la storia. La storia entra in gioco allorché è in discussione il mondo stesso, dove non c’è dialogo su tematiche, ma scontro tra immagini di mondo. Per questo, la storia è essenzialmente “lotta” (quarta parola da chiarire).

La lotta ha luogo quando a scontrarsi non sono le opinioni su uno sfondo condiviso, ma gli sfondi stessi. Questa parola ha assunto un’accezione negativa perché è stata monopolizzata da quelli che potremmo chiamare i moralisti post-storici. Costoro, abitanti dell’illusorio mondo del dialogo, pensano lotta e vedono subito violenza e massacri. Al contrario, la lotta – anche pacifica – è motore della storia perché permette di forzare il muro di sistemi di compatibilità chiusi e autoreferenziali, com’è ormai, a nostro giudizio, l’immagine di mondo delle classi dirigenti occidentali. La lotta serve a far entrare nel radar dei decisori istanze nuove e diverse che non possono venir intercettate dall’alto, ma che possono solo sfondare dal basso.

Per di più, questi moralisti post-storici, che si dipingono come portatori di pace e diritti, sono – a ben vedere – più pericolosi di coloro che hanno assunto la lotta come dato di realtà progressivo della storia. Infatti questi, quando si rendono conto che ci sono popolazioni, culture, mondi che non accettano le loro regole del gioco e che non abbracciano entusiasticamente i loro valori (quando ritorna il rimosso), vanno in tilt e sono privi della capacità di decodificare i messaggi altrui. È, alla fine, piuttosto semplice: quella che viene incontro, la roccia sulla quale va a sbattere il sistema categoriale naturalizzato e universalizzato non viene recepita come un’istanza con le sue ragioni (per quanto lontane possano essere dalle nostre), ma un puro irrazionale, che quindi non è da “togliere” à la Hegel, ma da schiacciare, reprimere, distruggere. Il tilt è isterico, l’incomprensione e lo spaesamento sono totali. Pertanto – in questo panico – non resta che la furia del distruggere, un breve (almeno, così ce lo si racconta) stato d’eccezione volto a reprimere ciò che de iure non dovrebbe esistere per poi tornare a una situazione pacificata, a un giardino lussureggiante di diritti umani e libero scambio.

Alla ragione post-storica manca la capacità di affrontare le istanze con cui non si può dialogare. Manca la capacità di capire l’altro. Capacità, come si vede, altrettanto necessaria quanto impossibile. Impossibile: perché se fosse possibile capire l’altro questo altro sarebbe semplicemente uno con cui dialogare, uno che condivide lo sfondo. Ma è comunque necessaria, perché se si abdicasse al tentativo di comprensione reciproca si cadrebbe in guerra assoluta, volta alla distruzione totale del nemico e non alla lotta proficua e sana. Si ricadrebbe, insomma, in quel tilt isterico dei moralisti post-storici.

La geopolitica incarna questa oscillazione tra impossibilità e necessità: è costante tentativo, sempre frustrato, di mettersi nei panni altrui, ben sapendo che ci sarà sempre un residuo di incomprensione e che questo residuo ha la sua ragione di esistere – sebbene questa ragione non venga vista. Per questo motivo, la geopolitica resta testardamente una scienza inesatta, rifiuta di ricalcare il modello delle scienze dure. Infatti, al contrario di scienza politica ed economia, essa non vuole ricercare formule universali che spieghino l’eterna verità dei rapporti internazionali (o dei rapporti di scambio, nel caso dell’economia), ma si sforza di generalizzare tenendo ben fermo il fattore umano, storico e contingente sempre in agguato, in attesa di negare la generalizzazione.


[1] G. Arrighi, B.J. Silver, Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari, Mondadori, Milano 2003.

[2] Questa mappa è accessibile sul sito di Limes (https://cdn.gelestatic.it/limesonline/www/2023/09/1_Tutto_un_altro_mondo_edito923.jpg) , è la prima mappa a colori dell’ultimo numero “La Cina resta un giallo” e ha dato anche il titolo al numero 10/22 della stessa rivista.

[3] L. Caracciolo, “L’importanza di non essere globali”, editoriale di Limes, “Il bluff globale”, n. 4/2023, p. 7.

[4] V. Costa, L’Assoluto e la storia, Morcelliana, Brescia 2023, p. 20

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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