Federico Giusti 

Desertum fecerunt et pacem appellaverunt

(Fecero un deserto e lo chiamarono pace)

Si profilano dubbi all’orizzonte sulla tenuta economica di Israele, tanto che nelle ultime settimane un numero imprecisato ma assai elevato di aziende ha chiuso i battenti (Il Sole 24 Ore , menzionando l’Ufficio statistico israeliano, parla di un terzo delle imprese registrate). La guerra presenta dei costi elevati e potrebbe non bastare il sostegno economico e militare statunitense: intere attività produttive sono ferme per mancanza di manodopera con decine di migliaia di riservisti al fronte impegnati nelle operazioni di guerra. Il perdurare dell’operazione militare potrebbe quindi avere ripercussioni devastanti sulla tenuta economica, e politica, di Israele, una vittoria militare coinciderebbe con la crisi e le contraddizioni interne ad un paese comunque diviso non tarderebbero a manifestarsi.

La recessione è ormai evidente, la crisi colpisce i settori trainanti dell’economia israeliana come edilizia, turismo, industria tecnologica, quasi il 10 per cento della forza lavoro è al fronte e tra evacuazioni, chiusura di siti produttivi per timore degli attacchi missilistici, chiusura forzata delle scuole e dichiarazione dello stato di guerra oltre 400 mila unità sono fuori dai luoghi della produzione.

La domanda dirimente è una sola: quanto tempo durerà questa guerra e quali saranno i costi per Israele? Gli Usa devono tenere a bada il fronte interno, con numerose proteste, anche della comunità ebraica statunitense, contro il sostegno di Biden a Tel Aviv per la morte di quasi undici mila civili; per questo, senza far venire meno il sostegno logistico e militare, stanno rallentando l’operazione militare a Gaza (anche se le difficoltà incontrate sul campo sono evidenti e non bastano i bombardamenti a tappeto per sradicare la resistenza palestinese).

Se confrontiamo quanto accade oggi con gli eventi del 2014 ci rendiamo conto che il numero dei riservisti mobilitati 9 anni fu decisamente inferiore ai numeri attuali, eppure i 50 giorni di operazione militare provocarono un deciso rallentamento dell’economia interna e la crisi si protrasse per anni, spingendo Israele a una nuova strategia culminata con gli accordi di Abramo. La liquidazione della resistenza e del popolo palestinese avrà un costo non solo di vite umane ma anche economico; se si dilatassero poi i tempi dell’operazione militare l’economia e anche il sostegno della opinione pubblica alla guerra potrebbero subire dei contraccolpi negativi inimmaginabili.

I settori dell’economia capitalistica israeliana non dormono sonni tranquilli, prova ne siano numerose dichiarazioni diffuse negli ultimi giorni di aperta critica all’operato del Governo; ad esempio nel settore dell’edilizia le maestranze palestinesi non trovano lavoro e sappiamo quanto sia rilevante questa manovalanza a basso costo. In questo caso le ragioni dell’economia stridono con quelle della guerra; sostituire la forza lavoro palestinese non è cosa facile e da realizzare in tempi celeri, da qui la chiusura della stragrande maggioranza dei cantieri edili e di numerose attività nei servizi.

Analogo discorso vale per l’industria del turismo, con la guerra in corso sono stati annullati viaggi organizzati da tempo, la cacciata delle maestranze palestinesi comporta la paralisi di queste attività alquanto rilevanti nell’economia israeliana

Perfino la stretta osservanza dei precetti religiosi sta diventando un problema rilevante in tempi di guerra e sappiamo quanto pesi sulla tenuta del Governo la salvaguardia di certe abitudini e tradizioni che poi rappresentano il collante ideologico della coalizione.

Per queste ragioni si parla sulla stampa israeliana e statunitense di stato depressivo della popolazione israeliana anche se nei media occidentali si continua a parlare di un popolo unito nel sostegno alla guerra contro Gaza.

I soli ad esultare sono i militari e l’apparato industriale legato alla guerra, nei prossimi anni i sistemi di arma utilizzati nella carneficina di Gaza avranno un vasto mercato internazionale ma non sarà sufficiente a rivitalizzare una economia in fase recessiva e con innumerevoli attività ferme.

Gli Usa hanno assicurato un pacchetto di aiuti militari considerevole pur chiedendo al Governo di non distribuire ai coloni armi leggere dopo le documentate uccisioni di civili palestinesi e dopo l’appello di 100 parlamentari democratici a Biden per tutelare i loro diritti, con l’ opinione pubblica statunitense sempre più divisa (emblematica è la presa di posizione pro Israele di quella che in Italia veniva esaltata come la componente liberal socialista dei democratici, a conferma di quanta confusione ideologica alberghi anche a casa nostra).

Stando a quanto letto sulla stampa economica internazionale il sistema missilistico Iron Dome, che intercetta e colpisce i missili provenienti da Libano e Gaza, sarà raddoppiato; il pacchetto di aiuti militari a Taiwan, Israele ed Ucraina deciso dal Governo Biden incontra resistenze nel Congresso Usa, diviso tra chi vorrebbe privilegiare il fronte mediorientale e quanti invece ritengono prioritaria la scelta militar politica in funzione anticinese.

Siamo ancora sicuri che l’economia capitalista basata sulla guerra possa sostenere gli sforzi economici su più fronti? Nel frattempo nelle società occidentali la militarizzazione di scuole e università, la narrazione mainstream di un Occidente impegnato nella difesa della democrazia e della pace, di alti valori etici e morali inizia a scricchiolare palesando sempre più numerose contraddizioni.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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