Onofrio Romano 

Ricordiamo la figura di Toni Negri attraverso questo saggio-recensione di “Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione” (pubblicato da Harvard University Press e poi in lingua italiana da Rizzoli) con cui il filosofo e politico padovano, col sodale Michael Hardt, dopo le note vicende giudiziarie e l’esilio, tornò alla ribalta della scena intellettuale e politica internazionale.

  1. “Oppresso politicamente, dipendente e sfruttato fino al midollo economicamente, questo è l’aspetto generale dell’uomo, soprattutto dell’uomo che lavora in questa società. Su di esso gravano lo Stato, la chiesa, il proprietario, le istituzioni di ogni genere al loro servizio, l’ideologia, le usanze e le tradizioni che lo rendono schiavo e che si adoperano a stordirlo nella mente e nell’animo per tenerlo lontano dalla vera via della rivoluzione (…) Il socialismo emancipa l’uomo in tutti i sensi, gli consente di manifestare liberamente e con forza tutte le energie e tutti i potenziali umani, tutte le capacità e tutti talenti (…)”
  2. “(…) Noi lottiamo in quanto crediamo che il desiderio non abbia limiti e che la vita possa ininterrottamente riprodursi e godere nella libertà e nell’uguaglianza (…) Il modo di produzione della moltitudine è contro lo sfruttamento in nome del lavoro, contro la proprietà in nome della cooperazione, e contro la corruzione in nome della libertà. Esso autovalorizza i corpi che si trovano al lavoro, si riappropria dell’intelligenza produttiva con la cooperazione e trasforma l’esistenza in esperienza di libertà.”

Il mondo è ingiusto. Gli autori dei due pezzi affermano le stesse cose, condividono la medesima visione, stanno all’evidenza dentro un paradigma unico. Eppure, i primi sono nella polvere, i secondi sugli altari. Dei primi si sono perse le tracce, sui secondi è tutto un pullulare di riflessioni, recensioni, dibattiti, assemblee, lezioni, seminari di approfondimento, ecc.

Questo è solo uno degli innumerevoli paradossi generati dal ‘caso editoriale’ in esame (si sottolinea non a caso l’espressione ‘caso’ – a scapito del testo – in quanto è a questo livello che l’evento si fa produttore di repliche riflessive; funziona meglio, per dirla etnometodologicamente, come oggetto di ricerca piuttosto che come risorsa per la ricerca). Quanto scritto dagli anonimi addetti stampa di Enver Hoxha (gli autori del brano di testa) potrebbe nel migliore dei casi suscitare ilarità (nel peggiore, profonda indignazione, visti gli esiti del regime enverista) e comunque nessuno è disposto a prenderli sul serio, siamo tutti perfettamente convinti che le loro affermazioni siano servite solo a coprire spettacolarmente gli orrori di un regime liberticida. Così la penserebbero anche gli estensori del brano che segue, Negri & Hardt (d’ora in poi, N.H., al singolare, come su certi manifesti in bianco e nero), i quali interpretano tutto l’accaduto dall’umanesimo ai giorni nostri come l’abusiva presa di potere del repressivo trascendentalismo modernista a scapito dell’originario immanentismo del bovillusiano homohomo, l’uomo al quadrato, potenziato da intelletto, scienza, arte e corpo sciolto, che si esprime, si esprime, si esprime, desidera, desidera e poi desidera. L’uomo al cubo, abbondiamo!

Possibile che non ci sia alcuna parentela tra modernità verticale e orizzontale, trascendente e immanente? Che l’una sia semplicemente la negazione dell’altra? E che quindi sia possibile scrollarci di dosso il fallimento della modernità (fragoroso ad Est, impalpabile ma non meno rovinoso ad Ovest) con una semplice alzata di spalle, facendo finta che quel progetto non ci appartenga, non abbia nulla a che fare con le nostre smanie desideranti?

Quando vogliono, i due scavano; quando i conti non tornano, invece, si fermano alle apparenze. Il disciplinamento è la sostanza della modernità comunista-occidentale o ne è solo un epifenomeno? E’ per via della disciplina repressiva che i regimi dell’Est si sono sfarinati o perché erano intimamente pervasi dai precetti così ben formulati nel passo inaugurale sopra riportato?

N.H. avrebbe ragione a citare Jameson quando afferma che il collasso sovietico è stato causato “non dal suo fallimento, ma dal suo successo, almeno per quanto riguarda la modernizzazione” (p. 426, nota 27), se avesse la vista così allungabile (come peraltro dimostrato in altri passi del testo) da riconoscere che quella modernizzazione è figlia primogenita, legittimissima, dell’homohomo e del suo piano d’immanenza. E’ l’auto-costituzione che ci ha fiaccati. L’umanità è tornata a respirare quando, riscoprendo la sbornia dell’etero-direzione, si è scordata del dovere d’auto-gestione. Siamo morti di autonomia non di repressione, noi moderni!           

Non c’è dubbio, N.H. è un ottimo elargitore di consolazioni. Ci propone la sintesi e il superamento di tutte le avanguardie di pensiero circolanti (dal postcolonialismo al postmodernismo) – e siamo al secondo paradosso – eppur si giova di un armamentario concettuale di una vetustà ingiustificabile. A trent’anni dall’Economie politique du signe (Baudrillard) siamo ancora qui a discutere di come afferrare e santificare il valore d’uso e di come resuscitare il soggetto desiderante, il soggetto di bisogni. Decenni passati invano. Secoli ormai. Nietzsche, Mauss, Bataille, il miglior Freud (quello dell’al di là del principio del piacere) e compagnia si sono sprecati invano a rammentarci le nostre parti maledette, lo spirito di reversione, la necessità strutturale di farci fuori, di fagocitare i poli negativi, di darci finalmente alla costruzione impossibile ma ineludibile dell’homo-non-homo e, invece, inspiegabilmente, rimaniamo ancora incantati di fronte agli spacciatori di merce guasta, l’homohomo, gli spazi lisci, il desiderio a unilinearità illimitata e tutto positivo. Che pena! Quante repliche vogliamo ancora dalla storia prima di capire che, a dispetto di Marx, noi possiamo vivere solo nella preistoria (e fortunatamente! La storia è lo zero-morte, ergo lo zero-vita).

Ma è poi così inspiegabile questo incanto? No, se introduciamo il terzo paradosso. Più d’ogni altro, in questo frangente storico, il libro dà “la sensazione del presente” (è di moda direbbe Simmel), eppure non c’è nulla di più inattuale. E’ la sua inattualità la chiave del successo. Contro la costitutiva vaghezza del discorso postmoderno, N.H. ci dice chiaro e tondo che “le cose stanno così”. Il mondo contemporaneo è una piramide a tre piani, esattamente tre, con più livelli interni e gli abitanti della piramide sono tizio, caio, augusto, i quali hanno queste precise funzioni. Corollario: a me soltanto, N.H., è dato di vedere contorni e contenuti della piramide. Io soltanto ho le visioni. I due, insomma, offrono una risposta non ambigua a quella che Bauman indica come una delle topiche costitutive dell’esistenza postmoderna, l’insicurezza cognitiva: finalmente qualcuno ci dice come stanno le cose “nel loro complesso”. Non più iniziative intellettuali frattali, pezzi sparsi di discorso, infarciti indigeribilmente di ‘se’ e di ‘ma’, di riserve di verifica, di slalom argomentativi, di “ha ragione l’uno ma anche l’altro”, di punti di vista infiniti e tutti in fondo validi e al contempo fallaci, ecc. Le cose stanno così e basta. E la nostra generosità è tale che ci piace socializzarne i benefici. Mai visto nulla di più assertivo negli ultimi trent’anni. Quale migliore consolazione per i tanti orfani di una visione, una purchessia! Dopo aver letto il libro ci si sente finalmente sotto un riparo sicuro. La sua lettura può essere un valido sostituto funzionale delle gated communities, in cui tutto ritorna per incanto ad avere un senso. Il pregiudizio anti-sociologico di marca crociana, che da sempre irretisce gli intellettuali italiani, corre in soccorso ad accantonare qualsiasi pudore metodologico, dando libera cittadinanza ai liberi battitori. E, conseguentemente, l’oggettiva non falsificabilità della visione non è più un problema, anzi è un biglietto da visita necessario per chi si candida, neanche troppo velatamente, a ripetere le gesta di Marx ed Engels.

Su questa ripetizione rimbalza il paradosso successivo: nel discorso pubblico, il testo è stato da subito ribattezzato come la bibbia del movimento no-global. Ebbene, è difficile trovare nella letteratura proliferata in questi ultimi anni una più euforica esaltazione della globalizzazione e delle sue potenzialità emancipative, pardon “liberatorie”. “Invece di resistere alla globalizzazione occorre accelerarne l’andatura” (p. 198); “La moltitudine … deve spingersi dentro l’Impero per uscirne fuori dall’altra parte” (p. 208). Più specificamente diremmo che, sebbene il saggio attecchisca tra i fronti di più aspra critica della modernità, esso in realtà non fa altro che reclamare una modernità estrema, totale, immanentizzata al cubo (moderno, più postmoderno, più post-postmoderno). Le topiche fondanti della modernità elevate al massimo dispiegamento. E’ in questo senso che i due giocano a fare i Marx ed Engels, i quali, com’è noto, hanno sempre esaltato la forza rigeneratrice del capitalismo, giustiziere di tutte le forme retrive della socialità pre-moderna e ad un tempo occasione di liberazione per tutti, soprattutto per gli sfruttati di oggi, che grazie alla sua espansione e conseguente capitolazione diverranno un giorno padroni del proprio mirabile destino, soggetti desideranti il desiderio, volenti la volontà, autonomi produttori tautologici della propria autonomia produttiva tesa alla produzione di non importa cosa purché in cooperante autonomia. Sfortunatamente N.H. non fa tesoro di una delle uscite più intelligenti dell’illustre predecessore: la storia si ripete sempre in maniera grottesca. E grotteschi sono pure i personaggi che ne animano la ripetizione. Al lettore le conclusioni.

Vi è un punto di fuga appena accennato nell’architettura negriana. Si tratta dell’apertura dell’ultima sezione, quella dell’annuncio della caduta dell’Impero. Serve a mettere le mani avanti, a liquidare ex-ante qualsiasi obiezione d’insostenibilità del piano d’immanenza. Oggi, si sostiene, il prototipo del demoniaco trascendentalismo, il Leviathan hobbesiano che argina la guerra di tutti contro tutti, non è più necessario, poiché esso aveva come fulcro una soggettività pre-sociale. Nell’Impero, invece, il fuori è inconcepibile, la soggettività pre-sociale non si dà più, si danno solo soggetti già cooperanti, già integralmente sussunti nel politico-sociale, nella comunità generatrice. Il biopotere non sovrasta le soggettività, le informa dall’interno senza lasciare resti. Per questo, à quoi bon le trascendenze? E’ l’ora di schiacciare sull’acceleratore, di dare l’ultima spallata per appropriarci della chance di liberazione (dalle trascendenze) che l’Impero ci offre. In soldoni, i due ci stanno dicendo che l’interiorizzazione della disciplina del moderno è giunta a un tale stadio di perfezione da non abbisognare più di alcun potere coercitivo ordinante. L’ordine sarebbe un prodotto spontaneo dell’interazione tra soggetti già “ordinati dentro”. L’esistenza di un potere coercitivo, infatti, segnalerebbe che l’uomo è ancora vivo, è ancora capace di fuga, d’anarchia, di disordine, d’indeterminatezza: cioè, è ancora un uomo. La possibilità di fare a meno di un potere sorvegliante, invece, presuppone che il sorvegliato non sia più in grado di scappare da nessuna parte. Un incubo. Eppure quest’incubo eccita smodatamente N.H. (ha proprio ragione a definirsi “comunista” e non, come qualcuno lo vorrebbe, “anarchico”). Invece di proporre la fuga da noi stessi e la remissione di ogni pratica produttiva, N.H. esaurisce tutta la sua vis rivoluzionaria nel progetto di abbattimento degli ultimi residui di trascendenza, già del resto, a suo dire, tramortiti e in crisi strutturale. Una lotta contro gli zombi, insomma. La montagna che partorisce il topolino. E per fare cosa poi? Per lasciare spazio ad un piano d’immanenza popolato da soggetti ipermodernizzati, universalizzati, cooperanti, disciplinatissimi, buoni, occupati tutto il santo giorno a desiderare e a produrre. Perché tutto questo dovrebbe essere desiderabile? Perché dovrebbe risultare un bel mondo? E perché, soprattutto, questo mondo sarebbe un inedito nella storia (dal momento che a noi sembra di averlo già visto all’opera e non ne abbiamo tratto alcuna eccitazione)? Non speriate di saperlo da N.H.

Ovviamente, le considerazioni in parola funzionano solo a patto di prendere per buone le visioni negriane, danno per scontata, insomma, la validità della lettura proposta da N.H. delle effervescenze imperiali. Ma non c’è nulla di meno scontato. Il riferimento, in particolare, è al senso della “comunanza”: “il fatto è che siamo dentro a un universo produttivo creato per la comunicazione sociale, per i servizi interattivi e per i linguaggi comuni” (p. 283). Tutto ciò è innegabile, ma la questione centrale è: di che pasta è fatta questa comunità? E’ qui che N.H. si esercita a prendere lucciole per lanterne. I due assimilano immediatamente la nuova comunanza allo spazio pubblico moderno, universalistico. Pretendono che le reti della cooperazione in cui si intrecciano i nodi umani del postmoderno producano oggettivamente moltitudini aperte alla contaminazione, depurate d’ogni appartenenza, ostili a qualsivoglia ermetismo identitario, votate anima e corpo al divenire, ecc. Essendosi auto-affrancato da ogni obbligo di presentazione d’indizi, N.H. può benissimo fare a meno di vedere che i software cooperativi della produzione postmoderna sono nella larga maggioranza dei casi piegati al conseguimento di peggiori cause. E’ tutto un rinchiudersi da qualche parte a doppia mandata, tutto converge verso la produzione di comunità cintate (da quelle virtuali della rete delle reti a quelle di cemento e filo spinato delle nuove residenze americane, i cosiddetti CID – common interest developments), di etnie fasulle ma armate, di identità posticce e nondimeno blindate, ecc. Dice bene Rifkin: “Per ironia della sorte, mentre Truman (il riferimento è al film The Truman Show) tenta con ogni mezzo di sottrarsi all’ambiente artificiale che lo imprigiona, la maggioranza di noi sta compiendo un viaggio in direzione opposta”. La nuova comunanza ha molto più a che fare con il particolarismo comunitario vantato da Tonnies, che non con l’universalismo societario dallo stesso aborrito. E la paradossalità della visione di N.H. va al cuore stesso del suo caso editoriale: coloro che volessero comprendere il significato intimo del “particolarismo comunitario” potrebbero trovare gli esempi più patenti tra la grande maggioranza di coloro che oggi portano sotto braccio una copia di Impero.

Le nuove comunità praticano di tutto tranne quelle che N.H. definisce “pratiche produttive”. Le loro sono, innanzi tutto, “pratiche improduttive” e di consumo (nel doppio senso di consumo di beni e di consunzione soggettiva). La produzione è concepibile solo nell’universo dell’umanesimo modernista ed esse alla modernità hanno voltato le spalle già da tempo. La pillola della produzione è sempre amara: non diventa improvvisamente dolce in virtù di un marchio d’autonomia. Nella nuova comunità improduttiva non si dà autonomia, ma solo perdita di sé nell’ebbrezza eteronoma.

N.H. può benissimo scegliere di consolarsi decretando che queste pulsioni siano sempre gli effetti perversi o i rigurgiti rantolanti del trascendentalismo (come quando, ad esempio, stigmatizza il ritorno dei nazionalismi). Per conto nostro, sospettiamo che essi siano riconducibili al fenomeno esattamente contrario: l’immanentismo universalistico. La nuova comunanza non converge sul piano d’immanenza, bensì corre a gambe levate nella direzione contraria per evitare d’incontrarlo.

Quando è opportuno fermarsi all’apparenza, i due preferiscono scavare a vuoto nell’acqua. Si prenda ad esempio il discorso sui migranti, nuova classe eletta (da N.H.) agli onori dell’avanguardia della storia (pardon, della storicità, contingente, materialistica, ecc.). E’ un vero caso da Mister Magoo. Magoo-N.H. si accalora nell’esaltarne lo spirito nomade, la mobilità circolatoria antimperiale, la fuga permanente (sempre, però, di primo livello, vale a dire limitata alla fuga dalla trascendenza), mentre i sans papiers – che ingrati – lottano a denti stretti per ottenere i papiers. Vale a dire, per smetterla di fuggire, per piantare le tende a tempo indeterminato, per integrarsi, per stare a tutto titolo dentro l’occidente, per goderne lo spettacolo senza timori di cartellini rossi, per portare la domenica la famigliola a Disneyland. Coloro che sostengono la lotta per la cittadinanza globale sono dei sovversivi o molto più prosaicamente dei coerenti liberali-liberisti? Si può credere alla prima ipotesi solo facendosi attraversare e quindi transustanziare dalla forza, questa sì, “trascendentale” delle visioni di N.H. e dal loro imperio

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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