di Stefano Galieni

Si preparano mesi importanti per quello che è il fronte di guerra su cui l’UE è impegnata oramai da decenni e che raramente riempie le pagine dei giornali perché non è nemmeno considerato un conflitto. Parliamo di un contesto radicalmente asimmetrico: da una parte molte fra le più potenti nazioni del pianeta che investono miliardi di euro in dispositivi militari e di controllo, pratiche di detenzione, di respingimento, di deportazione, dall’altra l’arrivo solo nei primi 11 mesi del 2023 di 355 mila persone entrate in Europa per chiedere asilo o protezione, a fronte di un continente di 450 mln di abitanti. Chi invoca strumenti legislativi e militari per combattere sarebbe preso per pazzo in base a questi dati. Ma non c’è nulla di cui ridere. Ed in effetti se si pensasse che nell’anno appena trascorso è aumentato, soltanto nel Mediterraneo Centrale, del 60% il numero dei morti “per naufragio” accertati, passando dai 1413 del 2022 ai 2271. Certamente da noi ha pesato lo scempio della legge 50 il cd “Decreto Cutro”, ma il dato che accomuna l’intero pianeta è che a fronte di un emergenza umanitaria che in ogni modo può essere definita tranne che numerica, l’Unione risponde unicamente con le armi del contrasto e del proibizionismo. E mentre ogni tanto un naufragio, il blocco di una nave umanitaria, un respingimento collettivo (illegale) verso la Libia, riescono a bucare il muro di gomma del silenzio informativo, nel vuoto assoluto resta quanto accade sulla “rotta balcanica”, al confine fra Grecia e Turchia, persino nelle acque dell’Atlantico prospicenti al Marocco. Anche su quei percorsi, con meno rumore, si uccide, si respinge, si sottopone a violenza inaudita quello che per l’UE e una buona parte dei partiti politici che vi sono rappresentati è il nemico da cacciare. Le forze delle destre che, per quanto divise, si contenderanno gli scranni dei seggi al parlamento europeo, su tale tema non hanno dubbio o differenza alcuna e i mesi che ci separano dalle elezioni saranno necessari per aumentare il proprio consenso sulla pelle di chi fugge, di chi muore, di chi ci specula e di chi disinforma fino all’inverosimile. Ma cosa accadrà in questi mesi che ci separano dalle elezioni di giugno?

Il 20 dicembre scorso, Consiglio Europeo e Parlamento, hanno raggiunto un accordo di massima che ha sbloccato il New pact on migration and asylum, presentato il 23 settembre 2020, dalla Commissione Europea, rimasto congelato durante la pandemia e ripreso, in “zona Cesarini” prima delle elezioni. Il testo su cui ancora si dovrà lavorare è confuso e non contiene, come affermato da esponenti della sinistra moderata, “luci e ombre” ma si tradurrebbe, se applicato, in un radicale cambiamento regressivo – se ce ne fosse ancora bisogno – nelle politiche di asilo e di accoglienza. Alcune cose restano come se nulla fosse. Non viene modificato il principio cardine del regolamento di Dublino: ogni persona migrante può chiedere asilo solo al primo Paese dell’Unione europea in cui arriva. Ci saranno però più deroghe: ricongiungimenti famigliari, conoscenza della lingua o ottenimento di un titolo di studio in un Paese, consentono a un richiedente asilo di presentare a quel Paese la propria domanda. Su questo punto ha vinto il Gruppo Visegrad, nonostante i sedicenti sovranisti italiani. La responsabilità dello Stato di primo ingresso durerà 20 mesi, 12 per le persone salvate in mare: un compromesso tra la richiesta di estenderla a due anni da parte del Consiglio e la posizione del Parlamento che voleva un anno.

Inoltre, il regolamento stabilisce un meccanismo di “solidarietà obbligatoria” da attivare quando uno o più Stati membri si trovino “sotto pressione”. Gli altri Paesi membri dell’Ue possono contribuire ad alleviarla in due modi: ricollocando un certo numero di richiedenti asilo sul proprio territorio, oppure pagando un contributo in denaro per finanziare mezzi e procedure di accoglienza nel Paese sotto pressione. I finanziamenti possono anche essere indirizzati a misure relative alla gestione dei flussi migratori nei Paesi extra-europei: un punto che preoccupa molto le organizzazioni del settore. L’Ungheria di Orban non ha aderito al documento sottoscritto dagli altri, a partire da questo punto, dichiarando che il proprio paese è indisponibile sia ad essere di ricollocamento che a versare risorse verso altri Paesi.

In totale il cosiddetto solidarity pool, prevede un minimo di 30mila ricollocamenti e 600 milioni di finanziamenti all’anno, di cui beneficeranno gli Stati soggetti a maggiore pressione migratoria. Gli altri potranno scegliere uno dei due modi per fare la propria parte: significa che ogni ricollocamento potrà essere “sostituito” con un contributo di 20mila euro. Il calcolo della parte che spetta a ogni Paese in termini di ricollocamenti o finanziamenti tiene conto di due fattori: popolazione e prodotto interno lordo. In altri termini, le persone saranno sul mercato come prodotti da consumare o da vendere ad altro Stato. Su questo punto giocherà molto la propaganda elettorale, potendo nascondere sotto il tappeto un problema strutturale. I Paesi dell’UE avranno sempre più bisogno in tempi brevi, di manodopera a disposizione, non solo con basse qualifiche – altro che esercito industriale di riserva – e una piccola parte di detto fabbisogno, potrà circolare mediante ricollocamenti o attraverso la scelta di offrire protezione solo ed esclusivamente a chi è utile come forza lavoro.

I ricollocamenti dunque non saranno di per sé obbligatori, ma se non ce ne saranno abbastanza, uno Stato membro sotto pressione migratoria può evitare di prendere in carico le richieste d’asilo dei cosiddetti “dublinati”, persone migranti che sono approdate sul suo territorio e poi passate irregolarmente in un altro Paese.

Ci sarà, secondo il Patto, un nuovo regolamento in merito alle richieste di asilo che di fatto sancisce che i principi fondamentali di tale diritto non esistono più. Tale diritto, in origine pensato su basi soggettive diventa, secondo il patto, legato al paese di provenienza. Alcune persone migranti saranno sottoposte alla procedura tradizionale, altre a una procedura “accelerata” di frontiera detta border procedure. Una sorta di limbo destinato a coloro che provengono da Paesi considerati “sicuri”, che dovrebbe durare al massimo 12 settimane (sei mesi se si considera anche l’eventuale rimpatrio): le autorità nazionali potranno esaminare più velocemente le richieste di asilo, senza che i richiedenti siano giuridicamente considerati all’interno dei propri confini, anche se di fatto verranno ospitati sul territorio nazionale. Tali procedure, di dubbio valore anche dal punto di vista delle più elementari convenzioni internazionali, saranno applicate solo a certe categorie di persone migranti: quelli che mentono alle autorità e in base a questo, sono considerati un pericolo per la sicurezza, o semplicemente provengono da Paesi ai cui cittadini non viene di solito concesso l’asilo, cioè con un tasso di riconoscimento inferiore al 20%. Persone che hanno pochissime possibilità di ottenere asilo perché provengono da un Paese che non è in guerra. Spesso sono migranti venuti a cercare lavoro”, ha spiegato a Euronews Fabienne Keller, eurodeputata francese di Renew Europe e relatrice del regolamento. Ad alcuni può apparire un ennesimo tentativo di trovare appigli giuridici per giustificare la presenza in Europa di persone non titolate ad avere protezione. Invece tale proposta, affatto giustificata da motivi di ordine quantitativo ma unicamente da ragioni politiche, rimuove secoli di storia rispetto al diritto d’asilo. Per ogni Stato membro è previsto un tetto massimo di persone che possono essere sottoposte alla border procedure, la quale coinvolgerà a livello europeo al massimo 30mila persone alla volta.

Nel 1989 un rifugiato dal Sudafrica dell’apartheid, venne ucciso da mano camorrista, mentre si guadagnava da vivere, raccogliendo pomodori, nelle campagne casertane di Villa Literno. Si chiamava Jerry Essan Masslo, per l’Onu era un rifugiato a tutti gli effetti, per il governo italiano, che allora riconosceva tale diritto unicamente a chi scappava dalle dittature del socialismo reale e, bontà loro, dal Cile di Pinochet, Jerry Masslo era un irregolare. 35 anni dopo si è finiti in una condizione ancora peggiore, per avere briciole di protezione devi essere bianco e possibilmente cattolico, scampano solo coloro che fuggono da conflitti impossibili da ignorare. Le nuove normative accentueranno tale divisione: non conta più la splendida dichiarazione della nostra Costituzione che garantisce asilo a “chi sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Un diritto soggettivo che sparisce in funzione delle leggi grottesche della geopolitica e ad un impronta neocoloniale per cui si decide chi ha e chi non ha diritto. Le radici della “cultura dello scarto” elette ad affermazione teologica, si traducono in maniera molto più materialista in un’egemonia occidentale tanto destinata a perire quanto presuntuosa di poter continuare ad imperare. La procedura di frontiera comporterà, quando sarà in funzione, una detenzione di fatto di migliaia di persone migranti. Inutile dire che i tempi dipenderanno dalle autorità nazionali, la detenzione di richiedenti asilo sarà istituzionalizzata, al massimo la Commissione potrà comunque ordinare a un Paese di escludere le famiglie con bambini dalla procedura, se non è in grado di offrire condizioni di accoglienza adeguate. Anche quel minimo di garanzie offerte a donne e minori sarà di fatto in balia delle decisioni delle autorità dei singoli Stati e, alla faccia dei tanti rimandi alla “sacralità della famiglia”, i nuclei familiari di richiedenti asilo saranno considerati separabili, come se nulla fosse, merce, ripetiamo e non persone.

E se anni fa, ai tempi di Matteo Renzi, si consideravano comunque come attenzionati per la protezione, coloro che provenivano da paesi in cui poi, almeno il 75% dei richiedenti otteneva asilo, oggi si giunge al cinismo di affermare che in caso di aumento eccessivo degli arrivi “un Paese richiede alla Commissione l’attivazione della situazione di crisi, e se accordata, le sue autorità nazionali potranno applicare misure più severe, compresi periodi più lunghi per le procedure di asilo: fino a dieci giorni per la registrazione del richiedente, e sei settimane in più per la border procedure, che in questi casi si applicherà anche a chi proviene da un Paese con il tasso di riconoscimento dell’asilo inferiore al 50%”, La “buona UE” insomma, accetterà in casi estremi anche di trattenere detenute, persone da espellere, anche per un periodo più lungo del previsto, per evitare che le inevitabili lentezze nei rimpatri, negli esami delle domande, creino condizioni di sovraffollamento di difficile gestione. Ne siamo certi? La detenzione privatizzata che si prospetta è business allo stato puro, tanto che si prospettano persino scenari di delocalizzazione carceraria verso paesi extra UE, con costi minori, assenza di impatto con la popolazione europea, minori controlli, insomma un affare per chi gestirà i nuovi campi. Non esisterà comunque una soglia fissa per determinare la crisi: come spiegato dal relatore del regolamento in questione, il socialista spagnolo Juan Fernando López Aguilar, dipenderà dalle circostanze nazionali e locali e da come il sistema di accoglienza e asilo di un Paese risponderà all’incremento di arrivi irregolari. Quando un Paese attiverà la situazione di crisi, dovrebbero aumentare le misure di solidarietà da parte degli altri Stati, sia in termini di ricollocamenti (la via prioritaria) sia in termini di finanziamenti. “La Commissione richiederà che la solidarietà copra totalmente i bisogni dello Stato dichiarato in situazione di crisi, per un periodo massimo di 12 mesi”, secondo López Aguilar. E qui un primo ostacolo che dovrebbe far saltare – se ci fosse una seri informazione – qualsiasi trionfalismo xenofobo. Quello che viene chiamato implementing ovvero l’atto legislativo della Commissione per imporre i ricollocamenti dovrà passare dal Consiglio dell’Ue, ovvero degli Stati membri che potranno opporsi. Di fatto assisteremo ad una sfiancante propaganda elettorale in cui le destre, nel silenzio di molti, affermeranno di poter predisporre un sistema di gabbie che ci preserverà da ingressi non desiderati, ma gli arrivi – inevitabilmente date le crisi in corso – continueranno, e, non avendo abrogato il Regolamento Dublino, i ricollocamenti resteranno una chimera.

Resta l’obiettivo di aumentare drasticamente i rimpatri, ma resterà anche questa una meteora elettorale. Aumenteranno i dispositivi per raccogliere informazioni su nazionalità, età, impronte digitali e immagine del volto, di chi si presenta – con ogni mezzo – alle frontiere esterne dell’UE. Il tentativo attraverso il sistema Eurodac, sarà quello di aggiornare le regole della banca dati con le prove biometriche raccolte durante il processo di screening per evitare che una singola persona faccia più richieste di asilo. Tutto questo impegno in risorse di fronte ad un aumento complessivo degli arrivi in un anno del 17%

I dati numerici, per quanto freddi, sono necessari. Chiamano allarme numerico l’arrivo in Italia e a Malta di 152.211 persone quando, data la pericolosità del viaggio. è riaumentato l’arrivo di persone sulle Canarie, passando per l’Africa Occidentale (+ 116%), per un totale di 34.422 persone. Ovvio che tutti questi dati siano forniti da Frontex, l’Agenzia europea che riceve centinaia di milioni di euro per lasciare le persone crepare in mare, evitare gli interventi di soccorso, favorire respingimenti nei lager libici. Come si fa allora a parlare di luci e ombre?

E si torna alla domanda iniziale: cosa ci aspetterà nei prossimi mesi? Al di là della fretta delle forze politiche europee che convergono verso soluzioni proibizioniste, sul tema immigrazione ci aspetteranno grandi annunci di trionfi immaginati e sognati, miliardi di euro impegnati – invece che ad un welfare universale – a dimostrazioni di forza che provocheranno lutti, uomini, donne e bambini considerati – come affermava lucidamente Alessandro Dal Lago, “non persone”, che potranno crepare in nome di qualche migliaia di voti in più, di un peso maggiore nelle istituzioni europee. Per modificare con profondità le condizioni nel continente servirebbe invece una visione a lungo termine che un continente destinato a morire di una misera vecchiaia, ad estinguersi lentamente ma inesorabilmente, non può possedere, non può affermare. Se solo un lampo di intelligenza e di razionalità rompesse il cielo oscuro di chi ha rinunciato al futuro, convinto che preservare i propri privilegi possa garantire prosperità, lo sconcerto diventerebbe pensiero collettivo. Il connubio mostruoso a cui si accennava all’inizio, fra guerre guerreggiate e stragi silenziose, produrrà deserti, ma questa volta, forse in maniera ineluttabile, il deserto, in pochi decenni, sarà chiamato Europa

Stefano Galieni

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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