Renato Caputo

Il potere della classe dominante di una ristretta minoranza di sfruttatori sarebbe debole se si fondasse esclusivamente sul monopolio della violenza legalizzata. La grande maggioranza degli sfruttati sarebbe pronta a sfruttare ogni momento adatto per mettere in discussione il potere della classe dominante degli sfruttatori.

Il potere si base sempre, in primo luogo, sul monopolio della violenza legalizzata o, quantomeno, socialmente giustificata e giustificabile culturalmente. Nella società capitalista la violenza degli apparati repressivi dello Stato, di polizia, esercito e servizi segreti è sempre giustificata e salvaguardata se ha il fine diretto o indiretto di difendere la proprietà privata dei grandi mezzi di produzione e di riproduzione della forza lavoro. Tanto che persino tutte le volte che gli apparati repressivi dello Stato borghese utilizzano la violenza anche al di fuori di tale scopo di fondo e al di fuori della legalità tale violenza è sempre giustificata, a meno che non metta in discussione in modo diretto e indiretto la proprietà privata dei mezzi di produzione. Se la legge, in effetti, punisse il guardiano dell’ordine costituito, autore di una violenza illegale e non finalizzata al suo scopo sociale fondamentale, sarebbe messo in qualche modo in discussione il monopolio di classe della violenza. Ecco che, perciò, un tutore dell’ordine costituito paga penalmente una violenza illegale esclusivamente quando è così palese e indifendibile sul piano etico che se non venisse in qualche modo sanzionata getterebbe un’ombra e porterebbe l’opinione pubblica e il senso comune a dubitare della funzione sociale degli apparati repressivi dello Stato. La seconda gamba su cui si regge il potere è la capacità di fortificare l’indispensabile autorità con l’autorevolezza. Il modo più efficace per conseguire quest’ultima e rendere inattaccabile il monopolio della violenza legalizzata e/o giustificata è la capacità di egemonia, cioè la decisiva abilità di esercitare il dominio con il consenso dei subalterni. Il potere della classe dominante degli sfruttatori, che sono una ristretta minoranza, sarebbe debole se si fondasse esclusivamente sull’autorità, assicurata dal monopolio della violenza legalizzata o comunque giustificata. La grande maggioranza degli sfruttati e dei subalterni sarebbe pronta a sfruttare ogni momento adatto per mettere in discussione il potere politico e sociale della classe dominante degli sfruttatori. Mentre, se si ha la necessaria autorevolezza, cementificata dalla capacità di far apparire come giusto e necessario il proprio ruolo sociale di classe dominante, l’autorità e il monopolio della violenza difficilmente saranno messi seriamente in discussione, se non da una ristretta minoranza che è facile, quando si controllano gli apparati repressivi dello Stato, rendere inoffensiva. Inoltre tanto più un popolo è avanzato nel processo di civilizzazione tanto più fra il potere e le masse si svilupperà lo scudo sociale e culturale della società civile (moderna e borghese), egemonizzando la quale la classe dominante non dovrà temere una guerra di classe di movimento dei subalterni, che potranno scatenarla esclusivamente dopo aver vinto la lunga e complessa guerra di posizione e logoramento in funzione del controllo della società civile e della conseguente capacità di egemonizzare i ceti sociali intermedi. Ricapitolando il potere nei paesi più moderni sarà saldo solo se avrà la capacità di cementificare l’autorità attraverso l’autorevolezza, offerta dalla capacità di egemonia. Perciò nei paesi a capitalismo avanzato il modo più efficace per mantenere il potere è dato dalla capacità di sapere utilizzare adeguatamente il decisivo strumento della rivoluzione passiva, per prevenire e stroncare sul nascere qualsiasi pulsione a una rivoluzione reale, a una rivoluzione attiva capace di emancipare, mediante la conquista del potere, le classi subalterne. La rivoluzione passiva consiste nel concedere dall’alto delle riforme, che sembrano venire incontro alle rivendicazioni più innocue delle classi sociali subalterne, cioè le rivendicazioni che non mettono realmente in discussione il potere costituito. Anzi, persino rivendicazione potenzialmente utili alla conquista del potere da parte delle classi subalterne, una volta amministrate dall’alto attraverso la rivoluzione passiva, non solo divengono generalmente innocue, ma addirittura il più delle volte rafforzano ulteriormente la stabilità del potere costituito. La rivoluzione passiva, con le sue sapienti riforme concesse dall’alto, è uno strumento estremamente efficace per strappare dalle mani delle classi subalterne alcune delle principali parole d’ordine rivoluzionarie. Le riforme dall’alto quale risposta del potere alle spinte rivoluzionarie dal basso hanno la decisiva funzione di dividere il movimento di opposizione, separando le masse che, prive di coscienza di classe e di teoria rivoluzionaria, abboccheranno alle riforme, abbandonando l’avanguardia rivoluzionaria al suo destino necessario quando perde la sua funzione. In altri termini l’avanguardia è tale se è in grado di portarsi dietro il grosso della truppa, ossia una buona parte delle masse popolari prive di una salda e consapevole coscienza di classe. Una volta isolata dalle masse popolari l’avanguardia rivoluzionaria è agevolmente messa in condizione di non nuocere dagli apparati repressivi dello Stato, addetti a questo fondamentale compito sociale e politico. Il concetto di rivoluzione passiva è, quindi, un concetto non solo molto attuale, ma anche molto vasto in quanto contiene tutte quelle riforme economiche, sociali, politiche e culturali che le classi subalterne sono riuscire a strappare, in due secoli di lotte, alle classi dominanti. Innanzitutto le classi subalterne sono riusciste a imporre sul piano politico e culturale la democrazia alle oligarchie liberali. Sono inoltre riuscite a imporre come problemi pubblici anche la decisiva questione dei diritti economici e sociali, che i liberali pretendevano ridurre esclusivamente in ambito privato e, dunque, non prendevano nemmeno in considerazione come diritti universali, riducendoli a potenziali concessioni che il venditore della forza lavoro avrebbe dovuto contrattare con l’acquirente.  Le lotte per l’emancipazione dei ceti subalterni hanno imposto agli oligarchi liberali tutte una serie di riforme, che la classe dirigente ha cercato di camuffare come concessioni dall’alto nell’ottica della rivoluzione passiva. Sono state così conquistate le pensioni, la sanità e l’istruzione pubblica, i trasporti pubblici e più in generale il così detto stato sociale. La classe dominante ha cercato di mascherare tali conquiste come concessioni dall’alto, cercando in tal modo di far apparire il proprio Stato, sorto come dittatura degli sfruttatori sugli sfruttati, come uno Stato sociale o, addirittura come uno Stato del benessere, un Welfare State che avrebbe dovuto garantire a tutti il benessere, dalla culla alla tomba. Allo stesso modo, sul piano politico e culturale, quando le lotte dal basso per la rivoluzione democratica sono divenute così imponenti da mettere in discussione la tenuta delle oligarchie finanziarie queste ultime sono state costrette a cedere innanzitutto sul suffragio universale anche se solo maschile. Naturalmente le classi dominanti hanno cercato, nell’ottica della rivoluzione passiva, di far apparire le conquiste dal basso della rivoluzione attiva, come concessione dall’alto in nome e, di fatto, in cambio della pace sociale. Lasciando intendere che se i subalterni non si sarebbero accontentati di quanto erano riusciti a strappare agli sfruttatori, e che questi ultimi avevano spacciato per riforme concesse dall’alto, avrebbero perso quanto avevano faticosamente ottenuto. Allo stesso modo, sul piano della lotta di classe fra paesi sfruttatori, colonialisti, imperialisti e/o neocolonialisti e i paesi sfruttati, cioè colonizzati, dominati imperialisticamente o soggetti allo scambio ineguale neocoloniale, la vittoria di questi ultimi ha portato prima alla conquista dell’indipendenza nazionale, imponendo il diritto dei popoli all’autodeterminazione nazionale, spacciato dagli ex colonizzatori come concessione dell’indipendenza. Dunque un’altra misura di rivoluzione passiva è stata la concessione della indipendenza politica, senza indipendenza economica, che ha permesso di trasformare il dominio diretto dell’imperialismo, quando rischiava di divenire antieconomico a causa delle lotte anticoloniali, in una forma più subdola di dominio, quella propria del neocolonialismo.  Lo sviluppo dei movimenti antiimperialisti ha, in seguito, portato a conquistare con le lotte una nuova rivoluzione passiva, per cui le nazioni sfruttatrici hanno dovuto concedere una serie di istituzioni internazionali come in primis l’Onu, che dovrebbero garantire parità di diritti fra le nazioni dominanti e le subalterne, la soluzione pacifica delle controversie e delle regole internazionali che avrebbero dovuto garantire i diritti economici e sociali su scala globale. In tal modo, le nazioni sfruttatrici hanno strumentalizzato le loro stesse sconfitte storiche, a partire da quella più clamorosa della Seconda guerra mondiale, facendo apparire le istituzioni internazionali come l’Onu come delle concessioni dei paesi più civilizzati, che avrebbero consentito di poter godere di tutta una serie di conquiste politiche, sociali, economiche e culturali senza dover ricorrere al salto nel buio della rivoluzione socialista. Anche per quanto riguarda la lotta di classe in ambito familiare, nel momento in cui i movimenti di emancipazione della donna sono divenuti molto forti e si sono radicalizzati sino a saldarsi con gli altri livelli della lotta di classe, i dominatori si sono visti costretti a correre ai ripari mediante la rivoluzione passiva. Il patriarcato non è stato più negato, se ne è accettata la critica sviluppandola, però, sul piano meno pericoloso per gli sfruttatori, il piano della parità di genere in chiave liberale. Nascono così le quota rosa per dare una certa rappresentazione, anche se minoritaria della donna in ogni ambito. Così abbiamo donne divenute manager, divenute piloti militari, divenute capo del governo, senza che ciò significasse una reale emancipazione per la maggioranza delle donne sfruttate. Dal punto di vista di queste ultime essere sfruttate e poi licenziate da un manager donna, essere bombardate da un pilota di sesso femminile, essere investite dalle politiche antipopolari di un governo presieduto da una donna produce un cambiamento solo apparente e non reale.

https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/la-rivoluzione-passiva

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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