di Marco Sferini

Quelli che sono veramente i problemi nucleari della società e della politica italiana, non fanno nemmeno una veloce comparsa nella conferenza stampa di fine-inizio d’anno della Presidente del Consiglio. Lavoro, ambiente, economia, fisco, povertà emergente, sanità, scuola: nulla di tutto questo viene adeguatamente trattato tanto nelle domande dei cronisti quanto nelle risposte di Giorgia Meloni.

L’attenzione di una stampa che dovrebbe essere sufficientemente critica nei confronti di qualunque governo, compreso quello attuale che di contraddizioni ne esprime ogni giorno e senza farsi e farci sconti, si concentra più che altro sui rapporti interni alla maggioranza, sui rapporti con l’Europa dopo la bocciatura del MES, sulle prossime elezioni continentali, sul caso Pozzolo, su quello Verdini, su quello Salvini, di sponda, di rimando e pur sempre interessante per capire le reciproche influenze tra Lega e Fratelli d’Italia.

La conferenza di fine anno, posticipata al nuovo per l’oramai celebre influenza patita da Meloni, lascia sul terreno una serie di punti interrogativi che trasmettono l’idea, sempre meno tale e sempre più evolutasi in concretezza manifesta, di una vera e propria mancanza di un occhio critico sull’operato del governo.

Primo fra tutti quello dei giornali e delle testate che sono vicini all’area politica dell’esecutivo e che, se riuscissero ad abbandonare l’attitudine ad esserne dei semplici megafoni propagandistici, potrebbero fare un ottimo servizio alla democrazia.

Questo sarebbe un presupposto deontologico molto alto, una dimostrazione veramente patriottica dell’esercizio di un giornalismo che non fa distinzioni e che, pur apprezzando la linea assunta da Meloni, Salvini e Tajani, è disposto ad essere una sorta di severo giudice laddove questo sia opportuno. Invece, la qualità dell’informazione, almeno da questo punto di vista, è scarsa e si limita alla propria trasformazione nella cassa di risonanza di quanto di buoni si deve per forza vedere in ogni atto della maggioranza, in ogni provvedimento dell’esecutivo.

A questo proposito non sarebbe certo stata fuori luogo, oltre che nello specifico per la situazione telemeloniana della RAI, una domanda anche autocritica sulla qualità complessiva dell’informazione e della cultura della stessa nell’Italia del 2024.

Una risposta obiettiva da parte della Presidente del Consiglio difficilmente sarebbe arrivata, visto che l’unico modo per minimizzare l’occupazione politica della TV di Stato si è rivelato quello dell’arma dell’ironia associata al solito attacco alle opposizioni. Ma chi fa, o pretende di fare informazione, avrebbe anche questo onere: darsi un voto.

Sull’autoanalisi e la sincerità introspettiva, però, ci si può fare poco conto, tanto se si fa riferimento all’azione di governo raccontata dal governo medesimo, quanto se la si ascolta da una larga parte di giornalisti che devono per forza raccontare il tutto da una prospettiva compiacente da un lato, da una più vicina all’oggettività e, pur tuttavia, ancora inaderente al piano della conformità ad un vero realismo pragmatico e viceversa.

A domanda Giorgia Meloni risponde il più delle volte con degli esercizi retorici che non entrano nel merito delle questioni.

Del resto, le conferenze di fine anno sono sempre e soltanto fatte per dimostrare la buona creanza di chi amministra lo Stato nel disporsi ad un confronto con un parterre di cronisti che rappresentano tutta (o quasi) la carta stampata, la televisione e, oggi, anche l’informazione della rete, ma non hanno quasi mai la capacità di oltrepassare una sorta di galateo istituzionale che castra le domande e le edulcora, svilendone la punta sagace di un fastidio necessario se si vuole davvero stimolare il governo ad interrogarsi su sé stesso.

Senza voler trasformare tutto questo in sedute psicoanalitiche della compagine di maggioranza, di volta in volta al potere (eppure ce ne sarebbe davvero tanto bisogno), per essere delusi da questi confronti cortesi e tutt’altro che ingombranti (come invece dovrebbero essere) per l’esecutivo, basta ascoltare le tante domande che sono state poste alla Presidente del Consiglio.

Non una ha toccato le questioni che concernono il complicato intreccio di interessi privati nell’economia pubblica e nello sviluppo della stessa nei tanti ambiti della produzione di un PIL che riguarda tanto l’imprenditoria quanto il mondo del lavoro propriamente detto.

Non vi è stato alcun riferimento all’incidenza inflazionistica sulla vita quotidiana di milioni e milioni di italiani che stanno, progressivamente ma nemmeno tanto lentamente, scivolando verso un pauperismo sempre più inquietante. E questo anche grazie al taglio di garanzie importanti, per quanto parziali potessero essere, come il Reddito di cittadinanza.

Nonostante Giorgia Meloni si prodighi nel cercare di dimostrare che l’Italia ha registrato, nel corso del 2023 una crescita “stimata sopra la media europea“, le dichiarazioni delle istituzioni di Bruxelles e Francoforte dicono il contrario.

Secondo la Commissione guidata da Ursula von der Leyen il PIL del Vecchio continente progredisce del +1,3% su base annua, mentre quello italiano soltanto dello 0,9%. Ma è l’ISTAT per primo a registrare una revisione al ribasso delle stime ottimistiche fissate all’1,2% (e comunque sempre al di sotto della media europea…), ponendo l’ottimistica cifra che riguarda il segno positivo ad un ancora più modesto 0,7%. Dove, dunque, Giorgia Meloni veda il sorpasso della tendenza economica nazionale rispetto a quella continentale rimane un mistero.

L’argomento che concerne fisco et similia, viene trattato con un assunto quasi paradigmatico: «Il taglio delle tasse è stato finanziato con la riduzione della spesa». Si parla ovviamente, nemmeno a dirlo, della spesa pubblica, dei servizi che ci riguarderebbero un po’ tutti.

Il governo ci fa pagare meno oneri per avere meno servizi! Un capolavoro della politica piegata ai dettami del neoliberismo, in tutto e per tutto. Chi, quindi ha un reddito lordo fino a 25mila euro annui, si vedrà scalare un ulteriore 7% di tasse. Chi guadagna tra i 25 e i 35mila euro in dodici mesi, scalerà ulteriori 6 punti rispetto all’anno precedente.

E’ giustizia fiscale questa? Il povero paga praticamente tanto quanto il ceto medio, mentre il ricco e il ricchissimo non vengono praticamente nemmeno lambiti da una riforma che accorpa le aliquote minori e lascia intatte quelle maggiori, creando in questo modo delle disparità sempre più grandi. E, in più, non corrisponde al vero nemmeno il fatto che a finanziare questa operazione sia il taglio delle spese. Tutto rimane a carico del contribuente, dell’intera comunità nazionale, ma come accrescimento del debito pubblico.

Dei quindici miliardi che servono per il taglio delle tasse, soltanto un miliardo e quattrocento milioni sono ricavati dalla riduzione delle spese… Gli altri sono registrati appunto nel passivo nazionale, il che è molto patriottico, molto utile al futuro del Paese, quindi a quello delle sue prossime generazioni.

Come se non bastasse, la tassa sugli extraprofitti è stata un fallimento davvero di dimensioni non trascurabili. La dimostrazione che le banche e i grandi ricchi non intendono intaccare i capitali per favorire una ripresa della comunità nazionale, per sostenere davvero l’economia del Paese in chiave pubblica, nemmeno quando vengono garantiti loro i recuperi dei privilegi che, quindi, in quanto tali, non possono essere toccati al pari di una imposizione IRPEF alle famiglie meno abbienti.

Ma lo spettacolo della conferenza stampa di fine e inizio anno non termina qui. Perché in quasi tre ore di domande tutt’altro che al fulmicotone, c’è spazio per tutta una serie di amenità che stemperano la tensione che pareva si respirasse prima dell’ingresso di Meloni nella sala stampa di Palazzo Chigi.

La premier ha buon gioco nel ripetere le sue già note opinioni sul familismo politico, sui casi che l’hanno riguardata, sulle beghe interne alla sua maggioranza, sui rapporti tra i partiti della stessa, sul fatto se si candiderà o meno alle elezioni europee, eccetera eccetera.

Non sono accidenti di poco conto, ma impallidiscono, ad esempio, davanti alle note espresse dal Presidente della Repubblica, sia nel discorso di fine anno, sia in quelle vergate e inviate al governo in merito al rinnovo delle concessioni per ambulanti e balneari. Non è la prima volta che Mattarella interviene in questo frangente. Perché, appunto, non è nemmeno la prima volta che un governo tenta di forzare le direttive europee.

Quell’Europa a cui Giorgia Meloni assicura attenzione, addirittura un voto favorevole per la nuova Commissione se dovesse formarsi sulla base di un programma simile a quello attuale, distinguendosi in questo dalla linea salviniana più vicina al becero neonazi-onalismo dell’ADF e a quello di Marine Le Pen (cui la leader di Fratelli d’Italia si sente comunque vicina e cugina, politicamente parlando).

Quell’Europa che, però, si vede negare la conferma del MES, giudicato come “obsoleto” soltanto in virtù del fatto che avrebbe, questo sì, aperto una frattura parecchio lacerante tra Fratelli d’Italia e Lega che, da sempre, si contendono anche un elettorato molto di destra, oltre a quello di un ceto medio che, magari, in tempi più remoti guardava al centro e, perché no, al populismo pentastellato oppure al riformismo moderato in salsa renziana del PD di allora.

Se si può fare una sintesi delle tre ore di botte e risposte tra giornalisti e Presidente del Consiglio, questa rimane sempre un po’ quella cui eravamo abituati dai precedenti governi, con la differenza – va detto – del Conte II in cui un certo compromesso verso alcune riforme sociali era stato tentato, seppure molto timido perché obbediente alla logica di una tenuta di maggioranza che includeva anche Italia Viva, un PD non schleiniano e un Movimento 5 Stelle piuttosto turbolento al suo interno.

E la sintesi di cui si accennava è questa: ci attende un anno di austerità economica, di nuove privatizzazioni e di tentativi di trasformare la Repubblica da parlamentare a premieristica, con all’interno una controriforma incostituzionale del regionalismo alterato dalla relazione tra bisogni e diritti universali ed economie locali. Tanto i cittadini potrebbero avere in risposta alle loro esigenze quanto i loro territorio producono.

Un ricatto non solo materiale ma anche morale. Una mortificazione della mutualità, della solidarietà sociale, dei valori civili e civici che dovrebbero invece unire l’Italia intera in uno sforzo di miglioramento delle condizioni meno felici di larghe fasce della popolazione e di intere aree macroregionali.

Disgiungere queste lotte, contro il privato che avanza, contro un fisco ingiusto e penalizzante per i più poveri e i meno capaci di rispondere alla crescente crisi economica globale ed europea, dentro un contesto di guerre e di contese che non accennano affatto a diminuire, da quelle contro la mutazione genetica tanto della Costituzione quanto della Repubblica (e quindi dello Stato inteso come macchina amministrativa generale), sarebbe un errore imperdonabile.

La coscienza sociale e quella civile vanno rimesse insieme, perché l’attacco ai diritti è a tutto tondo e non risparmia nessun settore, nessun momento della nostra vita quotidiana. Dunque, la risposta delle forze progressiste deve mirare a decostruire il disegno che vuole stravolgere la democrazia formale, istituzionale e quello stato sociale sempre meno rintracciabile nel contesto della rappresentatività politica e del suo agire.

La conferenza stampa di Giorgia Meloni è niente di più e niente di meno che la conferma di ciò che già sapevamo. E, proprio per questo, la mancanza di una risposta sociale, sindacale e politica adeguata è ancora più inquietante ed esasperante.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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