Davide Sabatino 

Di fronte alla catastrofe di un’intera civiltà, due reazioni antitetiche prendono il sopravvento. La prima è sicuramente la più frequente e la più immediata, ovvero quella del panico. Che ne sarà di noi? Come riusciremo a sopravvivere? Che fine faranno i nostri sogni, le nostre speranze, la nostra storia e tutti i bei progetti di una vita migliore, più felice, più realizzata? Nello scenario di una guerra perenne, di una crisi radicale della democrazia, di un crollo verticale della credibilità delle istituzioni europee, tali inquietudini sorgono in noi come funghi dopo la pioggia. E non c’è verso di trovare risposte confortanti. Il panico cresce in maniera proporzionale ai quesiti e alle risposte, tristi e disperate, che proviamo a darci per tirare avanti.

La radice greca Πάν del termine “panico” ha a che fare con il nome di una divinità arcadica, metà uomo e metà caprone, di nome Pan. Simile all’iconografia cristiana del Diavolo, essa si presenta come una divinità terribile, selvaggia e travolgente. Chi soffre o ha sofferto di attacchi di panico, sa bene che questi aggettivi non sono affatto esagerati. La divinità bucolica prende possesso dei nostri pensieri, delle nostre sensazioni, emozioni e paralizza l’intero corpo, impedendoci il movimento e qualunque soluzione razionale che indichi una via d’uscita. Di colpo, da un momento all’altro, ci ritroviamo pietrificati nel panico. È l’inferno che appare sulla terra come il calare di un sipario; e ciò che vediamo intorno a noi e solo cenere e desolazione.

Eppure, come dicevamo, c’è anche una seconda reazione, meno consueta e a tratti folle, che può emergere dal confronto obbligato con le minacce del nostro tempo. Sto parlando dell’euforia. Di quella sorta di rapimento entusiastico della ragione umana ad opera di una divinità, in questo caso benigna, la quale, spostandoci lo sguardo dal contingente all’universale, ci permette un’osservazione dall’alto del fenomeno catastrofico che stiamo vivendo. L’euforia agisce in noi relativizzando il dramma, non perché voglia spingerci a sottovalutare il problema di una crisi antropologica davvero pericolosa, come quella che anche ora stiamo sperimentando, in questo momento di trionfo del digitale; ma, al contrario, perché esso, il dramma del tramonto dell’Occidente, se osservato da un’angolazione meno claustrofobica di quella panica, si trasforma immediatamente in un portale misterioso, attraversato il quale giungeremo sicuramente a un grado ulteriore della storia dell’umanità sulla terra.

La radice greca εὖ del termine “euforia”, che vuol dire “bene”, la ritroviamo ad esempio nel nome di Euterpe, musa della musica e della poesia lirica. Oltre che nella parola “eudemonia” che, come è noto, possiamo tradurre con “buono spirito” o anche “felicità”.

Se dunque il panico (Pan) ci soffoca e ci costringe a limitare il nostro sguardo alla sola tragedia in atto, l’euforia (Euterpe), al contrario, ci libera da questa sensazione di impotenza e di paura, elevandoci dal nostro orizzonte particolare, fatto di macerie e di spazzatura, e donandoci l’ossigeno giusto per poter affrontare in modo artistico e panoramico qualunque declino apparentemente inevitabile.

Detto in altre parole: quell’umanità che sarà in grado, come profetizzava già Ernesto Balducci, di farsi sempre più «planetaria»[1], e quindi di relazionarsi costantemente con la complessità storica, etica e religiosa del pianeta intero, non potrà che vivere con passione esuberante il tempo del collasso di questo particolare Occidente. Un Occidente distorto rispetto al suo essere originario; ipocrita, affarista e quasi esclusivamente a trazione anglo-americana. Mentre, viceversa, per l’umanità che si identificherà con i volti d’Idra del Capitalismo dei disastri (Klein), e che quindi continuerà a perseguire una politica bellica, ignorante e opportunistica, per essa, il panico sarà purtroppo assicurato. E la sua fine tragica, uno schianto che era un avvenire già segnato.

A conferma di ciò, possiamo dire che la poesia e l’arte, più in generale, hanno da sempre reagito con euforia davanti alla sconfitta di un “mondo” in rovina. Il fallimento, la pena e la desolazione sono l’humus di partenza di qualsiasi opera creativa di rilievo. Basti pensare al dramma della vita di Hölderlin, di Van Gogh, di Schumann, di Nietzsche, di Majakovskij, di Campana. Creare dal negativo è, infatti, il compito di chi non si rassegna al baratro aperto dalla catastrofe. Persino nella malattia depressiva, dice lo psichiatra Eugenio Borgna, può accadere — come nel caso di Simone Weil — che «si fanno visibili le cose ultime nella loro insostenibile trasparenza»[2]. E, proprio per questo, l’atto creativo diventa un atto rivelativo. Un atto vero, che parla di un’essenza spirituale originaria intramontabile.

Se l’Occidente, come scrivono ormai tutti i più accorti analisti di geopolitica, di storia contemporanea, di filosofia e di sociologia, si trova in una posizione di tramonto rispetto alla sua — finora indiscussa — egemonia economica, politica e culturale, allora è normale trovasi faccia a faccia con questo bivio: o impaurirsi, al punto di rinunciare a qualsivoglia ipotesi di rivoluzione critica dello status quo; o, invece, entusiasmarsi (non senza qualche preoccupazione) del fatto che abbiamo la possibilità di rielaborare e recuperare il senso specifico, per molti aspetti unico e singolare, dell’orizzonte greco-cristiano-occidentale. Un’occasione più unica che rara di ripensare il nostro destino, non più necessariamente in contrapposizione a quello orientale, ma, semmai, in sinergia costante con esso.

D’altronde, la fine di un’egemonia fondata sullo sterminio, sulla sopraffazione di popoli inermi, sulla retorica della pace come alibi per la costruzione di un sistema finaz-capitalistico, mercantilistico e tecno-nichilistico sempre più totalitario, se vista dalla prospettiva aerea di Euterpe, può addirittura essere un gran bell’annuncio. Una grande e stimolante “buona notizia”; che però è anche politicamente un difficile paradosso, mi rendo conto. Una contraddizione, mai del tutto sanabile, fra reazione euforica nei confronti del futuro e senso della tragedia quando si ragiona dell’immediato. Eppure, in realtà, come lascia intravedere questa mia poesia dedicata al genio visionario di Hölderlin, vivere positivamente questo contrasto lacerante, diventa l’unico scenario rivoluzionario oggi percorribile. Superata la paura della notte e il terrore gelido della fine di un mondo, ciò che resta da fare è ricominciare a immaginare un giorno nuovo, una politica nuova, un’umanità nuova. Null’altro.

La notte del mondo (1770)

Dorata la notte del mondo!

Versi invincibili degli eroi da tempo

Sottratti alla triste luce disparita

Veleggiano…

Hölderlin

Rimesta nel barile

Il petrolio, oro

Solare, dissepolto

Tralasciato.

La compagna tenebra turrita

Per fatto invalicabile dal tempo

Censisce il giorno.

Ci sono ore per il sonno del corpo;

Ore per il lamento del moribondo.

Ritornano in queste la Natura in sogno

La sua origine; Efeso

E i suoi elementi;

L’amore per il pensiero [Verbo Nascosto]

Sorge

Poesia del nobile folle:

«Una notte si riscopre a Occidente!»

Tutto tracolla eppure dice:

«Una notte si riscopre a Occidente!»

Tutto tracolla ed è felice.[3]


[1] E. Balducci, L’uomo planetario, Giunti, Firenze-Milano, 2005

[2] E. Borgna, Malinconia, Feltrinelli, Milano, 1998 p. 158

[3] D. Sabatino, Formattazione, The Freak, Roma, 2022 p. 61-62

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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