In questi ultimi giorni si è assistito nei confronti del governo israeliano ad un inasprimento delle posizioni, a partire dalle ultime prese di posizioni di Biden. A stretto giro, con un indecoroso copia e incolla, gli hanno fatto eco in ordine sparso i leader politici del protettorato europeo. Pare che manchi a tutti costoro financo quel briciolo di amor proprio per salvargli perlomeno la faccia. Solo Borrel, Alto commissario dell’Unione europea per la politica estera, si è appena distinto dal coro (ricordandosi forse per un istante di appartenere al “socialismo meridiano”), rivolgendosi al capo della Casa Bianca con inusuale ruvidezza: «Ha detto che i morti civili a Gaza sono troppi? Se sono troppi allora forse devi dare a Israele meno armi, è abbastanza logico. Tutti vanno a Tel Aviv e chiedono ‘per piacere, ci sono troppe vittime, uccidete meno civili’ ma Netanyahu non ascolta nessuno. Forse è il caso di smettere di chiedere per piacere e fare qualcosa».
Ma cosa ha indotto Biden a rompere apparentemente gli indugi? Quasi certamente l’annuncio fatto dal governo israeliano di voler portare l’attacco a Rafah. Qui i palestinesi si sono nel frattempo ammassati a centinaia di migliaia in abitazioni di fortuna, lasciandosi alle spalle una Gaza ridotta in macerie. È risultato allora tangibile ai dormienti del blocco occidentale lo scopo ultimo delle forze israeliane: la deportazione di un intero popolo o, ancora peggio, di quello che resterà dopo il verosimile bagno di sangue che si consumerà a Rafah. Ciò che meraviglia è la meraviglia dei più per un esito già largamente annunciato. Non occorreva essere degli indovini o dei maghi per prevedere tutto ciò. Dopo l’attacco criminale subito il 7 ottobre ad opera delle milizie di Hamas e il vile epilogo degli ostaggi, l’efferatezza della risposta israeliana, configurandosi da subito come punizione collettiva, non lasciava presagire alcuna soluzione dei “due popoli, due stati”. La violenza senza misura scatenata dall’esercito, con una media giornaliera di circa 1500 palestinesi ammazzati per una proiezione ad oggi superiore alle trenta mila vittime, perlopiù donne e bambini, faceva segnare di per sé un punto di non ritorno. Una tale ferocia infatti sedimenta tanto e tale odio per i decenni avvenire da controindicare di tenere ai propri confini i sopravvissuti a tali atrocità, per la inevitabile conseguente scia di vendetta. No, il governo di Israele ha perseguito in scienza e incoscienza sin dall’inizio la strategia di deportare quel popolo in terre sconosciute, magari in un’isola lontana come è stato pure affacciato da esponenti del governo, eradicando così il problema. Con «gli animali umani» di fatto non si convive, ad un popolo che non si riconosce come tale perché «è un’invenzione che ha meno di cent’anni» non si conferisce uno Stato.
Ora, a dei capi di Stato e di governo in occidente appena un poco assennati doveva risultare da subito evidente la soluzione estrema di Netanyahu. Valgano per tutte le seguenti farneticanti sue affermazioni: «Questa è una guerra tra i figli della luce e i figli delle tenebre. Non cederemo nella nostra missione finché la luce non vincerà l’oscurità; il bene sconfiggerà il male estremista che minaccia noi e il mondo intero». Pertanto gli scenari che si possono ipotizzare realisticamente sono sostanzialmente di due tipi. Che gli alleati, perlomeno quelli più stretti, sapessero per l’appunto sin dall’inizio, ma hanno fatto finta di nulla, attendendo Netanyahu al varco, quando questa opzione si sarebbe materializzata. Oppure sono stati colti di sorpresa da questa sua accelerazione, se possibile ancora più spaventosa. In entrambi i casi resta l’invarianza di un piano criminale che si intende perseguire con lucida follia e il cinismo, nel primo scenario, di tutti gli altri governi occidentali oppure l’insipienza, nella seconda ipotesi. Disquisire su cosa sia meglio o peggio tra le due opzioni in campo risulta esercizio alquanto vano.
Quello che invece deve risultare chiaro è l’impegno, prima ancora della comunità internazionale di quella umana, per far cessare questa strage quotidiana di innocenti. Il compito etico che bisogna darsi è partecipare ad ogni forma di iniziativa o manifestazione per far cessare il fuoco sulla popolazione inerme. Se non presenti sul proprio territorio – queste iniziative – profondere il massimo sforzo personale per organizzarle. Conforta assistere ad un embrione di ripoliticizzazione del dibattito pubblico, specie tra le fasce più giovani nelle scuole e le Università. E questo è sempre un bene perché il mondo continua ad essere attraversato da forme di ingiustizia e di imperialismo scandalose che richiedono, come è sempre stato nel corso della storia, l’agire di soggetti collettivi consapevoli. È sempre stata questa la molla che, nelle varie configurazioni storiche della lotta servo-padrone, ha spostato più avanti la soglia di riconoscimento individuale e collettivo dei non riconosciuti o disconosciuti. Anche questa volta avverrà così o non avverrà affatto