Fabrizio Russo 

Nel 2023 l’andamento dell’inflazione USA è stato decisamente particolare: ha registrato un forte e rapido calo, spinta dal crollo dei prezzi dell’energia e dal calo dei prezzi dei beni durevoli. Entrambe le componenti dell’indice complessivo sono cadute, dopo aver registrato dei picchi di prezzo storicamente elevati, a partire dalla metà del 2022. Grazie a ciò la dinamica dei prezzi al consumo è caduta dal 9,0% di giugno 2022 al 3,1% di gennaio 2024. E’ rimasto però, come ho più volte ripetuto, un problema: l’inflazione del comparto dei servizi è rimasta elevata ed ha anche accelerato alla fine del 2023 – intendiamoci, non è stata una sorpresa per me che me lo attendevo – infine, dopo questo primo aumento, a gennaio l’indice ha registrato un balzo tendenziale arrivando a toccare l’8,2%.

L’indice dei prezzi alla produzione (PPI), che intercetta le pressioni inflazionistiche più profonde nel meccanismo di funzionamento dell’economia, ha poi riservato un’altra brutta sorpresa, con il PPI dei servizi in aumento del 7,1% annualizzato a gennaio e quello dei beni finiti in aumento del 4% annualizzato. L’indice dei prezzi PCE dei servizi principali a dicembre ha accelerato, toccando il 4,0% annualizzato. Data l’impennata dell’indice dei prezzi al consumo per i servizi primari a gennaio, non è stata una sorpresa la notizia che l’inflazione dei servizi ex-Shelter, e l’equivalente PCE è salita su base annua al 3,45%, grazie ad un ampio balzo dello 0,6% su base mensile – il più grande aumento su base mensile da dicembre 2021. A questo punto non è difficile attendersi un’altra brutta sorpresa a marzo, magari già dai dati del CPI!

Un’ulteriore osservazione a supporto di quest’ultimo punto: i prezzi dell’energia non possono crollare “per sempre”! I prezzi del greggio e della benzina sono aumentati di recente: il WTI è tornato a quasi 80 dollari. Inoltre, nemmeno i prezzi dei beni durevoli possono scendere “per sempre”, anche se verosimilmente potranno scendere ancora per un po’, visto il picco elevato registrato in passato da cui provengono. Il punto è che anche se i prezzi dell’energia e dei beni durevoli dovessero solamente fermarsi, l’inflazione complessiva accelererebbe ulteriormente, perché queste due grandi categorie non farebbero più da contrappeso all’esuberanza dei servizi. A fortiori, se i prezzi dell’energia e dei beni durevoli ricominciassero – come assolutamente possibile o, meglio, assolutamente probabile – a salire, allora tutte le attese del proseguimento di un trend inflattivo cedente andrebbero rapidamente in fumo.

Quindi ora ci troviamo di fronte uno scenario in cui l’inflazione sta nuovamente accelerando. Quando guarderemo indietro al 2023 tra qualche mese, potremmo vedere che si è trattato di un’altra importante conferma, di come l’inflazione sia storicamente considerata una “brutta bestia”: difficile da domare.

Un indice, ovvero la differenza tra il rendimento dei titoli del Tesoro a 2 anni ed il tasso effettivo sui fondi federali (l’EFFR, Effective Federal Fund Rate, è il tasso che viene determinato, per l’azione del mercato, partendo dal tasso di riferimento Fed Funds, attualmente compreso tra il 5,25% e il 5,5%), ci può aiutare a capire la situazione. Per quaranta e più anni questo differenziale ha anticipato i cicli di rialzo e di ribasso dei tassi ufficiali da parte della FED: nel 2021 il rendimento a 2 anni ha iniziato a salire in ottobre sopra l’EFFR, circa cinque mesi prima del primo rialzo dei tassi. Insomma, nel passato è stato un ottimo indicatore……escludendo però l’ultimo periodo: a novembre 2022, il rendimento a 2 anni ha però iniziato a scendere, anche se la Fed ha successivamente alzato il tasso altre quattro volte. Nel dicembre 2022, quando la Fed ha effettuato un rialzo, il rendimento a 2 anni (rosso) è addirittura sceso al di sotto dell’EFFR (blu) e da allora ne è rimasto al di sotto:

Gli Usa e le distorsioni del neoliberismo

Il fatto che il rendimento dei titoli a 2 anni sia sceso al di sotto dell’EFFR dal dicembre 2022 è un segno che gli esseri umani e gli algoritmi che stanno dietro le decisioni di investimento hanno ignorato la Fed: non l’hanno presa sul serio e hanno negato la persistenza dell’inflazione e degli aumenti – nonostante gli avvisi espliciti che hanno tappezzato qui e la le dichiarazioni “sibilline” di Powell – dei tassi ufficiali. Questo ha corrisposto ad uno straordinario allentamento delle condizioni finanziarie, con una riduzione degli spread per il debito rischioso (corprate) e un calo dei rendimenti a lungo termine. Purtroppo questo allentamento delle condizioni finanziarie pare sia proprio parte del carburante che ora sta spingendo l’inflazione verso l’alto.

Inasprendo la sua politica monetaria, in genere la Fed tenta di inasprire le condizioni finanziarie nei mercati. Le condizioni finanziarie più restrittive rendono più difficile per le aziende e i consumatori contrarre prestiti, il che dovrebbe produrre un piccolo rallentamento della domanda, riducendola, erodendo quindi il potere di determinazione dei prezzi delle imprese e rendendo i consumatori più attenti nello spendere soldi. Lentamente, nella visione tradizionale, ciò dovrebbe riportare l’inflazione sotto controllo.

Le condizioni finanziarie si sono però notevolmente allentate nel 2023 e l’inflazione sta ora di nuovo decollando. Il calo del rendimento a 2 anni sembra dirci che l’inflazione e i tassi più alti per un periodo più lungo non finiranno finché il tasso treasury a 2 anni non supererà il rendimento EFFR: finché la “Signora Grassa non canta”! Solo allora giungerà il segnale che gli esseri umani prendono finalmente sul serio la Fed, e quindi le condizioni finanziarie restringendosi finalmente impattano “magicamente” sulla domanda. Di fatto è possibile che la Fed sia costretta ad aumentare ulteriormente i tassi perché le condizioni finanziarie si sono allentate di un bel po’ ed i mercati sono esplosi: “la Fed e l’inflazione stanno decollando di nuovo”.

C’è un altro fattore che sta alimentando l’inflazione: l’enorme e sconsiderata spesa pubblica in deficit, in cui la politica fiscale si oppone efficacemente alla politica monetaria della Fed, il che sta rendendo ancora più difficile l’impresa di domare l’inflazione. Direte: ma no! Ti sbagli sono i consumi che trainano la ripresa statunitense. Facciamo una piccola analisi: il BEA (Bureau of Economic Analysis) ha dichiarato che l’aumento del PIL nel quarto trimestre riflette principalmente l’aumento della spesa al consumo, delle esportazioni e della spesa pubblica statale e locale. L’aumento della spesa al consumo riflette l’aumento sia dei servizi che dei beni. Nell’ambito dei servizi, i principali contributori sono stati l’assistenza sanitaria, i servizi di ristorazione e alloggio, e altri servizi (guidati dai viaggi internazionali). All’interno dei beni, i principali contributori all’aumento sono stati altri beni non durevoli (in primis i prodotti farmaceutici), nonché articoli ricreativi e veicoli. L’aumento delle esportazioni riflette l’aumento sia dei beni (soprattutto del petrolio) che dei servizi (soprattutto dei servizi finanziari). L’aumento della spesa pubblica statale e locale riflette l’aumento sia degli investimenti (guidati dalle strutture) che delle spese per consumi (guidati dai redditi da lavoro dipendente).

Gli Usa e le distorsioni del neoliberismo

Ebbene, uno sguardo più attento ai dati ha rivelato qualcosa di sorprendente: un rapido sguardo all’aumento del PIL nominale, che è passato da 27,61 trilioni di dollari nel terzo trimestre a 27,94 trilioni di dollari nel quarto trimestre, mostra che l’economia statunitense è aumentata di circa 334,5 miliardi di dollari in termini nominali assoluti di dollari.

Gli Usa e le distorsioni del neoliberismo

Ma da dove viene questa crescita?  Per la risposta ci può forse aiutare l’importo del debito pubblico nel periodo: andiamo al sito web del debito del Tesoro USA, dove troviamo che il debito al 30 settembre 2023 era di $ 33.167.334.044.723,16 e il debito al 31 dicembre 2023 era di $ 34.001.493.655.565,48. Notiamo quindi che il debito pubblico, ovviamente, è particolarmente abbondante …. e allora? 

In altre parole, far crescere l’economia americana per 334,5 miliardi di dollari nel trimestre è costato 834,2 miliardi di dollari di debito. O meglio, esattamente 2,5 dollari di debito per ogni dollaro di “crescita” del PIL!

Gli Usa e le distorsioni del neoliberismo

Fonte: BEA e Ministero del Tesoro statunitense

Il che ci riporta al punto di partenza, alla scarsa efficacia di stimolo ed all’eccesso di debito pubblico negli USA: anche Powell lo ha dichiarato “insostenibile” il debito pubblico USA, specificando però – in modo sibillino – “nel lungo periodo” …. Siamo poi sicuri che il periodo sarà poi così lungo?

La cosa, tra l’altro, in buona parte spiega perché il bitcoin è ora scambiato a 60.000 dollari, il prezzo più alto dalla fine del 2021 e perché probabilmente salirà più in alto: perché gli Stati Uniti sono ormai ben oltre il punto di non ritorno. Forse, però, un bel conflitto potrebbe distrarre il pubblico da questi problemi “operativi” secondari.

Inflazione e debito pubblico, con la spesa allegra a sostegno delle forniture militari reputate necessarie per mantenere vivo l’imperialismo statunitense – e non farlo finire sotto lo zero (incalzando la Cina e, più in generale, i BRICS) – attraverso conflitti per procura mediati da Ucraina e Israele, non sono l’unica rogna all’orizzonte. Incombe, infatti, anche la crisi dei CRE (Commercial Real Estate). Crisi che per alcuni rischia – ed è più di un rischio – di impattare sulla stabilità finanziaria USA, specie attraverso il canale delle banche regionali.

Gli immobili commerciali rappresentano la terza asset class più grande, dietro solo al reddito fisso e alle azioni. Nonostante i “Magnifici Sette” abbiano spinto gli indici azionari a nuovi massimi, i mercati CRE stanno attraversando un peggioramento della flessione, in particolare nel settore degli uffici. La stringa delle delinquency “di peso” sui prestiti CRE ed i fallimenti di banche regionali arrivati nel 2023 sottolineano la rilevanza di questo pasticcio. Questo senza dimenticare, come l’ultima nota di Morgan Stanley sottolinea, che il ” più grande ostacolo ” che il segmento degli uffici del mercato CRE deve affrontare sono “anni di offerta”. 

Gli Usa e le distorsioni del neoliberismo

Si può affermare con certezza che la flessione del CRE continuerà per tutto l’anno: poiché i posti vacanti nelle torri per uffici continuano ad aumentare a livello nazionale, molti di questi edifici stanno diventando spazi di lavoro economicamente non sostenibili, sollevando la questione di cosa si può fare con milioni di metri quadrati di spazio sottoutilizzato. Allo stesso tempo, il mercato immobiliare statunitense si trova ad affrontare una grave carenza, costringendo investitori e legislatori a chiedersi se gli spazi per uffici sottoutilizzati possano essere trasformati in edifici multifamiliari. 

Gli Usa e le distorsioni del neoliberismo

Fonte: Goldman Sachs

L’analista di Goldman Jan Hatzius utilizza un modello di flusso di cassa scontato per dimostrare che gli attuali costi di acquisizione delle torri per uffici sono ancora troppo elevati per la conversione in edifici multifamiliari, indicando che gli uffici probabilmente rimarranno sottoutilizzati nel medio termine. Hatzius ha sottolineato che il punto fattibile in cui la conversione delle torri per uffici avrebbe senso dal punto di vista finanziario sarebbe un ulteriore calo dei prezzi del 50%.

Gli Usa e le distorsioni del neoliberismo

Fonte: Goldman Sachs

Secondo Bloomberg, i fondi pensione canadesi – che fino a poco tempo fa erano stati tra i più prolifici acquirenti di beni immobili al mondo – stanno finalmente realizzando che la gravità esiste!. Il Canada Pension Plan Investment Board ha infatti recentemente venduto la sua quota nel progetto di riqualificazione della torre per uffici di Manhattan per solo 1 dollaro USA. La preoccupazione ora è che simili svendite siano d’esempio anche per altri grandi investitori che cercano una via d’uscita dalle turbolenze, provocando un crollo all’ingrosso nel mercato immobiliare di Manhattan che fino ad ora era riuscito a evitare la scoperta del prezzo reale.

Il segmento multifamiliare degli immobili commerciali non deve affrontare i problemi strutturali che si trovano ad affrontare il segmento CRE al dettaglio e il segmento CRE ad uso ufficio. C’è ancora una domanda sostenuta per appartamenti: la crescita della popolazione e l’arbitraggio, con i prezzi delle case alle stelle, faranno sì che la domanda di appartamenti continui a crescere. Ciò con cui le proprietà multifamiliari stanno lottando sono i tassi ipotecari più elevati, come tutti i segmenti del CRE, poiché molti devono rifinanziare i mutui esistenti a tassi molto più elevati o poiché i tassi variabili si adeguano a tali tassi più elevati. Alcune piccole banche con grandi concentrazioni di multifamiliari potrebbero crollare, ma non è un grosso problema.

Quasi il 40% del totale dei prestiti multifamiliari nel sistema bancario statunitense è detenuto da 10 banche di dimensioni più grandi con molte altre attività, in grado di attutire lo shock. Solo 49 banche avrebbero prestiti plurifamiliari in sofferenza (NPL) preoccupanti. Queste hanno però una media di 1,3 miliardi di dollari di asset totali, ha detto Fitch: In confronto, la fallita SVB aveva un patrimonio di 209 miliardi di dollari. Quindi queste sono piccole banche comunitarie che possono essere “facilmente riassorbite dal resto del sistema” (Grazie alla FED). L’importo dei prestiti multifamiliari presso queste banche comunitarie infatti “costituisce solo una modesta frazione dell’intero settore, limitando così il contagio al sistema finanziario più ampio se una o più di queste banche dovessero fallire”, ha affermato Fitch. Ci vorranno comunque anni per risolverlo.

Possiamo trovare una magra consolazione? Si: se il bubbone dei CRE esplode nelle mani delle banche o se la FED calca troppo la mano sui tassi – come dovrà fare per dominare l’inflazione in assenza di uno shock deflattivo che arrivi “motu proprio” – allora un evento avverso, specificamente fallimenti bancari nel primo caso o crollo dell’azionario nel secondo, risolveranno con un’ondata deflattiva anche il problema dell’inflazione …. peccato che la cosa sarà risolta in modo traumatico! Tutto a causa della pervicacia nel trovare soluzioni impossibili, pompando i mercati e mettendo pannicelli caldi sui problemi strutturali.

Per riassumere, dopo tutta questa rassegna, non penso che le cose si risolveranno sul fronte dell’inflazione statunitense (e di quella dei principali paesi occidentali) prima di un evento deflattivo, sia esso una crisi bancaria – non necessariamente innescata dalla crisi delle banche regionali statunitensi – od una implosione del mercato azionario, ormai appeso praticamente in modo esclusivo ai “Magnifici 7”, un pugno di titoli del settore tecnologico (anche sull’onda del mito – per essere precisi, mezzo mito / mezza realtà – dell’AI, Artificial Intelligence). Sospetto, inoltre, che l’inflazione e l’aumento dei tassi ufficiali non finiranno finché la Signora Grassa non canterà. Per arrivare a questo potrebbe passare un po’ di tempo, dal momento che i mercati hanno snobbato la Fed e non stanno facendo ciò che essa ha bisogno che facciano: inasprire le condizioni finanziarie per ridurre l’inflazione. Nel frattempo, non si può non registrare l’ennesimo buco nell’acqua delle teorie neoliberiste che – talvolta sotto mentite spoglie – stanno oggi dietro alle politiche monetarie e fiscali negli USA e che sono pienamente sposate dall’establishment economico-politico statunitense.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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