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3. Quando i lavoratori italiani avevano un’assicurazione sulla vita

Se si guarda all’evoluzione dei diritti dei lavoratori in Italia, la si può visualizzare come una linea ascendente dal 1945 alla fine degli anni ’70 (con una prima parte durante la quale la linea sale lentamente e una seconda parte, dalla fine degli anni ’60 in poi, in cui ha un’impennata), più o meno stabile nel decennio successivo, in rapida e costante discesa a partire dagli anni ‘90.

Quando nel 1989 cadeva il muro di Berlino, seguito a breve dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, non saranno stati in molti a indovinare tutte le implicazioni che da tali eventi sarebbero derivati. Nel clima ottimistico venutosi a creare all’epoca, a farla da padrone fu l’entusiasmo per la liberazione di quei popoli e per il loro ingresso nella grande famiglia delle democrazie. Ci rallegravamo in maniera del tutto disinteressata perché in quegli eventi non vedevamo alcuna richiesta di sacrificio. Si trattava soltanto di simpatizzare per un popolo che conquistava la libertà. Presto le loro condizioni di vita sarebbero migliorate. Non solo per noi non vi era in ciò nulla da perdere, ma anzi poteva pure esserci qualcosa da guadagnare. Avere nuovi partner commerciali con cui convivere in pace in luogo di paesi ostili non poteva non riflettersi positivamente anche sulla nostra vita.

C’è voluto un po’ di tempo per capire che questa era solo la superficie dei fatti. Nella sostanza le cose non stavano esattamente così. Questa visione romantica degli avvenimenti non considerava la realtà nella sua interezza. La scomparsa del blocco sovietico decretava, molto più prosaicamente, la vittoria degli Stati Uniti e del modello neoliberista, affermatosi lì negli ultimi due decenni del secolo scorso.

Come risaputo, all’interno dello schieramento occidentale, l’Italia era uno dei paesi geopoliticamente più importanti, ma nello stesso tempo uno di quelli ritenuti più instabili, in virtù dell’esistenza di un partito comunista che si attestava intorno al 30%, minacciando il primato del principale partito di governo.

Nella sostanza, il socialismo reale aveva rappresentato per i lavoratori italiani una sorta di assicurazione sulla vita. L’esistenza di un partito comunista molto forte, e quindi di un potenziale passaggio del paese al fronte nemico, aveva infatti indotto il capitalismo italiano a scendere a miti consigli. Nell’arco di poco più di un decennio erano state approvate tutta una serie di norme e provvedimenti favorevoli ai lavoratori. L’imperativo era quello di disinnescare il conflitto sociale.

La crisi e il crollo dell’URSS segnano l’inizio dell’inversione di tendenza. Venendo a mancare il contrappeso della minaccia comunista, il neoliberismo non ha più nulla da temere. Può procedere per la sua strada consapevole della propria forza, dispiegando le sue ricette senza paventare alcun rischio. È il momento in cui si afferma la dottrina thatcheriana del There Is No Alternative, ed è questo il momento in cui si diffonde la teoria della morte delle ideologie. Poco importa che, come detto prima, tale teoria fosse del tutto campata in aria, la cosa importante, e che le ha garantito il successo, era che fosse funzionale alla narrazione del There Is No Alternative.

L’aspetto interessante è che tale visione ha trovato terreno fertile non solo tra i conservatori, che ovviamente avevano tutto l’interesse a promuoverla, ma anche nell’area di sinistra. In Italia colpisce la reattività con cui si sono mossi i dirigenti dell’allora PCI.

Il passaggio fu quanto mai rapido. Da comunisti a liberali in un giorno, verrebbe da dire. Alla Bolognina si sono presentati comunisti e sono andati a dormire liberali. Un’inversione a 180°. Ma ricordandosi forse che un partito liberale, per quanto minuscolo, in Italia esisteva già, si è fatto ricorso alla definizione americana: liberal. I successivi cambiamenti di nome sono stati rapidi come un ruzzolar per le scale. Partito democratico della sinistra; Democrati di sinistra; Partito democratico. E già si cerca qualcosa di nuovo da inventarsi.

È subentrata così nella classe dirigente ormai ex comunista una sorta di ansia da prestazione. Siccome il leitmotiv della democrazia bloccata degli anni della guerra fredda era che il PCI non poteva andare al governo in quanto ritenuto “inaffidabile” (dagli americani), la prima se non l’unica preoccupazione dei post-comunisti è stata quella di dimostrarsi “affidabili” (agli americani). Nell’adempiere a questa prova si sono dimostrati più realisti del re. Emblematico è stato il totale appiattimento alla volontà della NATO: al confronto del primo (e fortunatamente unico) presidente del Consiglio ex comunista, Craxi, tanto per dire, ci fa la figura del gigante.

Più il partito di sinistra si allontanava di gran carriera dalla sinistra, e più si è assistito al provvidenziale naufragio del dibattito politico verso argomenti sempre più stucchevoli, verso lo sterile almanaccare su cosa fosse di sinistra e cosa di destra. Il doppiopetto è di sinistra o di destra? La 500 è di sinistra o di destra? L’impermeabile stile tenente Sheridan è di sinistra o di destra? Il secchiello e la paletta per la spiaggia sono di sinistra o di destra? E così via verso il nulla.

Il mutamento di pelle ha interessato anche quegli intellettuali che fino ad allora gravitavano intorno al PCI e poi diventati editorialisti di grandi giornali o giuslavoristi, o imbarcatisi in altre missioni similmente utili. Cresciuti nell’alveo del Partito Comunista, nutriti a pane e centralismo democratico, nell’arco delle ventiquattr’ore si sono scoperti liberali. Che a sentirli si sarebbe detto che si fossero formati alla Scuola di Chicago, non alle Frattocchie, e che d’allora in poi non hanno perso occasione per manifestare un non celato disprezzo non solo verso quelli che il giorno dopo la Bolognina sostenevano le stesse identiche tesi da loro sostenute fino al giorno prima, ma anche verso chi conservava un sia pur minimo residuo socialdemocratico, fino a divenire i più inflessibili guardiani del rigore. Incendiari diventati pompieri. Quelli che oggi quando si parla di pensioni, salari e patrimoniale, se ne escono immancabilmente con lo stesso ritornello: dobbiamo rassicurare i mercati. Chissà come mai i mercati non vogliono essere rassicurati su evasione fiscale, società di comodo, paradisi fiscali, ecc.

Mark Fisher cita a proposito dell’avvento di questo nuovo ordine una frase attribuita a diversi autori: “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.”[1]

Un’iperbole forse, ma non priva di fondamento. In effetti, «il capitalismo è molto simile alla Cosa del film di John Carpenter: un’entità mostruosa, plastica e infinita capace di metabolizzare e assorbire qualsiasi oggetto con cui entra in contatto».[2] Puoi scrivere un libro o un articolo, puoi fare una pellicola, un documentario o uno spettacolo teatrale contro il capitalismo, e stai contribuendo a farlo funzionare.

Ingiustificata, tuttavia, è l’implicita conclusione che ne è derivata, per cui se è impossibile immaginare la fine del capitalismo, è anche impossibile “correggerlo”. In teoria, infatti, potrebbe esserci capitalismo e capitalismo.[3] Invece, rimane sottinteso a questa narrazione una sorta di implicito quanto fallace sillogismo: siccome è un’utopia costruire una società di eguali, è anche un’utopia pensare di poter realizzare una società meno diseguale. Via libera, quindi, per costruire una società sempre più ingiusta.[4]

Gli alfieri del neoliberismo hanno avuto gioco facile nel diffondere questa idea, essendo lo sconfitto il comunismo, la cui applicazione si era rivelata fallimentare. Chiunque si discosta dal nuovo verbo può essere messo a tacere additandolo come nostalgico di quel modello. Un po’ come faceva Berlusconi durante le sue campagne elettorali paventando i cosacchi a San Pietro.

Da qui la progressiva uniformizzazione dell’offerta politica. È l’inizio dell’epoca delle privatizzazioni, delle deregolamentazioni, nonché del lento, metodico e inarrestabile smantellamento delle conquiste ottenute dai lavoratori nei decenni precedenti, perseguiti indifferentemente dai governi del cosiddetto centro-sinistra e del cosiddetto centro-destra. Così, alla fine, il maclavoro (per usare il termine coniato dallo stesso Fisher) ha rimpiazzato il lavoro.

(3. continua)

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[1] Mark Fisher, Realismo capitalista

[2] Ibidem.

[3] There are thousands of alternatives fu uno degli slogan del movimento noglobal.

[4] Stiglitz parla del “problema dell’1 per cento” e porta alcuni dati per invalidare la cosiddetta teoria dell’effetto a cascata, strombazzata da tutti i volenterosi portavoce nel neoliberismo, secondo la quale la grande ricchezza di pochi porta ricchezza per tutti. «Nella prima post-recessione del nuovo millennio (dal 2002 al 2007), il primo 1 per cento ha realizzato più del 65 per cento dei guadagni del reddito totale nazionale […] nel 2007, l’anno prima della crisi, il primo 0,1 per cento delle famiglie americane aveva già un reddito pari a 220 volte la media dell’ultimo 90 per cento. La ricchezza era distribuita in modo ancora più disuguale del reddito, con l’1 per cento più facoltoso che possedeva più di un terzo della ricchezza nazionale […] Circa trent’anni fa, il primo 1 per cento dei percipienti reddito riceveva soltanto il 12 per cento del reddito nazionale». Nel frattempo, «il reddito di un tipico lavoratore full-time di sesso maschile è rimasto stagnante per ben più di trent’anni […] I giovani di sesso maschile, con un’età compresa fra i 25 e i 34 anni e scarsamente istruiti, vivono una situazione ancora più difficile: negli ultimi venticinque anni, chi aveva soltanto il diploma di scuola superiore ha visto scendere il proprio reddito reale di più di un quarto». Joseph Stiglitz, Il prezzo della diseguaglianza.

Di Giovanni

"Trascorsi nell'antico Pci, ho lavorato in diverse regioni italiane e all'estero (Francia, Cina, Corea), scrittore per hobby e per hobby, da qualche tempo, ho aperto anche un blog ( quartopensiero ) nel quale mi occupo, in maniera più o meno ironica, dei temi che mi stanno a cuore: laicità, istruzione, giustizia sociale e cose di questo tipo."

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