(Leggi precedente 3.)

4. Omologazione ed egemonia sottoculturale

Sul finire del secolo scorso Bobbio enumerava una lista di motivazioni che starebbero all’origine della tesi secondo la quale destra e sinistra non esistono più. Di queste motivazioni, la più interessante, nonché la più attuale, è senz’altro l’ultima. La fine della distinzione andrebbe cercata nel fatto che «le differenze tra l’azione dei governi di sinistra e di quelli di destra si vanno sempre assottigliando fino al punto da risultare impercettibili». Se, dunque, governi di destra e governi di sinistra compiono le medesime azioni, viene meno la grande dicotomia che si basa sul «principio dell’esclusività, per cui un movimento o un partito non possono essere allo stesso tempo di destra e di sinistra.»[1] Ne deriva che non ha più senso parlare di due entità distinte o addirittura contrapposte.

Il fenomeno, del resto, è ben visibile nel concreto operato di ogni ramo dell’amministrazione. Si sono succeduti governi di diverso orientamento negli ultimi vent’anni, ma ad analizzare le attività dei vari ministeri non si notano differenze significative. La spesa militare è costantemente cresciuta. La politica estera ha continuato a basarsi su un unico caposaldo, «fedeltà alla Nato», così come su un unico caposaldo si basa quella economica, «ce lo chiede l’Europa». Nella pubblica istruzione abbiamo assistito al forsennato succedersi di improvvide riforme, tutte ispirate alle medesime teorie pedagogiche e tutte finalizzate all’adozione del modello americano: da Berlinguer alla Buona Scuola si direbbe che a operare sia stata sempre la stessa mano. E così via.

Questa sostanziale omologazione dei governi di destra e di sinistra si riflette nei partiti che li compongono. Fino alla fine della Prima Repubblica l’identità delle varie forze politiche è stata ben definita. Un tempo militare nel Partito Comunista, nella Democrazia Cristiana o nel Movimento Sociale conferiva di per sé una precisa identità politica. Significava, cioè, essere portatori di un sistema di idee e di valori ben identificabile. Uno che diceva «sono comunista» o «sono missino», aveva già riassunto con una parola il proprio punto di vista politico su tutto (o quasi). Si poteva tranquillamente escludere che il missino si pronunciasse a favore dello statuto dei lavoratori o il comunista contro.

A partire dagli anni ’90, man mano che un fenomeno nuovo, la personalizzazione della politica, andava soppiantando la tradizionale organizzazione partitica, quella identità si è disciolta in una sorta di mare magnum elettoral-propagandistico, nel quale ciascuno di noi pesca quelle idee, o anche quella sola idea per lui prioritaria, che determinerà il suo voto. L’elettorato, come ora si usa dire, è diventato liquido.

La nascita di Forza Italia costituisce il prototipo di questa nuova forma di aggregazione politica basata sul rapporto diretto leader/elettori. La figura del capo si è consolidata a scapito degli organi intermedi e quindi della struttura democratica dell’organizzazione. Non è più il capo un’emanazione della base, espressa attraverso i vari organi intermedi (sezioni, rappresentanti locali, ecc.) e attraverso vari momenti di discussione (assemblee, congressi, ecc.), ma piuttosto il contrario. È il vertice che plasma l’organizzazione. In questo senso Berlusconi è partito avvantaggiato. Le elezioni del ’94 le aveva vinte ancor prima che si svolgessero. Le aveva già vinte nel decennio precedente, plasmando tramite le sue televisioni un elettore a sua immagine e somiglianza. Verrebbe da evocare il concetto di egemonia culturale di gramsciana memoria. O sottoculturale, si potrebbe dire, se l’ironia non fosse fuori luogo, visto come è finita.

 Non a caso si è parlato di partito-azienda, perché nato per tutelare gli interessi di un’azienda. Anche se forse sarebbe stato più appropriato chiamarlo azienda-partito, essendo il partito un’emanazione dell’azienda e funzionando come un ramo dell’azienda, con gli organi intermedi che svolgono una mera funzione di cinghie di trasmissione.

È di conseguenza venuto meno quel bagaglio di idee, che serve a unire le persone in un partito. Bastano le idee del capo, poche e semplici, preferibilmente riassumibili in slogan, e, cosa tutt’altro che secondaria, non necessariamente coerenti. Se già la memoria storica non è un tratto caratterizzante dell’elettorato, che quindi non pone grande attenzione alla coerenza, nel momento in cui esso si identifica con un leader, l’aspettativa di coerenza scompare del tutto. Il capo può tranquillamente affermare il contrario di quanto detto il giorno prima, può giustificare come vuole una tesi precedentemente espressa che contraddice quella odierna, o può pure negare di averla pronunciata. Il fatto che ci siano mille filmati a dimostrare il contrario non significa niente. L’opinione dell’elettore non muterà, perché ancor prima di basarsi sulle idee, si basa sull’identificazione e sull’idealizzazione del capo stesso, che non è più, come nelle organizzazioni politiche tradizionali, un primus inter pares, bensì una sorta di unto, che si staglia al disopra della gente comune.

A differenza di quei sistemi di idee che stavano alla base dei partiti del Novecento, che richiedevano un lento processo di elaborazione e venivano a formare una struttura coerente, alla quale doveva necessariamente far seguito una condotta coerente, oggi la linea di un capo politico ti arriva preconfezionata con un semplice slogan. I candidati non si preoccupino: possono avere avuto figli con quattro partner diversi, proporsi come paladini della famiglia ed essere riconosciuti e votati come tale; possono essere schedati come consumatori abituali di cocaina e presentarsi come interpreti dei valori tradizionali; ecc. Perché nella personalizzazione della politica la figura del leader, sottratta a ogni riflessione critica, tutto avvolge e tutto purifica. La sua investitura cessa di interessare la sfera razionale, per diventare esclusivo appannaggio di quella emotiva.

Le leggi elettorali adottate negli ultimi vent’anni non hanno fatto altro che certificare questo passaggio, consegnando ogni potere ai capi dei vari partiti, ragion per cui anche il Partito Democratico, ultimo erede dei cosiddetti partiti di massa, si è come tutte le altre forze politiche di fatto adattato a tale fenomeno. È il leader ormai che sceglie i nostri rappresentanti, spesso sganciati da ogni legame col territorio, ubbidendo a mere logiche di potere interne al partito stesso.

Si capisce dunque come, da un paio di decenni a questa parte, sia venuto meno quel senso di appartenenza a un partito politico. Nessuno dirà «sono di Fratelli d’Italia» o «sono del Partito Democratico», come un tempo diceva «sono comunista» o «sono missino», a meno di essere un funzionario o un rappresentante di quel partito. Tutt’al più dirà «voto per Fratelli d’Italia» o «voto per il Partito Democratico», lasciando così intendere di non sentirsi parte di un’organizzazione, di non sentirsi legato a essa da un vincolo ideologico, ma di esserne esterno. Il militante ha ceduto il posto al più generico attivista. I partiti di massa, come li conoscevamo un tempo, hanno smesso di esistere. Oggi un partito è di massa per il solo fatto di prendere molti voti.

Tutto ciò premesso, dall’omologazione delle forze politiche di destra e di sinistra non discende per forza di cose l’omologazione delle idee di destra e di sinistra. Alla base della vulgata secondo la quale destra e sinistra non esisterebbero più, c’è una sorta di salto logico, dedurre cioè che l’azione politica uniforme dei vari partiti sia il riflesso di una sopravvenuta uniformità di idee. Ovviamente non è così. Che in parlamento sia rappresentata una sola linea politica non significa che fuori dal parlamento non ci siano altre idee.

Non crisi dei valori di sinistra, per rispondere dunque al quesito posto all’inizio, bensì crisi di organizzazione e rappresentanza dei valori e delle istanze di sinistra.

Fin tanto che stanno all’opposizione o, ancor più, durante la campagna elettorale, la contrapposizione tra le varie forze politiche risulta ancora ben visibile, a testimonianza che le idee di destra e di sinistra continuano ad esistere e possono pure tornare utili all’occorrenza, ma arrivate al governo le differenze tra di loro si assottigliano fino a quasi scomparire. L’omologazione dell’azione politica di destra e sinistra si fonde bene con quella caratteristica tutta italiana di interpretare il cosiddetto ruolo istituzionale come una sorta di habitus di apolitica neutralità. Il desiderio di non scontentare nessuno prevale su quello di dare attuazione alle istanze dei propri elettori. Le differenze si riducono al minimo, spesso simili a simboliche bandierine o, forse sarebbe meglio dire, a specchietti per le allodole.

C’è un’affermazione di Giolitti che continua a rappresentare una sorta di vademecum non scritto per ogni capo di governo, a prescindere dal partito di appartenenza, e che meglio fotografa quella vocazione al trasformismo tutta italiana. A chi gli rimproverava se non i suoi legami, almeno l’indulgenza verso la malavita e il malaffare, Giolitti rispondeva: io sono come un sarto che cuce il vestito attenendosi alle misure del cliente. Se il cliente ha la gobba, devo fargli un vestito che gli si adatti.[2]

Ecco, questo è lo spirito col quale si tende a governare il paese. Chi si attenderebbe che dall’alto arrivi l’input per eliminare, o almeno limare, qualche gobba – e proprio chi è di sinistra si attenderebbe ciò – può metterci una pietra sopra. I venti di cambiamento soffiano solo durante la campagna elettorale. Poi, una volta al governo, subentra la filosofia sartoriale giolittiana.[3]

Tale omologazione pone, a sua volta, due ordini di domande. In primo luogo, per quale motivo i differenti partiti non siano in grado di esprimere linee politiche effettivamente diverse una volta chiamati a governare. In secondo luogo, assodato che non esistono politiche neutre, che non siano né di destra né di sinistra, né oltre la destra e la sinistra, se questa linea unica di governo, che tende ad accomunare tutti i partiti, sia di destra, di sinistra o di oltre. Due domande per le quali è sufficiente una sola risposta.

(leggi successivo 5.)


[1] Norberto Bobbio, op. cit.

[2] Denis Mack Smith, Storia d’Italia dal 1861 al 1997.

[3] Un caso di cronaca politica recente. Fine novembre 2023. Come concordato con la Commissione Europea dai precedenti governi e, in ultimo, dal governo Draghi, il governo in carica delibera il passaggio al mercato libero dell’energia. I partiti oggi all’opposizione si schierano contro la decisione, che avevano però condiviso quando facevano parte dei precedenti esecutivi. La PdC, fortemente contraria quando era all’opposizione, oggi ne è la più strenua sostenitrice. Ergo, il governo interpreta sempre la stessa linea, a prescindere dai partiti che lo compongono, i quali, a loro volta, si scambiano le idee a seconda dei ruoli, come in un gioco delle parti.

Per approfondire: “Che cosa c’entra la fine del mercato tutelato con il Pnrr” di Carlo Canepa, 23/11/2023. https://pagellapolitica.it/articoli/fine-mercato-tutelato-pnrr (consultato l’ultima volta il 2/12/2023)

Di Giovanni

"Trascorsi nell'antico Pci, ho lavorato in diverse regioni italiane e all'estero (Francia, Cina, Corea), scrittore per hobby e per hobby, da qualche tempo, ho aperto anche un blog ( quartopensiero ) nel quale mi occupo, in maniera più o meno ironica, dei temi che mi stanno a cuore: laicità, istruzione, giustizia sociale e cose di questo tipo."

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