Giulio Di Donato

La ricerca di una terza via tra l’iper-globalizzazione unipolare e uniformante post-1989 e il rischio di una de-globalizzazione conflittuale e competitiva tra blocchi contrapposti è al centro del volume di Alfredo D’Attorre dal titolo Metamorfosi della globalizzazione. Il ruolo del diritto nel nuovo conflitto geopolitico (Laterza, 2023).

Nella convincente prospettiva dell’autore, “competizione e cooperazione, sovranità e vincoli giuridici sovranazionali, interesse nazionale e salvaguardia di beni pubblici globali non vanno considerati come termini di una contrapposizione polare o di una contraddizione insuperabile, ma come gli elementi ineliminabili di un equilibrio dinamico su cui deve basarsi il nuovo assetto della globalizzazione”. Si tratta allora di “individuare un nuovo e più funzionale punto di equilibrio fra sovranità statuale e globalizzazione, in grado di gestire le sfide dell’interdipendenza”. Il tutto muovendo innanzitutto dal riconoscimento tanto dell’importanza “dei vincoli e delle opportunità dell’interdipendenza globale”, senza le quali la sovranità politica “rischia di diventare impotente, in quanto priva di elementi cooperativi essenziali per raggiungere i propri obiettivi e proteggere i propri cittadini”, quanto della centralità della sovranità degli Stati, che restano “il principale giacimento di lealtà e solidarietà politica tra gli individui”, senza la quale “la globalizzazione tende ad assumere tratti imperialistici, nel senso che non accetta e non valorizza le differenze culturali e giuridiche”.

Certamente, prosegue D’Attorre, l’aspetto “plurale, duttile e articolato del nuovo assetto della globalizzazione è un dato oggettivo difficilmente aggirabile. Tuttavia, se nel contesto del pluralismo delle aree regionali l’elemento competitivo e antagonistico prevalesse totalmente su quello della cooperazione e della messa in forma giuridico-istituzionale dell’interdipendenza, questo assetto non solo determinerebbe il rischio continuo e concreto di uno scivolamento della competizione verso il conflitto, ma sarebbe anche profondamento inadeguato rispetto alle sfide dell’interdipendenza globale”. D’altra parte, se è vero che “la crescita dell’integrazione economica e culturale su scala globale non è di per sé garanzia di pace e di stabilità, è altrettanto certo che un mondo diviso in blocchi tra loro contrapposti e non comunicanti non sarebbe certo la via maestra verso un futuro di prosperità condivisa”, dato il carattere interdipendente del destino dell’umanità nella fase attuale di sviluppo scientifico e tecnologico. Del resto le sovranità statuali, comprese quelle degli Stati più potenti, possono oggi “perseguire una quota sempre più importante dei loro obiettivi politici interni solo se a livello planetario vengono salvaguardati quelli che ormai sono definibili come dei veri beni pubblici globali”.

La questione diventa allora quale sia il modello di diritto internazionale a cui guardare nell’ottica di conciliare il riemergere delle sovranità degli Stati, mai comunque venuta meno, sia pure limitata al minimo, soprattutto in Europa, almeno riguardo la possibilità di “plasmare l’ordine economico della società”, con la messa in forma di nuovo ordine mondiale fondato sull’interdipendenza e sul pluralismo cooperativo degli Stati sovrani. Per rispondere a questa domanda bisogna scansare, suggerisce l’autore, due posizioni estreme, definite nel libro “pangiuridicismo” e “panpoliticismo”, a seconda che “la capacità del diritto di regolare l’ambito delle relazioni internazionali venga affermata in modo pieno e incondizionato” oppure sostanzialmente negata e considerata puro riflesso, “pura copertura ideologica di rapporti di forza politici”, dissolta quindi nelle logiche della geopolitica. Questo discorso conduce a due precise conclusioni: da una parte il ruolo del diritto non può essere sopravvalutato, nel senso di ritenere che esso sia in grado di “garantire da solo l’ordine e la pace tra gli Stati, senza che fattori politici determinanti concorrano a questo esito”; allo stesso tempo è sbagliato considerare ininfluente o irrilevante la funzione che il diritto internazionale può potenzialmente svolgere sulla scena internazionale.

Il punto di partenza è comunque ancora una volta “l’analisi concreta della situazione concreta”. Si tratta cioè di comprendere l’evoluzione delle tendenze geopolitiche in atto per poi agire su di esse, previo lavoro di riflessione teorica che precede e accompagna determinate scelte politiche, in vista di una realistica ed efficace messa in forma e stabilizzazione politico-giuridica del quadro delle relazioni internazionali, basato non solo sulla competizione, ma anzitutto “sulla fiducia e sulla mutua convenienza”. Ma quali sono le tendenze geopolitiche prevalenti? Due soprattutto: la prima registra una situazione di tendenziale equilibrio di potenza, non più bipolare come al tempo della guerra fredda, ma multipolare. Accanto a questa tendenza, c’è la spinta a ridefinire e ricondurre “le aree di cooperazione e di più intenso interscambio economico” all’interno di “ambiti geopoliticamente omogenei”, ossia tra Paesi “amici” sul piano geopolitico. Questo tuttavia, avverte D’Attorre, è un “disegno arduo e denso di incognite, dato il livello di interdipendenza stabilitosi fra le economie dell’Occidente e quelle della Cina, e di molti altri grandi Paesi non allineati con il blocco atlantico”; un disegno che comunque si scontra con “l’impossibilità di affrontare questioni di portata globale, da quella ambientale fino a quella alimentare o energetica, soltanto entro il perimetro di alleanze geopolitiche coerenti”.

Detto questo, il confronto fra le attuali superpotenze (Usa, Cina e Russia), nonostante diversi elementi di differenza con riferimento soprattutto alla natura della sfida e alla pluralità dei soggetti coinvolti, “può riproporre quella formula di semplificazione bipolare che nel periodo della guerra fredda ha consentito la costruzione di un equilibrio e di una stabilità internazionale, sia pure affidata alla mutua deterrenza nucleare e alla forza centripeta esercitata dai due blocchi ideologici contrapposti”. Dal periodo della guerra fredda arriva anche un’altra lezione: “una situazione di equilibrio e mutua deterrenza fra le potenze egemoni, determinatasi in modo contingente e non voluto, può condurre a sviluppi positivi rispetto alla situazione iniziale, se governata con saggezza attraverso sforzi cooperativi”. Ciò vuol dire, sottolinea a più riprese l’autore, che “l’equilibrio di potenza rappresenta una chance per disegnare un diverso assetto della globalizzazione”, fondato “sull’interdipendenza e sull’individuazione di obiettivi comuni fra potenze sovrane, inevitabilmente competitive, ma insieme condizionate anche da robuste ragioni che inducono a scelte cooperative”. Anche perché se si guarda alla sua genesi il diritto internazionale, che come tale è “sempre sospeso fra giuridicità e politicità”, sembra possedere “una relazione quasi costitutiva con una condizione di equilibrio di potenza”. Ne deriva che “il diritto internazionale non esclude la dimensione della potenza, dell’interesse nazionale e del conflitto fra Stati, ma richiede come condizione minima di possibilità l’assenza di squilibri di forza tali da minare alla radice l’interesse delle diverse parti a un regime regolato e prevedibile di composizione dei rispettivi obiettivi ed esigenze. Senza questa condizione, il diritto internazionale rischia di ridursi alla mera legittimazione dell’ordine disegnato dalla potenza dominante e funzionale al mantenimento della sua posizione. La storia dimostra che, anche e soprattutto sul piano internazionale, un potere privo di bilanciamenti, pur se legittimato democraticamente, tende ad esondare e a rivestire di argomentazioni morali o umanitarie le proprie mire egemoniche”.

All’interno di questa prospettiva, al diritto internazionale, nel suo inestricabile intreccio con la politica e con il potere, spetta “la funzione peculiare di offrire strumenti di comunicazione” e “di giustificazione”, di elaborare “schemi di stabilizzazione delle aspettative”, di favorire l’innesco di “relazioni di ragionevole fiducia” tra gli attori geopolitici, al limite di svolgere anche una funzione di katechon, nella sua veste di forma che “trattiene” e addomestica con l’auspicabile supporto di altri fattori, soprattutto ideali e spirituali, il demone della guerra e della violenza, assicurando un principio minimo di ordine ed equilibrio. Dismesse le pretese uniformanti e spoliticizzanti del globalismo giuridico, il diritto internazionale diventa così “la trama di un possibile universalismo minimale, rispettoso del pluralismo delle culture e degli interessi nazionali”, la cui normatività agisce nei modi di una pressione che “per risultare efficace deve incrociare in qualche forma e in qualche misura la convenienza politica degli Stati”. Come ribadito in più punti del libro, il “perseguimento dell’interesse nazionale costituisce il nucleo di verità inaggirabile della politica internazionale, al di là di ogni velleità di moralizzazione o giuridificazione integrale. Tuttavia, persino la pulsione di potenza (soprattutto degli Stati più forti) non esclude l’uso del linguaggio del diritto. E nel momento in cui viene adoperato, questo linguaggio espone l’agire degli Stati a uno specifico registro di analisi e di critiche, che trascende anche l’ambito puramente tecnico-giuridico e il riferimento specifico a trattate, convenzioni e sentenze di corti internazionali. Il ricorso al linguaggio del diritto esprime anzitutto il tentativo di offrire una cornice razionale e comunicabile ad atti, posizioni, rivendicazioni, contestazioni che segnano l’agire degli Stati. Implica essenzialmente, contro le ipotesi di giuridificazione delle relazioni internazionali, un codice di razionalizzazione e di comunicazione e un registro di criticabilità delle decisioni degli Stati e delle organizzazioni attive sul piano internazionale”.

Riconosciuta l’importanza di una “trama, sia pur minimale, di formalità, prevedibilità e pressione alla conformità che il diritto assicura”, resta comunque la necessità di valorizzare l’iniziativa politica dei singoli attori geopolitici, affinché agiscano al fine di promuovere le condizioni e le ragioni che inducono a scelte cooperative, piuttosto che quelle favoriscono il conflitto, anche perché il diritto internazionale è un “intreccio inestricabile di fattualità e normatività, in cui il secondo elemento ha la funzione di stabilizzare e razionalizzare un equilibrio fondamentalmente prodotto dal primo”. A questo punto D’Attorre guarda all’Europa, intesa sostanzialmente come nucleo ristretto dei Paesi fondatori, chiamata ancora una volta a svolgere una funzione di equilibrio nel “riannodare il rapporto fra diritto e sovranità politica sul piano globale”, purché ovviamente sia in grado di sviluppare una sua strategia autonoma. Tuttavia, mai come in questi ultimi mesi l’Ue ha dimostrato tutta la sua sudditanza politica e militare agli USA. Resta il fatto che chi confida in un consolidamento dell’equilibrio multipolare deve adoperarsi affinché, ad esempio, l’epilogo dei conflitti e delle tensioni in corso non coincida con la situazione di una Russia pesantemente sconfitta e umiliata o di una Cina radicalmente ridimensionata nella sua forza e proiezione globale. In altri termini, nella congiuntura di guerra attuale, spingere verso una condizione di equilibrio dinamico e produttivo di potenza significa rimuovere l’obiettivo della sconfitta militare della Russia, cosa che l’élites europee ancora adesso si prefiggono con la loro fanatica propaganda bellicista.

Per quanto riguarda il destino del continente europeo, l’autore considera giustamente impraticabile la via di una trasformazione dell’Unione Europea in una compiuta sovranità politica unitaria dotata di una piena soggettività geopolitica e militare (d’altronde “la pluralità storica, linguistica, culturale, politica del Vecchio Continente è un dato così profondo da rendere velleitario e controproducente un obiettivo del genere”). Ciononostante egli ritiene che “in un mondo segnato dal risorgere del conflitto geopolitico e dall’emergere di nuove forme di controllo e regolazione statuale dell’economia, anche per l’Europa diventa essenziale la scelta politica e discrezionale degli obiettivi fondamentali da perseguire. Ciò richiede la trasformazione da comunità di diritto, fondata sulla spoliticizzazione delle decisioni fondamentali, a comunità politica plurale”, sorretta dalla protezione di interessi geopolitici sostanzialmente comuni. Eppure, si potrebbe aggiungere, l’Ue è stata congegnata in modo tale proprio perché le fosse impossibile sviluppare una soggettività politica autonoma e unitaria, oltre che per deprimere il protagonismo e la vitalità dei singoli Paesi membri. Ma di questo l’autore è ben consapevole, laddove osserva come “nella stagione del ritorno degli Stati e del tramonto dell’illusione di un mondo definitivamente post-sovrano, sempre l’Unione europea è chiamata a ridefinire non solo singoli elementi della sua struttura istituzionale, ma alcuni dei presupposti di fondo sulla base dei quali il processo di integrazione è stato sviluppato”. Di un tale ravvedimento però non c’è traccia a livello di classi dirigenti. Addirittura, su sollecitazione di un ceto miope di burocrati, si intende procedere verso un ulteriore allargamento dell’Unione oltre il numero già elevato dei ventisette Paesi membri. Quando non dovrebbe più sfuggire, ma ovunque c’è carenza di senso storico-dialettico, che ciò che si guadagna in larghezza ed estensione si perde in intensità e profondità, ovvero in consapevolezza della propria identità, quindi dei propri compiti e dei propri interessi.

Ragionando in termini astratti, appare ben più realistica, sebbene improbabile allo stato dei fatti, una prospettiva di tipo confederale, e cioè un modello di alleanza tra Stati confinanti che perseguono, soprattutto in campo internazionale, scopi comuni mediante apposite istituzioni, pur mantenendo ciascuno piena indipendenza e sovranità. Maggiormente congeniale è anche l’ipotesi di un’Europa a cerchi concentrici e a geometria variabile: qui il riferimento è al modello di un’integrazione a livelli e ritmi diversi a seconda dei Paesi e delle questioni in gioco, tramite il rafforzamento della cooperazione in alcuni settori, quali ad esempio la protezione di interessi geopolitici sostanzialmente comuni, riservato però a un numero ristretto di «nazioni apparentate». Negli ultimi tempi c’è anche chi ha rilanciato due suggestioni: l’Impero latino di Alexandre Kojève e l’Alternativa mediterranea di Danilo Zolo e Franco Cassano. Due opzioni che conservano ancora oggi un loro fascino e una certa dose di attualità, se messe in relazione all’immagine di un’Europa divisa in due macro-aree il più possibile cooperanti e comunicanti fra loro e con una più marcata autonomia dall’Anglosfera: un blocco dei Paesi del Nord, che veda Francia e Germania di volta in volta contendersi la leadership, e un’alleanza dei Paesi del Sud che guardi al Mediterraneo e – perché no? – ai Paesi del Brics. Restano però solo suggestioni. La realtà dei nostri giorni è purtroppo quella di un continente ingessato e sempre più periferico e ripiegato su se stesso, che ha cercato negli ultimi anni un comodo riparo dalle logiche del “politico”, coltivando l’illusione della fine della Storia e di un pianeta unificato dall’economia di mercato, dalla tecno-scienza e dalla retorica dei diritti umani. Ma la Storia è tornata, all’improvviso e senza bussare alle sue porte, prima con la pandemia, poi con la guerra in Ucraina, infine con la deflagrazione del conflitto in Medio Oriente. Del tanto auspicato ritorno del “politico” non vi è invece ancora alcuna traccia, salvo un rumore elementare di fondo privo di ricadute positive sulla realtà e l’agitarsi di spettri vecchi e nuovi

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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