Enrico Grazzini

Il disastro italiano

Un disastro causato da troppe illusioni: il declino dell’Europa era però già stato previsto da alcuni grandi intellettuali, come Susan Strange, Tony Judt e Eric Hobsbawm. In Italia quelli che sono considerati i Padri della Patria, a partire da Alcide De Gasperi, e poi Beniamino Andreatta, Giuliano Amato, Romano Prodi, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, e l’attuale Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sono stati e sono ferventi europeisti. Ma i loro sforzi evidentemente andavano nella direzione sbagliata, e comunque non sono stati certamente premiati. E’ lapidario il giudizio di Paul De Grauwe, considerato l’economista più importante sull’Unione Europea. “La performance economica dell’Italia da quando è entrata nell’eurozona è stata disastrosa. Nel 2018 il suo PIL pro capite era allo stesso livello del 1999, anno d’inizio dell’eurozona. Ciò significa che oggi la popolazione italiana ha visto il suo reddito stagnare per quasi vent’anni. Il contrasto con l’evoluzione del PIL pro capite dell’eurozona nel suo complesso è molto pesante: a partire dal 1999 gli altri paesi dell’eurozona hanno visto il proprio PIL pro capite crescere del 15%, cioè sono divenuti del 15% più ricchi. Non è un risultato impressionante ma sicuramente migliore di quello dell’Italia. Nessun altro paese dell’eurozona è andato peggio dell’Italia, persino la Grecia è andata meglio….  E’ indubbio che la partecipazione all’eurozona non abbia fatto bene all’Italia….. la conclusione inevitabile sembra essere che l’Italia non possa funzionare convenientemente in un’unione monetaria.”[1]. Del resto i dati sono inoppugnabili: l’Italia è ferma da trenta anni, cioè all’incirca da quando ha fatto di tutto, anche “carte false” (come dimostra la vicenda dei derivati italiani[2]) per entrare nell’eurozona. L’Italia nel 1992 ha aderito al Trattato di Maastricht, il patto che ha costituito l’Unione Europea come entità sovranazionale, e l’euro, come moneta unica di decine di paesi diversi – attualmente sono venti i paesi dell’eurozona -. Il trattato ha comportato la cessione di sovranità monetaria, e quindi anche di gran parte della sovranità fiscale e politica, e è stato firmato dai politici italiani un po’ per ragioni di prestigio agli occhi dei partner europei, un po’ per cercare di agganciarsi al treno della modernità europea, un po’ per cercare di lasciarsi alle spalle l’inflazione, le lotte sindacali e dei movimenti sociali degli anni settanta e ottanta, e un po’ nella speranza di godere di nuova fiducia da parte dei mercati finanziari e di ottenere bassi tassi di interesse sul debito, analoghi a quelli della Germania. I politici italiani hanno sperato che l’Unione Europea riuscisse a dirigere l’Italia meglio di quanto avevano saputo fare loro stessi. Hanno abdicato ingloriosamente alle loro responsabilità: ma l’illusione che la salvezza dell’Italia venisse dall’Europa e dagli stranieri si è dimostrata una enorme sciocchezza.

Con il trattato di Maastricht del 1992 la classe politica europea e italiana ha abbandonato irresponsabilmente le politiche keynesiane di sviluppo che avevano prodotto la ricostruzione del dopoguerra e il miracolo italiano abbracciando e sottoscrivendo – con un entusiasmo che avrebbe meritato ben altra causa – regole ultraliberiste che obbligano i bilanci pubblici a sottostare alla disciplina dei mercati finanziari. Maastricht ha sacralizzato la libertà di movimento dei capitali e la deregolamentazione della finanza e del mercato del lavoro. Ma i mercati finanziari sono per loro natura caotici e incerti, e subiscono e provocano crisi cicliche più o meno gravi. L’eurozona è stata attraversata da quattro crisi gravissime: quella cosiddetta dei subprime proveniente dagli Stati Uniti, la crisi dei debiti sovrani, la crisi del Covid, e infine quella scatenata dalla guerra in Ucraina tuttora in corso. L’euro è stato creato proprio per evitare le oscillazioni e le crisi valutarie dovute allo sganciamento del dollaro dall’oro e alla forza del marco tedesco; ma la moneta unica per contro ha esposto gli Stati europei alla speculazione sui titoli sovrani; e questa ha colpito in particolare i paesi mediterranei, come l’Italia, la Grecia, il Portogallo e la Spagna. Il problema è che Maastricht ha affidato l’economia dei singoli paesi alla disciplina dei mercati: ma i mercati finanziari amplificano i cicli economici e non sono sicuramente un fattore di stabilità per l’economia produttiva, anzi costituiscono il principale fattore di instabilità. Paradossalmente anche la sinistra europeista si è posta al carro di una ideologia e di un trattato liberista (più che liberale) che esalta le forze di mercato e dichiara esplicitamente che lo Stato non deve intromettersi nell’economia perché altrimenti falsa il libero gioco competitivo. Maastricht  considera l’intervento pubblico come il principale fattore distorsivo delle forze sane del mercato, la spesa pubblica solo come uno spreco, e il lavoro solamente come una sorta di merce “usa e getta” per competere senza troppi vincoli nella concorrenza globalizzata. Accettando questi presupposti la sinistra europea ha perso la sua base popolare, ovvero la sua storica base elettorale. Un vero e proprio suicidio politico.

In Italia i politici di destra sono stati più realisti e più furbi e calcolatori e sono “entrati in Europa” costretti e di malavoglia: Andreotti firmò il Trattato di Maastricht con grande ritrosia e Silvio Berlusconi si comportò da opportunista: scelse l’Europa quando sembrava che gli convenisse ma poi tentò di sganciarsi appena non conveniva più. Berlusconi, come riferito dall’ex direttore della BCE Lorenzo Bini Smaghi, durante la recessione del 2011 avviò dei contatti segreti per far uscire l’Italia dalla zona euro[3]. Berlusconi non poteva accettare le politiche europee di austerità e di compressione della spesa pubblica perché la tassazione facile (da eludere e da evadere) e la spesa allegra erano alla base del suo consenso e della sua retorica sulla possibilità che sotto il suo governo tutti si potessero arricchire facilmente. La UE però ha poi imposto il suo ordine per affermare anche in Italia la sua austerità. Il grande europeista Mario Monti successe a Berlusconi, aumentò le tasse e tagliò la spesa pubblica con il risultato di provocare la diminuzione del PIL e di aumentare il rapporto debito/PIL.

Da parte loro i politici di estrema destra, come Matteo Salvini e Giorgia Meloni – prima che diventasse presidente del Consiglio Italiano – hanno sempre visto come fumo negli occhi la UE perché impone lo Stato di diritto e la separazione dei poteri, perché è troppo liberale e promuove i diritti civili, e perché le istituzioni UE controllano dall’alto la spesa pubblica e l’operato dei governi, soprattutto se hanno debiti elevati come l’Italia. Personaggi come Salvini e Meloni non vogliono interferenze nella loro scalata al potere, non accettano i pesi e contrappesi della democrazia liberale, guardano con diffidenza ai diritti civili, e sono per loro natura più propensi al potere assoluto e all’ipernazionalismo alla Vladimir Putin piuttosto che alla separazione dei poteri e all’apertura verso culture esterne. Tuttavia negli anni la loro retorica aggressiva contro l’Europa delle burocrazie e della finanza ha centrato il segno. La destra estrema prima dell’euro consisteva in sparute e quasi inesistenti frange minoritarie e senza supporto popolare: grazie alle politiche di austerità e di sacrifici praticata dalla UE, la destra ha ora in tutta Europa un largo supporto popolare e è al potere in diversi Stati.

Infine gli economisti più competenti vicini alla Confindustria, ovvero alle grandi società italiane del tempo, come Guido Carli e Paolo Savona, hanno spesso valutato con grande preoccupazione e scetticismo l’ingresso dell’Italia nell’eurozona. Carli fu costretto a firmare il Trattato di Maastricht con Gianni De Michelis e Andreotti, ma lo fece per imposizione della politica. Essendo il ministro del Tesoro non poteva non firmare. Ma  sapeva che senza potere svalutare e senza essere sostenuta dalla spesa pubblica l’industria italiana difficilmente avrebbe potuto restare competitiva. Aveva ragione! I sindacati, hanno aderito al trattato della globalizzazione e della deregolamentazione per malinteso spirito internazionalista, abbagliati dalla retorica della pace e della modernità, e anche per ignoranza delle basilari leggi economiche. Il risultato è che alla fine la sinistra progressista e europeista, in nome di giusti e nobilissimi ideali – come la pace, la democrazia, i diritti civili e sociali, la cooperazione e la solidarietà tra i popoli – ha promosso una costituzione materiale che ha danneggiato più della destra l’economia e la società italiana.

L’Italia con un debito pubblico iniziale del 100% e oltre su PIL non sarebbe mai dovuta entrare in una area monetaria forte. L’impossibilità di svalutare in regime di moneta unica ha ingigantito il debito pubblico; occorre ribadirlo: il debito è diventato gigante perché siamo nel sistema dell’euro e non si può mai svalutare (contravvenendo tra l’altro alle leggi di mercato) e non perché la nostra spesa pubblica sia fuori controllo – infatti abbiamo un surplus di bilancio primario, ovvero i cittadini pagano più tasse di quanto lo Stato spende per i servizi sociali e il resto, al netto degli interessi sul debito -. Inoltre le politiche di austerità, e quindi di compressione dei salari e degli investimenti pubblici, ovvero della domanda interna,  hanno prostrato l’economia italiana. Per lo Stato italiano servire il debito in una moneta che non può controllare – ovvero in una moneta di fatto straniera, come è l’euro per i governi italiani – è diventato sempre più difficile.

Dopo trent’anni di politiche per l’Unione Europea l’Italia è una nazione deindustrializzata, povera, meno democratica che nella prima e seconda repubblica, e più diseguale sia sul piano sociale che su quello territoriale. Prima dell’euro era un prospero paese di serie B che aspirava a crescere ancora, oggi è precipitata senz’altro in serie C e è in declino. Questo è il risultato dei sacrifici fatti per rimanere nell’euro! Per entrare nell’eurozona la classe politica italiana ha smantellato l’industria pubblica, ha dismesso l’IRI, ha messo le sue telecomunicazionie le banche di interesse nazionale sul mercato, seguendo le strategie di privatizzazione suggerite da Mario Draghi durante l’incontro con le banche d’affari sul Britannia, il vascello di Sua Maestà britannica[4]. Oggi l’Italia ha debiti per il 140% del PIL e è tenuta in vita solo grazie al sostegno della Banca Centrale Europea che ha assorbito un quarto dei suoi debiti, e grazie al finanziamento del Next Generation EU della Unione Europea. Ma il supporto delle istituzioni europee è naturalmente molto interessato e non si sa quanto durerà. Di fatto l’Italia è diventato un paese solo formalmente sovrano.

E’ diffusa e profonda l’ignoranza sulle questioni monetarie: ma dopo il Trattato di Keynes sulla moneta ogni economista dovrebbe sapere che la valuta sovrana rappresenta il fondamento della capacità dello Stato di autofinanziarsi, di sottoscrivere la spesa pubblica, di pagare l’istruzione, la sanità, il welfare, la ricerca, la sicurezza e l’esercito, di sviluppare il paeser. La moneta è uno strumento essenziale per uno Stato: cedere la sovranità monetaria è come cedere l’esercito a una potenza straniera e rimanere senza difesa. E’ un atto irresponsabile di avventurismo lasciare la moneta in gestione a istituzioni indipendenti come è la BCE, su cui non si ha assolutamente nessun controllo. Non è azzardato affermare che avere ceduto la propria moneta in cambio di promesse e auspici sulla futura unificazione politica europea ha tradito l’interesse nazionale, ha avvantaggiato potenze concorrenti straniere e soprattutto ha trasferito il potere sull’economia ai mercati e alla grande finanza internazionale, ovvero a potenze impersonali e sovrastanti. Oggi l’Italia a causa della cessione della sovranità monetaria deve pagare circa 90-100 miliardi all’anno nei prossimi tre anni solo per servire il debito, senza peraltro riuscire a diminuirlo. E’ un paese oggettivamente sull’orlo del fallimento.

Si può senz’altro affermare che sul piano economico l’Italia non è più un paese sovrano, ovvero un paese indipendente: il suo bilancio pubblico è costantemente monitorato e condizionato dalla UE e il debito italiano è nelle mani della BCE. Nel contesto dell’eurozona rebus sic stantibus i governi italiani – di qualsiasi colore essi siano – non hanno sostanzialmente più alcuna possibilità di manovra. La sovranità italiana è ancora più limitata sul fronte della politica estera, soprattutto dopo l’invasione russa dell’Ucraina, a causa della nostra appartenenza alla NATO. In una situazione di guerra è infatti la Nato a dettare le linee guida di politica estera a un paese debole come l’Italia. Il governo Meloni ha capito al volo che per mantenere il potere occorre inchinarsi alle potenze dominanti e, come i camaleonti, è diventato europeista e anti-russo. Poi nel futuro si vedrà.

Per questi motivi la Meloni vuole la contro-riforma del premierato: solo un esecutivo forte e autoritario, solo uno Stato repressivo possono gestire questa Italia in declino, imprigionandola nella Europa dell’euro e nella politica estera americana.

(a seguire)


[1] Paul De Grauwe   “Economia dell’Unione Monetaria” dodicesima edizione   Il Mulino  2022

[2] Il Fatto Quotidiano, Stefano Feltri  “Derivato con Morgan Stanley, una bomba da 2,6 miliardi nei conti pubblici del 1994” 20 marzo 2012

[3] HuffPost, “Bini Smaghi: Berlusconi fatto dimettere perché voleva uscire dall’euro”  13 Settembre 2013

[4] Il Fatto Quotidiano, “Privatizzazioni inevitabili, ma da regolare con leggi ad hoc”: il discorso del 1992 (ma attualissimo) di Mario Draghi sul Britannia” 22 GENNAIO 2020

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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