Martedì 16 aprile, alcuni dipendenti di Google hanno imbastito una protesta interna ai locali dell’azienda al fine di chiedere al proprio datore di lavoro di rinunciare ad alcune importanti commesse siglate con Israele. La manifestazione è durata circa 10 ore e ha toccato gli uffici di New York, Seattle e Sunnyvale, quindi l’azienda ha chiamato la polizia e sono scattati gli arresti.

I dettagli della faccenda rimangono ancora adesso parzialmente ambigui, poiché la ricostruzione degli eventi si appoggia a due fonti le cui posizioni sono agli antipodi: da una parte c’è il movimento No Tech for Apartheid, il quale ha supervisionato e documentato l’atto di protesta, dall’altra c’è l’azienda stessa, che ha invece l’interesse a ridimensionare l’intero evento. Secondo Jane Chung, portavoce della protesta, gli arresti sarebbero stati comunque almeno nove. Non è comunque chiaro se tutti i detenuti lavorassero effettivamente per il colosso della tecnologia.

Durante la manifestazione, una manciata di dipendenti Google è stata infatti affiancata da un numero sostanzioso di attivisti esterni. All’unisono, le due correnti hanno chiesto la rescissione da parte della Big Tech dei contratti militari, una battaglia che No Tech for Apartheid ricollega direttamente al progetto Nimbus, un patto da 1,2 miliardi di dollari per cui l’impresa tecnologica si è impegnata a fornire a Israele sistemi di cloud e di intelligenza artificiale. 

L’episodio non è che l’esempio più recente delle molteplici azioni di protesta avvenute internamente a Google. Solamente a inizio marzo, l’azienda ha infatti licenziato l’ingegnere informatico Eddie Hatfield, il quale aveva avuto l’ardire di interrompere una presentazione dell’amministratore delegato agli affari israeliani per annunciare il rifiuto “di costruire tecnologia che sostiene il genocidio”. Parallelamente, la Big Tech ha eliminato il contenuto di una message board interna all’azienda in cui i dipendenti avevano iniziato a esplicitare le proprie opinioni in relazione ai controversi contratti militari siglati con Israele. Google aveva considerato i post rimossi come “divisivi”, capaci di essere “distruttivi per il nostro luogo di lavoro”.

Per quanto riguarda il recente arresto, l’azienda ritiene a pieno titolo di aver ragione. “Impedire fisicamente il lavoro degli altri dipendenti e bloccare il loro accesso alle strutture è una chiara violazione delle nostre politiche e pertanto avvieremo un’investigazione e prenderemo le dovute azioni”, ha riferito un portavoce di Google. “Questi dipendenti erano stati messi in congedo amministrativo e gli era stata revocato l’accesso ai nostri sistemi. Dopo aver rifiutato molteplici volte di andarsene, gli agenti di polizia sono stati contattati per rimuoverli al fine di garantire la sicurezza dell’ufficio.

[di Walter Ferri]

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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