Dello Stato ci si ricorda solo per denigrarlo appena qualcosa non va; e i più feroci sono sempre coloro che quotidianamente operano per distruggerlo con privatizzazioni e deregolamentazione.

Lo Stato trasformato in reietto della storia

Di Francesco Erspamer*

Provate a cercare sul sito della Feltrinelli/IBS qualcosa da leggere sullo statalismo. Inserite proprio questa parola: statalismo. Solo 77 risultati, a dimostrare che non è di moda.

Se aveste cercato, mettiamo, globalismo, i titoli sarebbero stati quasi 400 e se si fosse trattato di «edonismo» ci si sarebbe avvicinati ai 1300 (mi sembra di essere Leporello).

Ma in effetti non sono neppure 77: metà dei volumi indicati sono «vintage», ossia fuori commercio da decenni, e della quarantina restante i due terzi non riguardano affatto lo statalismo bensì il satanismo, che il motore di ricerca (evviva l’intelligenza artificiale, identica per la Feltrinelli e per la Mondadori ossia Fininvest e per Amazon) ha immediatamente riconosciuto come il termine che gli utenti (incapaci di scrivere correttamente, si sa) con ogni probabilità intendevano. (Curioso o significativo che non proponga invece titoli sullo Stalinismo, benché foneticamente più prossimo).

Guardiamo comunque la manciata di libri che riguardano il tema che ci interessa. Tutti, senza eccezione, usano statalismo come un insulto o nel migliore dei casi come una patologia: «La Grande Vienna contro lo statalismo» (Rubettino), «Storia e guasti di statalismo, nazionalismo, dirigismo, protezionismo…» (Rizzoli), «Contro lo statalismo» (Liberlibri), «Contro lo statalismo» (Lacaita), «Per liberare lo Stato dallo statalismo» (Edizioni Studio Domenicano).

In sostanza per la Feltrinelli, ed evidentemente per studiosi, editori e lettori italiani, lo statalismo è sicuramente e inappellabilmente un male. Niente di cui stupirsi visto che per la nuova destra e per la nuova sinistra, oltre che per le legioni di consumisti compulsivi di prodotti e di «esperienze», l’unico valore assoluto, eterno, universale e umano, è la libertà individuale e individualistica.

Dello Stato invece ci si ricorda solo per denigrarlo appena qualcosa non va; e i più feroci sono sempre coloro che quotidianamente operano per distruggerlo con le privatizzazioni, la deregolamentazione e la cancellazione dei confini e delle tradizioni.

I liberisti e i liberal, intendo, incapaci di rinunciare ad alcuni privilegi privati o idiosincrasie personali in nome del bene comune e del senso di appartenenza a qualcosa che li trascenda, in particolare nel tempo; e interessati soltanto a «esprimere» la propria singolarità.

In democrazia si impone chi persuade la maggioranza dei votanti e non mi pare dubbio che tale maggioranza non si stia opponendo all’attuale processo di frammentazione sociale e di americanizzazione; per cui la otterranno e ne pagheranno le conseguenze e solo a quel punto si abbandoneranno al loro tipico piagnisteo di eterni innocenti (parole gramsciane).

Ma gli altri? Coloro che non sono d’accordo e ideologicamente o anche solo sentimentalmente non si riconoscono nelle magnifiche sorti e progressive instancabilmente promosse dai media, perché subiscono passivamente?

Perché sono così timorosi di parlare, di obiettare, di concettualizzare la loro resistenza? Soprattutto di usare le parole che consentirebbero un discorso alternativo alla correttezza politica dominante, parole quali «virtù», «morale», «collettività», «onore», «disciplina», «tradizione», «solidarietà», «nazione» e, appunto, «Stato»?

In America ormai è quasi impossibile dissentire: chi non sia adegui al linguaggio e ai pregiudizi dell’individualismo edonista diventa un paria e rischia di perdere il lavoro e la faccia, senza processo. Basta l’accusa di essere fascista (ossia razzista) o comunista (ossia illiberale) o tutt’e due.

Loro, gli integralisti del diritto di fare ed essere quello che gli pare per affermare la loro preziosa unicità, certamente comunisti non sono e neppure fascisti. Per esserlo gli manca, completamente, uno spessore storico, un pizzico di anacronismo.

Appiattiti sull’immediata attualità, preoccupati esclusivamente di sé stessi e dei bisogni indotti dalla pubblicità, hanno rinunciato alla possibilità di accettare la propria limitatezza e di superarla riconoscendosi parte di una comunità, di una cultura, di uno Stato. Ma gli altri?

*Ripreso da Francesco Erspamer, professore di studi italiani e romanzi a Harvard; in precedenza ha insegnato alla II Università di Roma e alla New York University, e come visiting professor alla Arizona State University, alla University of Toronto, a UCLA, a Johns Hopkins e a McGill

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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