di Caracol La Garrucha

Di fronte all’attuale crisi sociale e civile, è impossibile puntare su alternative sistemiche finché continueremo a ragionare dal punto di vista della modernità capitalista, coloniale e patriarcale. La scelta più ragionevole sarebbe imparare da chi da più di cinque secoli prova ad opporcisi: i popoli indigeni, in particolare quelli che fanno parte del movimento zapatista

Anche se l’Era Moderna è iniziata nei centri liberi e creativi del Medio Evo europeo, è solo a partire dal 1492 che questa definizione prende forma. A partire da quel momento, l’Europa deve confrontarsi a con “l’altro” e, da allora, ha imposto violentemente il proprio progetto civilizzatore su tutte le diversità che si è trovata ad incontrare. In questo modo, l’Occidente si è imposto come attore principale delle relazioni di forza attraverso un processo di razzializzazione, eliminando di fatto tutto ciò che fosse “non europeo”. L’ultima versione di questo esperimento moderno, la globalizzazione neoliberista, ha portato il pianeta sull’orlo del collasso. Stiamo assistendo ad una vera e propria crisi di civiltà, di cui le guerre, i rifugiati e le rifugiate e la crisi climatica rappresentano gli aspetti più drammatici.

Di fronte a questo fatto, si impone la necessità di un progetto alternativo. Eppure, più di cinque secoli di imposizione occidentale sui progetti del resto del mondo hanno generato un sistema di pensiero unico, duro da scalfire e difficile da abbattere. Non mi riferisco soltanto ai gruppi neonazisti marginali, e nemmeno soltanto al sistema di valori dei partiti politici di estrema destra in Europa come Vox in Spagna o alle idee politiche portate avanti dai governi di Trump o di Bolsonaro. Mi riferisco in generale al pensiero moderno che rafforza le diverse gerarchie di potere esistenti: razziali, di genere, epistemiche, linguistiche, ecc.

In molte parti del mondo assistiamo, anche, a fenomeni di razzializzazione di coloro che si trovano al di fuori del modello “occidentale bianco”, ovvero i neri, gli indigeni, gli asiatici, difendendo così di fatto gli ideali e i valori dell’estrema destra portati avanti anche attraverso incarichi di potere in partiti politici e movimenti sociali neofascisti. Come diceva Frantz Fanon [psichiatra, antropologo e filosofo francese, portavoce del Fronte di Liberazione Nazionale Algerino – ndt], “al fine di giustificare la conquista di un gran numero di popolazioni e territori, gli aggressori europei fecero tutto il possibile affinché i popoli conquistati credessero alla propria inferiorità razziale, di modo che l’oppressione si interiorizzasse e si perpetuasse autonomamente”. Da questo punto di vista il sistema scolastico, una richiesta di tipo “progressista”, è stato la chiave per la riproduzione della colonialità del potere, utilizzando “l’istruzione” con un approccio puramente eurocentrico e con l’obiettivo di perpetuare la colonialità del sapere

Anche per i partiti e i movimenti sociali di sinistra è molto difficile uscire dalla camicia di forza del pensiero moderno. Il razzismo, ad esempio, rende più complicati i progetti di emancipazione, tanto quanto fanno il machismo e il classismo. Per questo, il pensiero decoloniale ribadisce l’importanza della trasversalità delle lotte. Non è pensabile di poter uscire dalla civiltà moderna se ci concentriamo unicamente su una determinata relazione di oppressione. Di fronte all’attuale crisi civile, è impossibile puntare su alternative sistemiche finché continueremo a ragionare dal punto di vista della modernità capitalista, coloniale e patriarcale.

Quindi, da dove cominciare se quegli stessi soggetti che vorrebbero cambiare il mondo sono fortemente colonizzati e colonizzate? Come possiamo curare le terre e i popoli così gravemente feriti? Come uscire dalla trappola dello sviluppo ecocida? Come evitare di riprodurre sistemi di oppressione? Come possiamo decolonizzarci?

Il pensiero decoloniale ribadisce l’importanza della trasversalità delle lotte. Non è pensabile di poter uscire dalla civiltà moderna se ci concentriamo unicamente su una determinata relazione di oppressione.

ZAPATISMO E PENSIERO DECOLONIALE

Questa è la direzione in cui, partendo da contesti e punti di vista differenti, hanno lavorato i vari ideologhi e ideologhe decoloniali. Troviamo quindi le proposte del femminismo decoloniale di Oyèrónke Oyewùmí [ricercatrice e docente nigeriana di studi di genere e globalizzazione presso la Stony Brook University di New York – ndt] e di Yuderkys Espinoza [docente dominicana di studi di genere e fondatrice del GLEFAS, Gruppo Latinoamericano di Studi, Formazione e Azione Femminista – ndt], il femminismo indigeno di María Lugones [docente argentina di letteratura comparata e studi di genere presso la Binghampton University di New York – ndt], la lotta delle donne migranti portata avanti da Úrsula Santa Cruz [psicologa peruviana operante a Barcellona – ndt], la critica al razzismo e la trasversalità delle lotte di Ramón Grosfoguel [sociologo portoricano, docente di politica economica presso l’Università di Berkeley – ndt], la decolonizzazione del sapere di Boaventura de Sousa [sociologo portoghese, direttore del Centro di Studi Sociali dell’Università di Coimbra – ndt], così come il progetto sulla transmodernità di Enrique Dussel [filosofo argentino, docente di filosofia presso l’Università Autonoma Metropolitana di Città del Messico e cofondatore del movimento Filosofia della Liberazione – ndt], giusto per nominarne alcune. Dal mio punto di vista, ognuna di queste proposte si pongono come obiettivo ultimo la decolonizzazione della vita. Tuttavia, sarebbe saggio smetterla di proporre soluzioni a partire dal nostro punto di vista e cominciare ad ascoltare chi ha più esperienza nel campo della resistenza e della costruzione di un mondo nuovo, “un mondo che contiene molti mondi”. Sì, mi riferisco alle popolazioni indigene del mondo, ma in particolare alle e agli zapatisti.

Lo scorso 1° gennaio si sono celebrati i 35 dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN). 10 anni di clandestinità e 25 anni di vita pubblica del movimento sociale e politico più avanzato del pianeta, secondo ideologhi come Naomi Klein, Noam Chomsky o Immanuel Wallerstein. Quel giorno, le indigene e gli indigeni messicani impugnarono le armi contro il governo e contro il neoliberismo, si celarono il volto per poter essere visti e scossero il mondo con la loro proposta: “Para todos todo, para nosotros nada!” [“Tutto per tutti, nulla per noi” – ndt]. Il suo arrivo ha rappresentato una nuova alba per la sinistra mondiale, in rotta totale dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda.

Da allora, lo zapatismo ha fatto parte di un processo di lotta molto più ampio che punta alla costruzione di un modello alternativo di fronte all’attuale crisi sociale; un progetto culturalmente critico verso la modernità occidentale capitalista, coloniale e patriarcale. L’EZLN fa parte, insieme ad esempio al Congresso Nazionale Indigeno, dei movimenti sociali e politici che Guillermo Bonfil Batalla [etnologo e antropologo messicano, fondatore della Scuola Nazionale di Antropologia e Storia di Città del Messico – ndt ] ha definito “Messico profondo”. Lo zapatismo rappresenta, anche per il mondo intero, la lotta per la vita e per la diversità, andando controcorrente rispetto alla globalizzazione egemonizzante.

Nonostante il movimento zapatista abbia sempre rimarcato il fatto di non essere un’avanguardia (sostengono che ognuno di noi, nel suo angolo di mondo, debba costruire un “altro mondo possibile”), quel che è certo è che i suoi messaggi sono sempre carichi di pedagogia emancipatrice per chi è disposto ad ascoltare. Ad esempio, il suo portavoce, il subcomandante Marcos, raccontava che “il vecchio Antonio (diceva) che la libertà ha a che fare anche con l’udito, la parola e lo sguardo. Che la libertà era non avere paura dello sguardo e della parola dell’altro, del diverso. Però anche che non avessimo paura ad essere guardati ed ascoltati dagli altri (…) che la libertà non risiedeva in un luogo, ma bisognasse piuttosto crearla, costruirla collettivamente. E che, soprattutto, non la si potesse costruire sulla paura dell’altro il quale, per quanto diverso, era come noi”.

L’arrivo dell’EZLN ha rappresentato una nuova alba per la sinistra mondiale, in rotta totale dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda.

Questo testo del Sup può servirci come punto di riferimento. La questione, soprattutto, è di assumerci l’impegno collettivo all’interno delle nostre comunità. Significa doversi sbarazzare del razzismo, del machismo, del classismo e di tante altre forme di oppressione. Significa anche non generare nuove oppressioni lungo il percorso, così come evitare di porre le nostre oppressioni personali davanti alle altre. Ovvero, non possiamo fare a meno degli uomini nella lotta femminista, dei bianchi antirazzisti e della classe media. Non possiamo nemmeno porci al di sopra degli anziani e dei bambini. Bisogna decolonizzarci tutte e tutti e fare pressioni affinché quelli e quelle “di sopra”, “i bianchi” e “gli uomini” comincino a rinunciare ai propri privilegi.

Con questo non voglio fare una lettura ingenua delle trasformazioni sociali. Sono perfettamente cosciente che il lupo non dormirà mai con la pecora e che esistono persone tanto colonizzate da essere irrecuperabili. Di fatto, è comunque possibile che queste relazioni di potere permangano comunque, e che l’umanità sparisca prima di poter curare la Terra. Quello che difendo è il lavorare per allargare un movimento di movimenti, dal basso, che si decostruisca e che allo stesso tempo costruisca le condizioni necessarie affinché la maggioranza delle persone del mondo possa vivere dignitosamente.

Questo può essere un punto di partenza. Tuttavia, il sistema coloniale ha svolto il proprio lavoro molto bene e sarà difficile che “i moderni”, che la sinistra “progressista” e i suoi intellettuali siano disposti a decolonizzare il proprio sapere. Utilizzando le parole della nostra compagna Lola Cubells, “accecate dal colonialismo, continuiamo a sognare di inventare altri mondi, mentre le culture autoctone e le loro filosofie (sp’ijil jol o’tanil – saggezza del cuore [in lingua tzeltal – ndt]) hanno costruito altri modi di intendere la vita che saranno necessari durante la crisi di civiltà verso la quale ci stiamo dirigendo”

Viva l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale! Viva i popoli indigeni del mondo!

L’articolo è apparso sul sito de El Salto

Traduzione a cura di Michele Fazioli per DINAMOpress

https://www.dinamopress.it/news/decolonizzare-la-vita-25-anni-imparando-dallezln/

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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