Natalie Knight

Anche se può non trasparire nella percezione europea, il Canada è un paese dove la questione coloniale e postcoloniale è ancora al centro del dibattito e delle lotte sociali. In particolare nella costa Ovest si scontrano estrattivismo neoliberista, soprattutto con progetti di lavorazione di sabbie bituminose e oleodotti, e lotte per la difesa e la riappropriazione della terra da parte delle comunità native. In questo articolo pubblicato su ROAR, l’autrice racconta l’effetto di empowerment che queste lotte stanno determinando nella vita degli indigeni già urbanizzati.

«Porto a tutti dell’acqua», dissi al gruppetto di sei che tenevano il nostro striscione “Tutte le Nazioni Unite con i Wet’suwet’en” teso a bloccare la corsia dei TIR che fuoriesce dal porto di Vancouver. Rimanemmo in piedi, cambiandoci di posto, per cinque ore. A trenta metri di distanza, 200 persone avevano formato una piazza attorno all’incrocio di Hasting Street e Clark Drive, bloccando bus, furgoni e autisti diretti ai grattacieli trasparenti del centro cittadino. Nel mezzo dell’incrocio, anziani indigeni cantavano e suonavano percussioni. Ruotando i propri piedi rendevano onore alle quattro direzioni: nord, sud, est e ovest.

Ritornai all’incrocio e rimasi in piedi assieme all’uomo della marcia del giorno prima. Si era fatto spazio tra la folla, offrendo alla gente bastoni di incenso, una pratica di pulizia cerimoniale comune.  Alzò le sue mani, «devo andarmene presto, non ti ho ancora cosparso di incenso, voglio darti questo». Le sue mani tenevano la conchiglia di mollusco, l’incenso scottante e piume. Poi guardò fisso negli occhi e ha detto «Ti rivedo. Ci rivediamo».

Le lacrime offuscarono la mia visione. Portai la ciotola con l’incenso al tavolo sotto la tenda e ripulii le buste di patatine e contenitori di plastica per muffins. Mi cosparsi di incenso: L’odore vagò per l’aria, e nel mentre Dennis, l’uomo da Moricetown, membro della nazione Wet’suweten se ne andava verso est. Mantenni in mano le piume finché, esausta e trionfante, uscimmo dall’incrocio all’imbrunire del tardo pomeriggio.

Quel giorno, 9 gennaio 2019, attivisti indigeni della città organizzarono un blocco di sei ore del porto di Vancouver. Stavamo rispondendo all’attacco del RCMP, la forza paramilitare canadese, contro il popolo degli Wet’suwet’en che hanno rioccupato la propria terra dal 2010. Il RCMP era stato autorizzato dalla Suprema Corte della British Columbia a sgomberare con la forza il terreno per la costruzione dell’oleodotto per gas prodotto da fracking della Coastal Gaslink. Abbiamo puntato al porto perché è uno dei luoghi economicamente più importanti di Vancouver, con merci che valgono centinaia di migliaia di dollari in transito ogni ora. Abbiamo puntato al porto per mostrare allo stato coloniale che le popolazioni indigene non rimarranno a sedere tranquille, mentre i nostri cugini e compagni sono sotto attacco.

Dal 10 dicembre 2018 abbiamo organizzato cinque azioni in solidarietà a Vancouver. Abbiamo occupato gli uffici della Coastal Gaslink, abbiamo organizzato tre sit-in in contemporanea agli uffici del New Democrat Party (il partito “progressista” della British Columbia, sotto la cui direzione sta agendo il RCMP), abbiamo guidato una marcia in centro che ha bloccato due ponti, abbiamo mobilitato 1500 persone per le strade di Vancouver ad ascoltare discorsi di lotta, e più recentemente, abbiamo bloccato la linea ferroviaria che porta fuori e dentro il porto. Queste azioni sono stati forti, legittimi atti di solidarietà con la nazione Wet’suwet’en nella British Columbia del nord. Come attivisti nativi che vivono in città, siamo a fianco dei nostri cugini e compagni del Wet’suwet’en.

Questo momento è potente dal punto di vista organizzativo, ma all’interno delle nostre stesse comunità parliamo tranquillamente dell’assenza di una organizzazione strutturata dei nativi, con l’eccezione dei momenti clou delle azioni di solidarietà che spesso conduciamo in città a sostegno di difensori della terra che vivono invece in zone remote. Nel Canada coloniale questi momenti accadano ogni tanto, ma la nostra organizzazione si limita alle reazioni alle violazioni alla sovranità indigena sulla terra. Molti di noi si domandano: dove è allora il nostro movimento?

RADICI DEL POTERE ROSSO

C’è una incredibile storia di nativi urbanizzati che si organizzano in Canada e negli Stati Uniti. Uno dei più famosi è stato il movimento indigeno Red Power, che è stato attivo e visibile tra gli anni 60 e gli 80. Molti gruppi si sono organizzati durante il periodo del Red Power, ma forse l’organizzazione più popolare e conosciuta è l’American Indian Movement.

Il Red Power è esploso quando i diritti di pesca indigeni, assicurati da trattati, erano sotto minaccia. In risposta, attivisti indigeni dello stato di Washington hanno inscenato una pesca collettiva rischiando l’arresto solo per pescare nelle loro stesse acque. Nel 1969 la rioccupazione per 19 mesi dell’isola di Alcatraz nella baia di San Francisco ha ottenuto massima attenzione mediatica e ha spinto questioni riguardanti la sovranità dei nativi e i loro diritti nel discorso pubblico. Il Red Power è stato un movimento pan-indiano che si è focalizzato sull’unità tra le diverse nazioni indigene, in opposizione agli stati coloniali di USA e Canada.

Ci sono molti modi in cui le storie del Red Power sono raccontate. Molti che hanno vissuto l’epoca parlano della internalizzazione dei ruoli di genere colonizzati, e di come questo abbia colpito la leadership di donne e di persone dai due spiriti (così si intendeva il terzo genere nella tradizione nativa, ndr). La maggior parte dei racconti concorda sul fatto che la politica dentro il Red Power si è spostata da un senso di unità Pan-indiano al rivitalizzare pratiche culturali e spirituali specifiche di singole nazioni. Nel concreto questo significava spesso lasciare la città come luogo di organizzazione e tornare indietro in riserve o comunità rurali indigene.

Ci sono un sacco di spiegazioni per questo cambio, ma secondo me, questo è stato il risultato complesso di mutamenti interni in termini di consapevolezza all’interno del Red Power movement e di forze esterne: il COINTELPRO dell’FBI (Programma di Controspionaggio) che ha colpito il movimento indiano americano; i discorsi di multiculturalismo, introdotto in Canada con la legge del 1988 del Multiculturalismo; le risposte degli stati coloniali alla più grande epoca dei diritti civili che ha significato soldi in educazione e che ha minacciato i movimenti sociali offrendo strade facili per entrare nella classe media e, negli USA, politiche di evoluzione dei diritti civili.

Allontanandosi dall’identità pan-indiana, i popoli indigeni in Canada e negli Usa sono tornati nelle loro comunità o tradizionali territori o riserve. I popoli indigeni hanno iniziato, in tutta onestà, a reimparare e rivitalizzare le proprie lingue, culture e pratiche spirituali e le proprie strutture di governo tradizionali o ereditarie che i governi coloniali avevano attaccato e criminalizzato. Le rioccupazioni indigene dei territori tradizionali, come a Wet’suwet’en nella British Columbia del nord, sono i frutti a cascata della fine del movimento Red Power.

In ogni caso, alcuni attivisti nativi in città sentono la perdita della politica pan-indiana: indigeni urbanizzati senza un territorio a cui tornare non possono riconnettersi con l’attivismo nelle terre. La questione in ballo è ciò che sovranità significhi per popoli indigeni in Canada e negli USA e se possiamo espandere la nostra nozione di sovranità in modo che costruisca connessioni e alleanze tra diverse esperienze ed espressioni di indigenismo al principio del ventunesimo secolo. La questione è anche come gli indigeni urbanizzati possano affermare la propria sovranità come popoli profondamente privati dei territori tradizionali, da un lato, e che hanno trovato nella città il proprio luogo di relazione territoriale, dall’altro.

CHI SONO I NATIVI URBANIZZATI

In Canada più di metà della popolazione Indigena vive in centri urbani e più del 70% dei nativi americani vivono in città negli USA. Molti attivisti del Red Power negli USA si erano spostati da riserve a grandi città attraverso la legge di Ricollocamento del 1956. Oggi ci troviamo in città per molte ragioni: sopravvivere alle adozioni o alla violenza di genere, adozione, ricerca lavoro, conseguenze di scuole residenziali e traumi intergenerazionali, relazioni di parentela fratturate. Ci sono quasi infinite ragioni. Nelle città formiamo forti comunità di nativi. Costruiamo connessioni durature e di amore con altri popoli da molte nazioni del cosiddetto Canada. Rendiamo la città casa nostra.

Le realtà di vita dei nativi urbanizzati spesso si scontra con le aspettative che i coloni hanno nei confronti degli indigeni; mentre molti di noi possono essere radicati nelle nostre culture, altri non lo sono. Mentre molti di noi visitano spesso le riserve, alcuni non sanno neppure quali siano le nostre riserve. I buchi nella nostra memoria storica non sono colpe individuali, sono effetti del colonialismo che ha cercato per centinaia di anni di distruggere il nostro sistema familiare, le nostre economie non capitalistiche e le nostre conoscenze culturali.

I movimenti indigeni oggi enfatizzano il ritorno alla terra, cosa che ha portato molti indigeni a rioccupare i territori, partecipare a cerimonie e reimparare lingue e culture pratiche. Rioccupare la terra è forse la più estrema espressione della sovranità indigena perché il Canada e gli USA sono attivamente impegnati in una guerra infinita per la terra. Rifiutare di essere confinati in riserve e rifiutare di essere spossessati dei propri territori è un fatto che afferma la nostra sovranità in modi che sfidano le leggi dei coloni e i titoli di terra coloniali. Queste traiettorie sono di enorme ispirazione e hanno un gran potenziale per tutta la nazione indigena.

Ma questa epoca di sovranità indigena espressa soprattutto con rioccupazione di terre rende difficile per noi, indigeni urbanizzati. la partecipazione. Molti di noi vivono in povertà e affrontano questioni di sopravvivenza nelle proprie vite quotidiane. Molti di noi sono fuggiti dalle proprie comunità a causa della violenza; altri hanno tagliato le relazioni con le proprie comunità a causa di svariati effetti del colonialismo. Molti di noi non possono andare a casa.

NATIVI URBANIZZATI IN SOLIDARIETA’ CON WET’SUWET’EN

Tra queste due tendenze ho lottato per costruire uno spazio per nativi per creare connessioni con i nostri cugini e compagni del Wet’suwet’en e altrove. A Vancouver ho organizzato una coalizione di scopo che include coloni e indigeni. Veniamo da diverse organizzazioni e diversi percorsi politici. Il nostro più grande punto di unità condiviso è il principio politico della sovranità indigena e il credere, per quanto differenti possano essere le nostre posizioni sociali e posizioni storiche, nella nostra responsabilità di rispondere nelle strade a questo momento di attacco coloniale nei confronti della sovranità indigena.

Il nostro lavoro risponde a due sfide: una è creare uno spazio nei movimenti indigeni che assicuri che la difesa della terra compresa la difesa della città; il secondo è cercare un luogo per le lotte indigene all’interno dei movimenti urbani di lotta di classe, che tendono a eludere le vere forze reali del colonialismo che strutturano anche la città.

In aggiunta al mio coinvolgimento con la campagna in solidarietà ai Wet’suwet’en, sono stato membra per sette anni nella organizzazione Alliance Against Displacement, che è anticoloniale e anticapitalista. Il nostro lavoro di comunità si focalizzava su lotte sul reddito, lotte per chi è accampato, e lotte per la casa. Pià recentemente abbiamo iniziato una campagna guidata da donne trans, “Pane, Rose e Ormoni”, e una campagna contro la polizia nella periferia di Surrey, chiamata Anti-police Surrey.

Dai primi anni di coinvolgimento con l’Alliance Against Displacement, gli indigeni urbanizzati all’interno del gruppo avrebbero voluto iniziare una campagna indigena urbana. Abbiamo desiderato che accadesse, sofferto, speso molte ore dedicate a teorizzare cosa avrebbe dovuto essere una campagna degli indigeni urbanizzati nella seconda decade del ventunesimo secolo. Abbiamo incontrato indigeni senza casa che vivevano in tende. Abbiamo tenuto circoli di discussione con chi si identifica come indigeno a Vancouver. È stato difficile trovare la scintilla che potesse sostenere un movimento, che è, alla fine, quello che abbiamo sperato di costruire con una campagna.

Negli scorsi due mesi di organizzazione di azioni di solidarietà e supporto ai Wet’suwet’en a Vancouver ho percepito un cambiamento. Noi urbanizzati e nativi siamo nelle città a bloccare i porti, linee ferroviarie, parlando liberamente dei nostri diritti alla nostra terra, la nostra sovranità, la nostra nazione. Stiamo suonando tamburi e cantando senza chiedere permesso, guidando marce di migliaia di persone, alcuni di noi vestiti con abiti tradizionali a fianco di altri in jeans e maglietta. Ci stiamo incontrando spontaneamente nelle strade, costruendo connessioni e condividendo politica. Ci stiamo collegando con gli anziani politici, come Ray Bobb, che è stato coinvolto nel Native Alliance for Red Power nei ‘60 e ‘70 a Vancouver. Stiamo incontrando giovani come il giovane Stó:lô woman Sii-am, che parla mentre soffia il vento e la pioggia scende a dirotto dopo aver bloccato una strada principale in centro a Vancouver una sera.

Anche se la violenza contro i Wet’suwet’en e la loro terra è ancora un triste esempio di colonialismo in Canada, ho visto anche del grande potenziale in questo momento. I nativi urbanizzati sono catalizzati dall’affermazione della sovranità Wet’suwet’en. Stiamo ridefinendo le nostre voci, ascoltando nuove voci, sviluppando una politica più esplicita di affermazione nel territorio che ci porta nelle strade.

IL FUTURO DELL’ORGANIZZAZIONE INDIGENA URBANIZZATA

Lo scontro dei Wet’suwet’en con il potere coloniale ha mobilitato molti di noi indigeni, Wet’suwet’en e altri, rurali e urbani. I nativi urbanizzati si stanno sollevando ora, guidano azioni di solidarietà in città per tutto il Canada, affermando sempre più il nostro diritto ad avere un posto nelle lotte indigene.

Stiamo colpendo i luoghi del commercio e dell’economia come porti e autostrade, perché sappiamo che colonialismo e capitalismo sono forze intrecciate che devono lottare contemporaneamente. Stiamo riprendendoci le strade con altri organizzatori anticapitalisti che sono profondamente impegnati in lotte anticoloniali e riconosciamo la necessità di movimenti duali contro capitalismo e colonialismo nel “cosiddetto” Canada.

Stiamo sfidando “l’alleato” politico che ha rovinato il lavoro di solidarietà alla lotta indigena per la terra per 15 anni, cioè la politica che si concentra su attivisti bianchi e sulle loro relazioni con difensori della terra indigena, mentre al tempo stesso vede i nativi urbanizzati come “meno indiani” dei nostri cugini e compagni rurali. Stiamo costruendo a partire dai punti di forza dell’epoca dell’organizzazione del Red Power negli anni ‘70 e ‘80, superando le sue debolezze.

Stiamo ereditando quella presa di coscienza attraverso lo Idle no more, un movimento indigeno che si è sviluppato dal Canada agli Usa nel 2013 e che ci sta portando avanti creando connessioni sul campo tra cultura, terra e sovranità. Stiamo creando una nuova politica che onora le particolarità delle relazioni di singole nazioni con la propria terra, cultura, conoscenza mentre abbraccia i nativi urbanizzati come persone e attori politici.

Stiamo sintetizzando la varietà degli sforzi indigeni in un movimento che ha i numeri e le alleanze e la visione politica necessaria per lottare contro il colonialismo canadese.

Stiamo agendo in solidarietà con la frontiera Wet’suwet’en e stiamo anche dicendo: le frontiere coloniali sono ovunque.

Articolo pubblicato dal sito Roarmag

Traduzione italiana a cura di DINAMOpress 

https://www.dinamopress.it/news/le-frontiere-coloniali-ovunque-sulle-lotte-degli-indigeni-canada/

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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