Le informazioni contenute in questo articolo sono tratte dal saggio Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, “amanti del nemico”. 1940-1945 della storica Michela Ponzani, dottore di ricerca in Storia contemporanea e ricercatrice dell’Istituto storico germanico a Roma. 

Tratto dal blog Il Ragno

Nell’introduzione e nel capitolo 6, “Nelle caserme della RSI”, la storica parla dell’uso della violenza contro le donne in modo sistematico e programmato come arma di guerra. La cultura dello stupro è stata parte della cultura bellica per molto tempo, al punto che il riconoscimento degli stupri di massa come crimini di guerra, con riparazioni alle vittime, è giunto solo di recente, durante il processo per genocidio contro la Serbia e il Montenegro, conclusosi nel 2007 presso la Corte internazionale di giustizia dell’Aja.

Scrive Ponzani: ‘A sconcertare […] era l’idea che lo stupro fosse impiegato come uno strumento terroristico e pianificato per annientare il nemico. Non si trattava del semplice effetto di una violenza individuale. […]. L’arma della guerra alle donne era infatti il risultato di precisi ordini militari impartiti dall’alto, da comandi superiori.’
Questo perché le donne erano ‘vittime di una cultura bellica che, dietro l’aggressione sessuale al corpo femminile, fa emergere il tacito bisogno di garantire l’umiliazione e la resa del nemico da parte del vincitore’.

Parlando dei racconti delle partigiane relativi alle torture e alle violenze sessuali subite durante la detenzione ad opera dei repubblichini e delle milizie fasciste, Ponzani scrive: “a emergere con più forza da queste testimonianze è la cultura militare-maschile dei «carnefici», il substrato mentale, il loro retroterra educativo che spinge a punire le donne che hanno osato ribellarsi al regime e che hanno voluto lottare per emancipare se stese da quel ruolo sociale inferiorizzante e sottomesso di brave mogli ubbidienti e madri sacrificali. L’aggressività mostrata dai fascisti contro le donne documenta fino a che punto la violenza sul corpo femminile possa ispirarsi a una concezione superomistico-vitalistica della vita, e parallelamente a una carica di brutalizzazione dei rapporti politici, che spinge a vedere nell’avversario un nemico da abbattere”.
E ancora: “Nella mentalità dei fascisti l’abuso sessuale è infatti una pratica ritenuta da tempo assai efficace per indurre le «nemiche politiche» a confessare chi si nasconde dietro alle reti cospirative; un’arma di guerra del tutto legittimata dalla controguerriglia che si conduce contro chi si occulta «alla macchia»”, prosegue Ponzani, ricordando che si tratta di una pratica collaudata, ad esempio, “durante la guerra di Spagna del ’36 dai miliziani italiani aggregati alle falangi franchiste come una forma di violenza «ideologica» contro le militanti delle brigate internazionali. Nella sua accezione simbolico-rituale, la violenza sul corpo della donna è infatti un vero e proprio mezzo di dominazione «machista» che mira a imporsi sul nemico politico proprio sul piano della virilità: un’arma degli uomini contro altri uomini, che s’impone su donne disarmate“.

“Lo stupro viene perpetrato nella logica di un rituale simile a quelli dei corpi degli uccisi lasciati per molto tempo nelle pubbliche piazze con il divieto assoluto di dare loro una sepoltura, a dimostrazione che il potere fascista può esibire la sua forza non solo nella mortificazione e nel disprezzo che fa subire ai morti, ma soprattutto nella punizione e nel terrore che infligge ai vivi“, spiega Ponzani. È quello che accade al partigiano Teodoro Costarella, catturato dalle SS nell’aprile del ’44, le cui «gambe e braccia del cadavere presentano incisioni di baionetta e lacerazioni multiple, così che gli arti sono stati staccati dal busto», o ad un partigiano della banda Marcellin, «ucciso mediante il fuoco accesogli sotto il capo. Il supplizio è stato prolungato ad arte, distogliendo il capo del patriota dal fumo che poteva produrre una rapida morte per soffocamento e riportandolo poi sulla fiamma viva», o di tre ragazze «appese vive con gancio da macellaio, [che] spasimano diverse ore sulla piazza prima che intervenga la morte per soffocazione o per troncamento della vena jugulare» per aver aiutato dei partigiani.

Sono atti di brutalità, ma anche di vigliaccheria. “L’abuso di potere […] è possibile anche grazie alla consapevolezza di disporre di maggiore forza, visto che la maggior parte delle violenze si compie in gruppo e forzando la vittima a bere alcol o ad assumere droga. L’arma della violenza sessuale, perpetrata con facilità grazie alla possibilità di disporre delle vittime in ogni momento, dal fatto di poter compiere ogni genere di brutalità al riparo da occhi indiscreti, negli scantinati delle caserme, nelle celle delle prigioni con le finestre murate, non è però rivolta tanto a carpire informazioni: il vero scopo è terrorizzare, annichilire e mortificare la forza di resistenza delle donne. […] La violenza sessuale rientra comunque anche tra le azioni di violenza programmata, compiute a scopo dimostrativo.”

In una sentenza della Cassazione del 28 maggio 1948, giudicando queste violenze fasciste, fu riconosciuta la sussistenza del reato di sevizie, nella seguente sequela di torture: «denudare completamente una donna e percuoterla ripetutamente con nerbate, introdurre nella vagina una bottiglia o un proiettile sino a farle uscire del sangue, mentre altri colpiscono la vittima con nerbate al seno, e in tutte le altre parti del corpo; bruciare i peli del pube, praticare ripetute iniezioni di benzina, congiungersi violentemente con la donna, oppure non riuscendoci, percuoterla con un cinturone sull’addome, strapparle una ciocca di capelli, rovesciarle le unghie degli alluci con una pinza, lacerarle l’imene, obbligarla a compiere atti di masturbazione e inghiottire lo sperma».

Presupposto della violenza fascista era la “brutalizzazione e disumanizzazione del nemico” e il “mito della «violenza rigeneratrice» e del «disprezzo della donna»”. “La formula della violenza militare, delle minacce e delle pressioni psicologiche viene però utilizzata soprattutto per bloccare sul nascere le azioni di guerriglia, specie nei contesti dove le formazioni si sono maggiormente radicate e hanno un contatto diretto con le popolazioni locali. Nelle zone rurali dell’Emilia-Romagna l’obiettivo di spezzare le reti di solidarietà instaurate tra contadini e partigiani rientra anche nel più ambizioso progetto di regolare una volta per tutte i conti che si sono aperti nel 1920 con le violente agitazioni sociali che hanno segnato il «biennio rosso». A questi disegni sembrano del resto aderire quegli stessi proprietari terrieri e quei ceti medi rurali che già nel 1920-1922 hanno trovato appoggi e consensi nello squadrismo fascista, spaventati dalla crescita delle rivendicazioni sindacali paventate dal sistema delle leghe rosse”.

Le donne arrestate dai fascisti hanno la consapevolezza di quello che le aspetta, o perché leggono le scritte sui muri delle celle lasciate da chi c’è stato prima ora, o perché i fascisti stessi glielo adombrano costringendole ad assistere alle fucilazioni o ad udire le grida di altri prigionieri o prigioniere, o perché hanno incontrano delle sopravvissute. Ad esempio, Vinka Kitarovic, partigiana slovena, ricorda la ragazza di 22 anni che «una notte nel rifugio mi fece vedere che le avevano tolto i capezzoli del seno». Sono anche consapevoli degli scopi che i fascisti si prefiggono di ottenere con la violenza sessuale e decise a non farsi spezzare. Nelle parole di Ponzani: “Per le partigiane, donne politicizzate e militanti attive nella lotta antifascista […] la violenza sessuale è vissuta con una diversa consapevolezza […], filtrata dall’impegno politico e dal peso della «scelta» che impone di non cedere al ricatto d’essere annientate nello status di vittima sacrificale“.
Le partigiane sanno che i fascisti vogliono punirle perché la loro partecipazione alla Resistenza incrina l’ordine sociale fondato sulla famiglia patriarcale e gerarchica che hanno cercato di costruire nel Ventennio. Le donne che si ribellano, come abbiamo visto, lo fanno alla dittatura e all’ordine sociale che le vuole sottomesse. Ma, nonostante il dolore, la violazione profonda della loro dignità e il trauma, nemmeno la violenza sessuale riesce a piegare queste donne, che anzi la denunceranno per tutte le loro vite, in una testimonianza “che assume il valore di una denuncia universale per tutte le nefandezze del fascismo“.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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