Tra tutte le considerazioni che ho letto in questi giorni in merito a quanto sta avvenendo sul Coronavirus Covid-19 in Italia, mi sento di condividere il pensiero di chi afferma le contraddittorie, eppur simili, frontiere di una asfittica quotidianità che viviamo con sempre maggiori incoscienze (un po’ in tutti i sensi), circondati da un clima surreale che nel giro di meno di 48 ore ha trasformato il Paese in una grande “zona rossa“.

Per chi ha vissuto i tempi del G8 di Genova, la metafora sarà abbastanza evidente: ma al posto delle grandi e alte grate in ferro che delimitavano il centro di Genova, oggi a circondare i centri dei focolai dove si sta sviluppando il Covid-19 sono in prima persona le forze dell’ordine e l’esercito con blocchi stradali. Nessun recinto fisico, ma la sostanziale evidenza del controllo dello Stato per disporre al meglio la tutela della salute pubblica.

Benché le motivazioni siano giustificabili dallo stato dell’espansione repentina del virus, probabilmente per l’alto numero di tamponi (più di 4.000) fatti in poche ore, rispetto ad esempio a quelli fatti in Francia (soltanto – si fa per dire – 400 rispetto a quelli effettuati in Italia), fa sempre una certa impressione il presidio dei territori messo in mano all’esercito. Vi si ricorre, infatti, quando l’emergenza è tale da sfuggire al comune controllo istituzionale per canali di comunicazione di massa, con ordinanze che vengono rispettate istintivamente dopo una sommaria lettura dei quotidiani che le riportano o dopo essersi collegati ai siti Internet a questo preposti.

Da un lato l’isteria di massa gestita abilmente dai media, i dati scientifici superati da illazioni e nuove superstizioni, stigmi e pregiudizi antichi; dall’altro la reazione politica che ondeggia tra il “normale” sciacallaggio delle destre e il securitarismo militarista giustificato con l’emergenza che pure è reale e che non va sottovalutata.

In mezzo a queste paludi della ragione vivono le tante fobie antisociali e la disperazione quotidiana che vengono esacerbate al punto tale da assumere i connotati di qualcosa di trascurabile: dai problemi mondiali che riguardano la crisi ambientale fino all’olocausto quotidiano dei morti sul lavoro, dello sfruttamento capitalistico.

È difficile sfuggire a questa tenaglia ma, almeno, si può provare ad esserne consapevoli. Ed esserlo eviterebbe, ad esempio, il saccheggio dei supermercati e l’ansia ipocondriaca che prende un po’ tutti quando per cento volte al giorno senti ripetere messaggi uguali e contrari sul virus con parole sbagliate, termini scorretti e difettanti chiaramente in eccesso.

Provando a rimanere razionali, non si può non mettere l’accento sulla facilità con cui ogni emergenza socio-sanitaria che si presenta con potenziali cadute indiscriminate, di massa, che viene presentata come incontrollabile mentre viene comunque fatto passare il rassicurante messaggio che lo Stato si sta occupando del fenomeno mediante tutti i mezzi a sua disposizione, si trasformi in un vero e proprio cedimento al panico.

Ciò significa che pure colei o colui che si ripetono – come facciamo noi – che bisogna mantenere la calma ed essere il più raziocinanti possibili, seguendo le linee guida del Ministero della Salute, alla fine un cedimento lo hanno e, se non altro, vanno in farmacia o al supermercato per prendere una bottiglietta di Amuchina, oppure guardano se hanno alcool a sufficienza in casa per affrontare l’emergenza.

Dunque, la tentazione di rientrare nella logica del comportamento comune che si diffonde è quasi normale, conseguente agli stimoli che provengono dall’esterno e che spingono nella direzione a senso unico dell’imperativo categorico: “Devi sostenere lo sforzo della nazione in questo momento.“. Fin qui si può accettare il ricorso al dettame kantiano, perché è sacrosanto e giusto fare la propria parte, nel nostro piccolo quotidiano di vita, per aiutare i lavoratori della sanità, gli operatori sociali e tutti coloro che rischiano davvero la vita per la salute pubblica.

Poi però l’imperativo categorico moderno accelera nel suo prodursi come virus contagiosissimo di massa, nel divenire condizionamento quasi morale: chi fa informazione conosce il potere, anzi il “quarto potere“, che hanno le parole dette, ridette, soprattutto contraddette fra loro. Esiste anche la zona d’ombra del “sentito dire”, del “detto e non detto“: non si tratta del venticello della calunnia, ma di qualcosa di ancora più sottile. Si tratta di un crinale di confine tra verità e vere e proprie panzane che però riescono a penetrare i crani vuoti di molte persone, spesso incolpevoli, sovente in buona fede e proprio per questo nuova carne al macello della fabbrica della mistificazione dei fatti.

Soprattutto in quest’epoca di comunicazioni nemmeno più veloci, oltre la velocità immaginabile, visto che possiamo tranquillamente parlare di “istantaneità” delle notizie, tutto quanto avviene senza la possibilità di verifica da parte del singolo che con grande superficialità prende una pseudo-notizia di cui ha letto il titolo debitamente costruito per essere attrattivo e la invia all’universo mondo dei suoi contatti tramite chat, social network e altre diavolerie che tutti utilizziamo ogni giorno.

Ecco, questo sì è un virus epidemico o addirittura pandemico, perché le parole sono importantissime ed andrebbero usate con grande cautela e con scrupolo estremo, associandole alla verità dei fatti e non per determinare una disinformazione frutto della necessità di vendere più copie di un giornale o di avere più “click” su un sito web… ma si sa… la logica del sistema economico in cui viviamo è quella del profitto. Questa certamente è “sopra il popolo“, quindi epidemica.

Anche gli algoritmi devono, suvvia, poter beneficiare della paura indotta nella cittadinanza. Oltre agli agitatori di massa televisivi, ai disinformatori di professione su Internet, è bene assicurarsi che anche la carta stampata faccia il suo mestiere. Non tutta, per carità. Ma allora, se distinzione deve essere (e deve poter essere) operata, un intervento in merito i giornalisti devono farlo su sé stessi e dire chiaramente che alcuni giornali non sono giornali, non informano ma deformano le notizie perché piegano i fatti a conclusioni che sono perniciose per la fragilità della credulità popolare.

Domando: anche questa non è una forma di nocumento per la salute pubblica? Oltre che deontologicamente estraneo alla professione del giornalista, non è anche immorale l’opera (si fa per dire) di chi si esprime con asprezza ogni giorno, di chi fomenta odio, xenofobia, razzismo e che non perde occasione per sollevare il peggio delle nostre incoscienze da noi stessi e rivoltarlo contro altri che, di volta in volta, vengono individuati come il nemico necessario di cui questa società finge di aver bisogno per vivere?

L’emergenza esiste e va presa sul serio, ma almeno, se proprio non riusciamo ad avere coscienza dei confini tracciati dalla medicina in merito, cerchiamo di evitare di condizionare i più deboli, i bambini, con le nostre ossessioni, paure, fobie e isterie inoculate in gran parte da un feroce e cannibale mondo di disinformazione.

Una considerazione ulteriore merita, in quanto a relazioni tra fattori che finiscono per influenzarsi vicendevolmente nella generazione di comportamenti collettivi in preda all’allarmismo più esasperato, l’autonomia regionale che proprio in materia sanitaria ha ampissimi poteri dopo la riforma del titolo V della Costituzione.

L’autonomia regionale non è una maggiore propensione all’uguaglianza nei campi in cui ha potere. È il “si salvi chi può“. Averla sempre contrastata non fa oggi di noi comunisti dei saputelli che con arroganza devono affermare: “Ve lo avevamo detto.“. Tuttavia…

Sono da sempre stato contrario ad ogni forma di cedimento dei poteri alle regioni su materie primarie che riguardano i diritti fondamentali dei cittadini. Perché se un ruolo la Repubblica deve avere, ebbene questo è nella massima tutela della vita quotidiana di ogni singola persona.

Per questo, condivido le parole del Presidente del Consiglio quando afferma che non è tollerabile che ogni regione si comporti a sua esclusiva discrezione. Il governo deve centralizzare la direzione, ad esempio, della attuale emergenza e non consentire che si proceda in ordine sparso.

Ero e rimango un avversario del federalismo in ogni tempo e forma in cui si è affacciato sulla scena politica e sociale italiana: da quello storico di Carlo Cattaneo quanto, maggiormente, le finte trovate regionaliste, macroregionaliste e poi le sparate indipendentiste della Lega Nord, per non parlare del “federalismo fiscale“…

La riforma del Titolo V della Costituzione è stata deleteria per l’unità nazionale sotto questi profili. Evitiamo di degenerare nella tanto agognata “autonomia differenziata” che farebbe venire meno il senso stesso della Repubblica, insieme alle altre “piccole” riforme che si vogliono attuare: lo svilimento del Parlamento con il taglio del numero di deputati e senatori; la nuova legge elettorale fintamente proporzionale; infine, il premierato evocato da Renzi.

Gli sforzi per complicare la vita del Paese non ce li facciamo di certo mancare.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

2 pensiero su “L’ITALIA DEL CORONAVIRUS E DELLE REGIONI FAI DA TÈ”
  1. una domanda dovremo farcela, perchè in Italia più contagiati che altrove? La risposta più credibile: il sistema immunitario degli italiani è più basso Ma perchè è più basso? La risposta più credibile: TrOppi vaccini !!!. Se ad un bambino di pochi mesi viene iniettato una decina di vaccini, perciò decine di “porcherie”, quel bambino per tutta la sua vita non sarà piu sano.
    La nostra è già una nazione di ” impestati”,infatti ci stanno chiudendo le frontiere.

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