Fino a che punto la nostra voglia di essere spettatori prevale sulla morale, sul senso civico, sul senso di umanità? Fino al punto di diventare cineoperatori di un crimine? Fino al punto da diventare così meschini e mettere fra noi e chi soffre lo schermo di un telefonino per poi pubblicare il video di un omicidio sui social?

Non domandiamoci cosa siamo diventati. Interroghiamoci piuttosto su cosa eravamo prima e su come è stato possibile che l’empatia umana raggiungesse livelli così infimi tanto da rasentare il più bieco cinismo, oltretutto nascosto dietro l’alibi del timore di fermare una aggressione da parte di un uomo disarmato nei confronti della sua vittima, per paura di esserne coinvolti, per paura di ricevere magari lo stesso trattamento.

Ma se l’unione fa la forza, allora due o tre persone, quel giorno a Civitanova Marche avrebbero potuto rimettere velocemente in tasca i loro cellulari e, visto che non si trattava di una rissa da bar fatta di insulti e quattro scapaccioni, fermare quello che sarebbe diventato, di lì a poco in soli quattro minuti, l’assassino di Alika.

Invece la tragedia dell’ambulante che chiedeva l’elemosina ai bordi della strada, massacrato di botte per aver rivolto la parola alla compagna dell’aggressore, si è consumata così, sotto gli occhi di un piccolo mondo moderno dove contano di più le immagini, i video e i colori della pelle rispetto al dolore, alla sofferenza che dovrebbero essere un po’ uguali per tutti e che, invece, finiscono con il non esserlo…

Alika Ogorchukwu aveva solo 39 anni e due colpe: non essere benestante ed essere nero. Se fosse stato anche un mendicante ma di pelle bianca come noi, quelle persone che hanno fatto un manzoniano crocchio con tanti telefonini prontissimi a filmare l’eccezionalità del fatto, sarebbero rimaste lì, ferme a seguire con le videocamere il tutto? Oppure avrebbero reagito, percependo che si trattava di uno della stessa “specie“, per non dire di peggio, della stessa “razza“?

E’ probabile che qualcuno avrebbe reagito, sentendosi più coinvolto, dato proprio il colore della pelle, l’origine – per così dire – comune tra tutti e tre: passante, aggredito e aggressore. Invece Alika muore perché la furia di uno, che indubbiamente hai dei gravi problemi mentali e che ne farà la propria difesa in tribunale, non viene bloccata dal senso comune degli altri, da un istinto quasi primordiale a proteggere il più debole.

Abbiamo dimenticato proprio questo: che i deboli non conoscono patria, non hanno confini. Perché la fragilità sociale e individuale è comune a tutte quelle persone che vivono stati di indigenza estrema a causa anzitutto della loro provenienza. Fame, guerra, miseria endemica e strutturale causata da secoli di sfruttamento dei loro paesi da parte delle grandi potenze coloniali prima e dal capitalismo moderno poi, hanno ridotto africani, asiatici e americani del sud a abitanti di serie B di questo consumato pianeta.

I migranti sono stati etichettati come “invasori“, come sottrattori del nostro benessere, delle nostre sicurezze e di certezze che pensavamo consolidate nel tempo dalle conquiste di generazioni di operai e studenti in lotta, mentre invece chiedevano soltanto una condivisione di sventure che, come possiamo ben vedere oggi, ci riguardano direttamente e da cui non possiamo dire di essere esclusivamente spettatori.

No, non siamo spettatori della miseria altrui. Siamo compartecipi di tutto questo: ad iniziare dalla violenza verbale, mentale, immorale e incivile di quel portato di razzismo e xenofobia diffuso da forze politiche che sovranizzano ogni cosa, che mettono avanti a tutto l’appartenenza nazionale, l’identitarismo feroce.

Per lungo tempo, dagli anni ’90 in avanti, il concetto di “villaggio globale” ha fatto presa tra i commentatori politici ed economici: in particolare, si è introdotto nella descrizione delle problematiche sociali ed ecologiche che prendevano piede con una certa velocità espansiva in ogni parte del pianeta.

Sembrava che la globalizzazione dovesse trascinare con sé, oltre tutti i temi di natura liberal-liberista, anche una nuova grande ondata di solidarietà internazionale, di comprensibilità critica circa le problematiche universali che non erano specifiche di un unico paese ma che, oggettivamente, riguardavano proprio tutti gli Stati, tutti i popoli.

Invece, il mercato ha creato dei confini etno-politici, facendo credere all’occidente capitalisticamente avanzato di essere una sorta di mondo superiore rispetto agli altri e dando ai propri cittadini una caratterizzazione (forse) indirettamente razziale, ma comunque generando dei sentimenti di alterità che sono divenuti il piedistallo su cui salire e guardare dall’alto in basso i meno fortunati, le grandi masse di persone che con navi prima, barche poi e gommoni dopo ancora approdavano sulle spiagge dell’Italia, della Grecia, della Spagna.

Ai bordi di una Europa disorientata, incapace di dare una soluzione anche minimale alle problematiche sociali e antropologiche che ne venivano di conseguenza e chiudendosi a fortezza, trincerandosi dietro la necessità di uno sviluppo economico e finanziario che non poteva essere rimandato.

La presunta e, quindi, presuntuosa ricchezza di cui abbiamo goduto, ci ha reso altamente insensibili alle sofferenze di chi non era esattamente come noi.

Per difendere la nostra civiltà plurimillenaria sono stati alimentati sacri fuochi revanchisti di ogni tipo: dall’integralismo religioso dal sapore vandeano fino alla teorizzazione di nuove gerarchizzazioni antisociali fondate sulla imperturbabilità della famiglia propriamente detta, di razza bianca, rigorosamente inserita in un eterosessualismo aprioristico, unendo il tutto ad attacchi conseguenti contro i diritti laici conquistati sulla scia del costituzionalismo repubblicano dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi.

Così, in questa lunga notte buia di una orribile realtà di mezza estate, il riemergere del razzismo italico nel brutale omicidio di Alika, aggravato da tutti quei futilissimi motivi che ne stanno alla base, fa il paio con il problema di una Italia che rischia di avere tra cinquantasei giorni una maggioranza di governo nera, sovranistissima, con chiari riferimenti ad un neo-conservatorismo che fa il paio tanto con il franchismo di nuova generazione della spagnola Vox quanto con il trumpismo mai veramente superato dalla vittoria di Biden e Harris.

La morte del povero Alika deve, a questo punto, essere un punto di appoggio per suscitare tante crisi di coscienze che si sono lasciate blandire dalla seduzione del possibile e che hanno trascurato invece il necessario. Sarebbe bastata un po’ di buona creanza, senza dove per forza conoscere San Tommaso, per comprendere appieno che, non tanto fede e ragione erano qui in contrasto, bensì l’essere cittadini con l’essere umani allo stesso tempo.

Se poi, come è vero, larga parte della popolazione italiana è credente e cristiana, ancorché sempre meno praticante, alcuni di quelli che si sono fermati a guardare prima, ed a filmare poi, il massacro di Alika da parte del suo aggressore, allora le motivazioni per intervenire non erano una o due, ma addirittura tre: civismo, umanità, fede religiosa.

Invece nulla di tutto questo è accaduto. Un uomo muore perché, rispetto a quanto auspicava Cesare Pavese, il nostro senso comune è disceso nel proprio inferno più di una volta e lì vi si è perso, smarrito.

Ma non al pari di Dante che vagava per conoscere, soffrendo al pari delle anime perse. No, noi siamo precipitati in un Ade senza alcuno scopo: non siamo morti e al contempo siamo sempre meno vivi, perché abbiamo ucciso gran parte dei nostri sentimenti, degradandoli a facezie, riducendoli a quel “buonismo” di cui la sinistra viene soventemente accusata per esprimere la mancanza di una risolutezza in materia di sicurezza personale, di tutela delle nostre comunità.

Ci siamo lasciati inebriare dal semplicismo delle ricette delle destre sovraniste, capaci di risolvere ogni problema dei soli italiani con soluzioni drastiche, visto che la democrazia ha bisogno di tempo, di energie e – semmai – anche di una onestà intellettuale e pratica nella gestione della Repubblica in quanto “cosa pubblica“.

Il risultato è quello che abbiamo davanti: la morte violenta di un uomo che chiedeva qualche spicciolo per riuscire a campare; un altro uomo in carcere che si scusa e che dice di essere una specie di psicopatico antisociale; un gruppo di persone che è rimasto a guardare lo svolgersi di un omicidio e lo ha filmato senza muovere un dito.

Non penso di esagerare se dico che chi non fa nulla per impedire un fatto simile, come qualunque altra ingiustizia e aggressione, concorre nella colpa, diventa un po’ assassino anche lui. Anche io avrei avuto paura di scagliarmi contro l’uomo che stava picchiando Alika, ma almeno avrei provato a dargli due pugni, a tirarlo via dal corpo sempre più esanime di quell’uomo coperto dalle botte. Avrei provato…

L’ultima cosa che mi sarebbe venuta in mente è di prendere il mio telefonino, attivare la videocamera e filmare un omicidio guardando morire Alika, lì, a pochi metri, senza niente altro fare se non  muovere l’angolazione del cellulare…

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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