Daniele Ciolli 

Il bilancio delle piogge estreme che hanno causato l’esondazione del fiume Misa che attraversa il comune di Senigallia è di 11 morti e decine di milioni di euro di danni. La tragedia dell’alluvione che ha colpito le Marche il 15 settembre scorso, nelle provincie di Ancona e Pesaro-Urbino, ha aperto l’ennesimo dibattito sulle responsabilità politico-amministrative, con il solito rimbalzo di colpa tra le singole istituzioni e con il susseguirsi di passerelle di politici ‒ sotto elezioni ‒ pronti a esprimere il loro cordoglio promettendo fondi per la ricostruzione e la realizzazione di opere di messa in sicurezza del territorio.

Parole che fanno rabbia soprattutto ai cittadini locali, ben consapevoli che dei rischi del fiume se ne parla dagli anni Ottanta e che appena 8 anni fa, nella stessa zona, il maltempo aveva provocato 4 morti. Consci che il progetto per la realizzazione di vasche di laminazione atte a ridurre il volume delle possibili piene, firmato dall’allora governatore Luca Ceriscioli e approvato dalla Regione Marche a marzo 2016, è stato avviato solo sei anni dopo, lo scorso febbraio.

Il problema del dissesto idrogeologico, in realtà, non riguarda solo le Marche ma l’intero paese. Secondo il rapporto “Dissesto idrogeologico in Italia: pericolosità e indicatori di rischio” di Ispra, quasi il 94% dei Comuni italiani è a rischio dissesto, un milione e 300mila residenti abitano in zone a rischio frana e quasi 7 milioni vivono in zone soggette alle alluvioni. E con gli effetti sempre più violenti del cambiamento climatico in atto il problema del dissesto idrogeologico si impone sempre di più come un’urgenza inderogabile che la politica deve affrontare. In Italia, tra il 2010 e il 2022, si sono verificati 1318 eventi estremi, tra cui forti piogge con venti oltre i 100 km orari, esondazioni, frane, trombe d’aria e grandinate violente, che hanno causato la morte di 261 persone secondo l’Osservatorio CittàClima di Legambiente. Di questi eventi estremi 133 si sono verificati nel 2021, e nei primi sette mesi del 2022 ne sono già stati registrati 132, il numero più alto degli ultimi dieci anni. Eppure l’Italia continua a rimanere l’unico paese europeo senza un piano approvato di adattamento al clima.

In realtà, un piano ci sarebbe, ossia quello elaborato dal Ministero dell’Ambiente (oggi della Transizione ecologica) nel 2016, sotto il governo di Matteo Renzi: il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc), basato sulla Strategia nazionale adattamento al clima (Snac) del 2015. Da allora sono cambiati 4 governi, guidati da Gentiloni, da Conte (per due mandati) e da Draghi. La prima stesura del 2017 è stata sottoposta a una consultazione pubblica cui non venne dato seguito a causa della caduta del governo Gentiloni, rinviando la questione al governo che sarebbe entrato in carica a marzo 2018. L’ultima versione del piano è consultabile sul sito del Ministero della Transizione ecologica ma, a distanza di 5 anni, questa non è ancora stata approvata; inoltre, dato il lungo tempo trascorso, andrebbe oramai rivista ulteriormente. Il documento identifica 6 “macro-regioni climatiche” con condizioni metereologiche simili, al cui interno si trovano delle “aree climatiche omogenee” dove è comune il rischio di eventi estremi. Esso fornisce un’analisi del rischio, in base ai potenziali impatti e alla capacità di adattamento a livello provinciale, e propone una serie di azioni (divise per 18 settori, tra cui quelli delle risorse idriche e dei dissesti) per farvi fronte, elencando le infrastrutture da realizzare sul territorio. Ma i tempi e gli impegni finanziari per concretizzare questi progetti sono scoraggianti. Per esempio, i fondi statali per la progettazione delle opere proposte dalla Regione Marche nel 2016 relativi al fiume Misa sono arrivati solo nel 2020, e in numeri molto ridotti (321 mila euro) rispetto alla decina di milioni di euro che occorrerebbero per gli interventi di messa in sicurezza definiti dal piano del 2016. In Italia l’assenza di investimenti economici finalizzati alla messa in sicurezza del territorio, a partire dagli argini dei fiumi, caratterizza in maniera trasversale tutti i governi e le forze politiche. Dalla crisi del 2008 gli investimenti pubblici sono diminuiti di oltre un terzo, come risultato di specifiche scelte di politica di bilancio che hanno portato il paese a contenere la spesa a scapito (anche) della messa in sicurezza del territorio nazionale.

L’Italia è in ritardo rispetto alle altre nazioni europee non solo sul Pnacc e gli investimenti, ma anche sull’implementazione del sistema nazionale di allarme pubblico IT-alert previsto da una direttiva europea. Questo servizio consentirebbe, in caso di emergenze imminenti o catastrofi in corso, di inviare messaggi di allarme sui cellulari dei cittadini presenti nelle aree a rischio, raggiungendoli direttamente senza passare per alcun intermediario. La direttiva europea riguardo l’alert climatico n. 1972 dell’11 dicembre 2018 fissava al 21 giugno 2022 il limite per l’entrata in funzione del sistema, che tuttavia non è ancora operativo ma solo in fase sperimentale, essendo stato testato ma mai utilizzato nei casi reali di emergenza, come l’alluvione delle Marche.

Oltre ai problemi legati alle scarse risorse economiche e ai ritardi sul Pnacc e IT-alert, un altro elemento critico è costituito dal sistema burocratico rallentato dai frequenti cambi a livello di amministrazioni locali, ma anche di commissari e funzionari dei ministeri. Così, i progetti prioritari, come le citate vasche contenitive di laminazione, che rappresenterebbero un intervento non a valle ma a monte dei fiumi e che sarebbero in grado di ridurne la portata durante le piene tramite lo stoccaggio temporaneo di parte del volume dell’onda di piena, restituendola solo in un secondo momento al fiume, non arrivano a completarsi. Ci si limita a concentrarsi sulla sola manutenzione ordinaria, che è però assai meno rilevante sul piano della prevenzione degli eventi. Come se non bastasse, tale manutenzione spesso è eseguita in maniera manchevole, se non del tutto tralasciata, come nel caso del fiume Misa, per cui non sono stati eseguiti dei lavori di miglioramento degli argini o di pulizia del letto adeguati. Per velocizzare il sistema serve una base giuridica nuova (per una pronta approvazione del Pnacc) e un maggiore coordinamento tra i settori dei livelli amministrativi, dallo Stato alle Regioni, ai singoli Comuni, includendo la Protezione civile, per evitare l’esperienza dei sindaci marchigiani che hanno lamentato di non essere stati avvisati della reale entità del pericolo ma di aver ricevuto solo la comunicazione di un’allerta gialla.

Infine, l’incapacità di gestire gli eventi estremi costituisce anche un enorme danno economico per l’Italia, in misura sempre maggiore a causa del riscaldamento globale: dal 1945 l’Italia paga in media circa 3,5 miliardi all’anno per risarcimenti e riparazione dei danni ambientali. Secondo i dati della Protezione Civile ogni anno spendiamo 1,55 miliardi per la gestione delle emergenze. Secondo Greenpeace dal 2013 al 2019 il costo è stato pari a 20,3 miliardi di euro per una media di circa 3 miliardi ogni anno. Ciononostante dal 1999 al 2019 per gli interventi finalizzati a mitigare il rischio idrogeologico in Italia (6303) è stata stanziata una cifra di poco meno di 6,6 miliardi di euro (fonte Ispra, piattaforma Rendis), con una media di 330 milioni annui. Numeri insufficienti per un intero paese a rischio di dissesto idrogeologico segnato da alluvioni che attraversano l’intera penisola, basti pensare a quanto accaduto a Catanzaro, Cuneo, Messina, Genova, Piacenza, Livorno, Vicenza, Olbia, Catania, e si potrebbe continuare. E ad ogni nuova tragedia gli italiani non subiscono solo i danni inflitti dall’evento, ma anche la beffa delle lacrime di coccodrillo dei politici

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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