Partiamo da alcune considerazioni preliminari sul salario minimo e sulla predominante miseria, o moderazione salariale – come si suole definirla.
La prima osservazione è quella relativa al potere di acquisto in caduta libera da quasi 40 anni; siamo il solo paese Ue nel quale i salari sono diminuiti con aumenti contrattuali irrisori e inferiori al costo della vita.
La domanda da porci è semplice: perchè i salari italiani sono in fase regressiva da lustri? Forse perchè il loro potere di acquisto era stato gonfiato dalla scala mobile?
La risposta è negativa, sono trascorsi 40 anni dalla liquidazione della scala mobile e i salari italiani, nel pubblico e nel privato, sono , ieri e ancor più oggi, inferiori a quelli francesi, inglesi, tedeschi , belgi, olandesi o del Nord Europa.
La scala mobile è stata sacrificata ancor prima della nascita della Ue quando le sirene del contenimento della spesa pubblica iniziavano a manifestarsi con forza, piani strutturali di aggiustamento della finanza pubblica sono iniziati un decennio prima della nascita della Unione Europea ma in Italia sono state praticate politiche assai più deleterie di quelle adottate da altri paesi. Per prima cosa si è posto fine all’uscita anticipata dal mondo del lavoro per le donne, sono arrivate innumerevoli norme di precarizzazione del lavoro e norme capestro che hanno permesso a contratti nazionali di essere siglati con anni di ritardo e aumenti inferiori al reale potere di acquisto. E per mettere fuori gioco ogni elemento di conflittualità è arrivata sul finire degli anni Ottanta e primissimi Novanta la scure contro il diritto di sciopero preceduta da una infame – altro termine non lo troviamo – autoregolamentazione sottoscritta da quei sindacati rappresentativi che da quel momento in poi hanno taciuto e subito passivamente, se non compartecipando, di fronte a tutti gli attacchi rivolti ai diritti sociali, al potere di acquisto e di contrattazione.
Fino a questo punto ci siamo limitati, in estrema sintesi, a descrivere gli anni regressivi che hanno visto soccombere il movimento dei lavoratori nelle linee essenziali evitando di parlare dell’innalzamento dell’età pensionabile, delle privatizzazioni che hanno alimentato la proliferazione di contratti a perdere costruiti ad arte per adattarsi ai processi di esternalizzazione e agli appalti.
E’ ormai acclarato che la contrattazione nazionale non è da tempo strumento di recupero di salario e diritti ma ambito di mediazione al ribasso nel quale prevale sempre e solo la logica e gli interessi datoriali. Un recente ccnl da sette anni in attesa di rinnovo è stato sottoscritto con pochi euro di aumento proprio dalle organizzazioni sindacali rappresentative che da tempo raccontano di accordi pirata costruiti ad arte da sindacati autonomi compiacenti e associazioni datoriali, mentre ora ci accorgiamo che tra i ccnl pirata si annoverano anche quelli sottoscritti da cgil cisl uil.
Se pensiamo alla P.A., 9 anni di blocco della contrattazione e dei salari sono ancora oggi irrecuperabili sia in termini di salario che di assunzioni stabili della forza lavoro (aumentano invece i contratti precari come del resto nel settore privato).
Il fatto che a parlare di salario minimo siano anche settori del capitalismo e del padronato spinge molti a dubitare della bontà di questa proposta pensando magari che nell’alveo della contrattazione nazionale sia possibile recuperare salari dignitosi e una retribuzione oraria adeguata.
L’esperienza diretta e quanto visto negli ultimi anni induce invece a dubitare della proposta di cgil cisl uil perchè le dinamiche proprie della contrattazione nazionale e di secondo livello sono costruite per contenere la dinamica salariale e ridurre ai minimi termini i diritti esigibili, a dividere la forza lavoro pensa poi la cultura del merito e la performance che hanno seminato tempesta ovunque abbiano trovato applicazione e seguito.
Perfino il Governatore della Banca d’Italia riconosce che un numero sempre maggiore di lavoratori e lavoratrici non possiede dei salari dignitosi e condizioni contrattuali adeguate, se le autorità finanziarie sono arrivate a questa conclusione vuol dire che bassi salari e inadeguato potere di acquisto rappresentano ormai un problema per la stessa tenuta del capitalismo. Non pensiamo che il salario minimo, come del resto prima il reddito di cittadinanza, siano conquiste rivoluzionarie ma davanti all’ignavia e alla retorica dei sindacati rappresentativi restano comunque un passo in avanti per restituire salario o reddito a quanti ne sono sprovvisti o lo acquisiscono in quantità assai limitate
In Italia, come negli Usa, nell’ultimo triennio sono state recuperate le ore lavorate pro capite e sono cresciuti i posti di lavoro ma oltre oceano la disoccupazione è in aumento e in Italia la precarietà caratterizza gran parte della recente occupazione. Se cala la disoccupazione tra gli under 30 è pur vero che i contratti sono prevalentemente precari e i salari da fame, in prospettiva poi ci ritroveremo con anziani in pensione con pochi contributi e assegni bassi, tanto bassi da costringere l’Inps ad intervenire con misure di sostegno, la stessa istituzione che tra pochi anni dovrà fare i conti con la uscita dal mondo del lavoro dei figli del boom economico fronteggiando numeri allarmanti che vedono i pensionati di poco inferiori al numero degli occupati. La relazione della Banca d’Italia ricorda che il numero dei lavatori poveri è in continuo aumento e questo fatto preoccupa non poco il potere finanziario che pensa alle ripercussioni sui conti pubblici derivanti dalla riduzione dei finanziamenti all’Inps.
Dal punto di vista del capitalismo l’alto numero di part time, di contratti a tempo determinato e di salari irrisori rappresenta un problema anche per le elites dominanti, per la tenuta del sistema previdenziale e per la necessità di un esercito industriale di riserva che da tempo si è ridotto nei numeri e soprattutto nella varietà delle competenze da offrire. Da qui la proposta datoriale di concedere nuovi flussi migratori da una parte e dall’altra spingere le parti deboli e retrive del capitalismo italiano verso politiche diverse dal contenimento dei salari basate come sono sulle delocalizzazioni, sugli appalti al ribasso e sulla precarietà.
In assenza di risposte certe possiamo azzardare alcune ipotesi, ossia che il salario minimo non si una decisione rivoluzionaria ma sicuramente avanzata rispetto alle surreali risposte dei sindacati rappresentativi che promettono di risolvere i problemi che invece creano e alimentano con la loro prassi contrattuale.
Che esista un conflitto interno alle anime del capitalismo italiano è cosa risaputa, si tratta solo di comprendere che un salario minimo orario costringerebbe gli stessi sindacati a prendere atto del loro fallimento aprendo la strada all’affermarsi di nuove e diverse pratiche perchè con la crescita degli stipendi è risaputa anche la ripresa della conflittualità tra capitale e lavoro.
Una parte del capitalismo italiano è pronto a correre il rischio pensando ad incrementi dei finanziamenti all’Inps e al contempo evitando la fuga all’estero di ricercatori e di operai specializzati dato che una forza lavoro meglio pagata può anche essere una garanzia in più per le imprese, per gli investimenti in formazione e per i processi di aggiornamento necessari.
La questione del salario minimo non può essere liquidata con battute infelici e frettolose conclusioni, non è detto che gli interessi di una parte del capitalismo italiano non possano essere strumentalmente sostenuti per recuperare potere di acquisto e condizioni di vita migliori.
A pensarla diversamente sono i sindacati che gli accordi con i padroni, anche i peggiori, li concludono da decenni senza un’ora di sciopero; diffidiamo allora di certe semplificazioni utili solo ad occultare la paradossale arretratezza del movimento sindacale italiano, come dimostra la secca perdita del potere di acquisto e di contrattazione degli ultimi 40 anni