di Franco Astengo

Mai dimenticare che si muore per sfruttamento: l’episodio di ieri sera a Milano (3 operai morti in una fabbrica metalmeccanica) ci riporta brutalmente a una realtà che, nell’infinita discussione sulla presunta fine della classe operaia, viene spesso lasciata da parte come fastidiosamente antico.

Situazioni intollerabili, inaccettabili, insostenibili che pure continuano a pesare come macigni sulla condizione di lavoro ancor oggi, in tempi nei quali la tecnologia, l’attrezzatura, l’organizzazione del lavoro dovrebbero garantire situazioni diverse dal passato. O, almeno, pensavamo che avrebbero dovuto garantirle.

Invece siamo qui a piangere ancora i nostri morti come accade sempre più di frequente e ci troviamo anche nel condividere lo sdegno di chi non trova giustizia: il rogo della Thyssen Krupp è ancora vivo nella nostra memoria, quale simbolo quasi emblematico del persistere di uno stridore tremendo tra la vita, lo sfruttamento quotidiano, la perversa volontà di profitto.

Vige in Italia una normativa in materia che è stata costruita soprattutto per alimentare un mercato, quello della formazione sulla materia, che costringe a seguire determinati itinerari garantendo – anche in questo caso – margini di profitto a chi non ha scrupoli nello sfruttarlo.

Nulla si fa, invece, per contrastare l’accelerazione nei tempi di lavoro e il disagio nelle modalità concrete dell’operatività di fabbrica, i ritardi tecnologici per l’assenza di investimenti adeguati.

Nella tragedia della perdita di diritti accumulata nel corso degli anni quelli riguardanti l’intensificazione oggettiva dello sfruttamento del singolo è forse la parte più trascurata perché soffocata dall’imperversare della precarietà, dell’incertezza, dell’insicurezza nel poter mantenere il proprio posto.

Dietro l’angolo di questo drammatico stato di cose dietro alla svolta della precarietà del lavoro e della vita, ci sta l’agguato della morte.

Accettarlo senza ribellarci rappresenta un altro segnale del nostro smarrimento.

Di AFV

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