“Errore di sistema. Crash del capitalismo. Installare nuovo sistema?”

 

di Jérome Roos – 16 settembre 2018

Questo fine settimana segna il decimo anniversario del crollo di Lehman Brothers, la banca statunitense d’investimenti un tempo potente la cui spettacolare bancarotta il 15 settembre 2008 ha scatenato la peggior crisi finanziaria dopo la Grande Depressione degli anni ’30. Dopo un decennio si sente comunemente lamentare che poco è cambiato da allora: le banche sono ancora troppo grandi per fallire, la finanza continua a dominare l’attività produttiva e le famiglie comuni devono ancora avvertire nei loro portafogli la fiacca ripresa economica. Ma questa continuità percepita, anche se certamente valida, è solo una parte della storia. In realtà è cambiato molto negli ultimi dieci anni; purtroppo in gran parte in peggio.

Negli anni precedenti il crollo il mondo festeggiava ancora uno stato di compiacimento alimentato dal credito. Durante tale cosiddetta Grande Moderazione il cancelliere del Regno Unito e poi primo ministro Gordon Brown vantò addirittura infelicemente che gli infiniti cicli di espansione e contrazione del passato erano stati finalmente dominati e superati. Da allora in poi non ci sarebbero più state crisi finanziarie. Tale falso senso di calma ha da lungo tempo ceduto il passo a un tumulto economico, politico e sociale in intensificazione. Guardando indietro è chiaro che molto di tale tumulto può essere attribuito direttamente al modo disastroso con il quale i decisori della politica hanno reagito al crollo del 2008.

Privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite

Mentre i governi di tutto il mondo salvavano le loro maggiori banche e si facevano carico delle passività del settore finanziario in un tentativo disperato di evitare che il capitalismo globale implodesse sotto il peso di un’altra Grande Depressione, essi in effetti trasformavano la crisi bancaria privata in una crisi del debito sovrano. Dal 2010 in poi hanno reagito a questa crisi autoinflitta del debito sovrano con una politica di estrema austerità, tagliando rapidamente la spesa pubblica per rimborsare obbligazionisti privati, che spesso sono risultati essere le stesse istituzioni finanziarie che erano state salvate nel 2008 con i soldi dei contribuenti.

Tale approccio neoliberista alla gestione della crisi – privatizzare i profitti dei banchieri e socializzare le loro perdite – ha a sua volta intensificato una tendenza di lungo corso a una crescente disuguaglianza socioeconomica. Di fronte a provvidenze decimate dello stato sociale, crescente disoccupazione e salari reali stagnanti o in calo, molte famiglie non hanno avuto altra scelta che assumere altri debiti per coprire le loro spese fondamentali.

Come sappiamo ora, il vangelo dell’austerità di bilancio doveva trovare i suoi predicatori più appassionati nell’Unione Europea, dove lo zelante abbraccio dei tagli di bilancio e della risultante caduta della domanda aggregata ha determinato un decennio perduto e numerosi attacchi violenti di panico del mercato che hanno quasi abbattuto l’eurozona. In nessun altro luogo le conseguenze catastrofiche sono state avvertite più dolorosamente che in Grecia. Posto sotto la tutela dei suoi creditori, il paese ha tagliato la spesa pubblica e ha subito un collasso della produzione economica e del tenore di vita popolare peggiore di quello sperimentato dagli Stati Uniti negli anni ’30.

In Europa, come altrove, questa devastazione economica ha a sua volta intensificato conflittualità sociale e polarizzazione politica. Durante questa seconda fase della crisi capitalista globale i problemi di bilancio degli stati sono stati trasformati in effetti in una conclamata crisi di legittimità.

Dalla crisi finanziaria al conflitto civile

Nel 2011 il mondo ha assistito allo scoppio di proteste di massa alimentate da una combinazione di acute rivendicazioni politiche ed economiche. Partendo dalle rivoluzioni in Tunisia e in Egitto, un’ondata di rivolte popolari si è diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo e nel Medio Oriente allargato, sconvolgendo profondamente nel processo l’ordine stabilito regionale.

Durante la primavera e l’estate milioni sono scesi in piazza in Grecia e in Spagna in grandi manifestazioni contro l’austerità, ispirati direttamente dalla Primavera Araba e a loro volta ispirando il movimento Occupy Wall Street che sarebbe emerso a New York e si sarebbe rapidamente diffuso nel mondo successivamente in quell’anno. Nel 2013 rivolte simili hanno scosso Turchia e Brasile. Il mondo stava vacillando.

E’ stato nei paesi arabi, tuttavia, che queste spettacolari mobilitazioni sociali hanno avuto le conseguenze di più vasta portata, rovesciando o destabilizzando numerosi regimi dittatoriali radicati prima di collassare in conflitti settari, terrorismo controrivoluzionarie è, più drammaticamente, in Siria, Libia e Yemen in sanguinose guerre civili.

Il conflitto violento, gli interventi stranieri e il successivo collasso dell’autorità statale in parti della Siria e della Libia hanno a loro volta alimentato un grande crisi umanitaria che ha visto milioni di persone cercare rifugio in paesi confinanti. Nel 2015 una parte relativamente minore di queste persone ha cercato brevemente di farsi strada in Europa, dove – nonostante diffuse iniziative di solidarietà di base – hanno spesso trovato filo spinato, centri di detenzione e un’esplosione di sentimenti anti-immigrazione incitati da anni di miseria indotta dall’austerità in quella che è divenuta nota, in modo controverso, come la “crisi dei profughi” europea.

Circa nello stesso periodo un improvviso scoppio di scontri civili in Ucraina ha portato la Russia e l’occidente sull’orlo di un conflitto violento. Come sostiene convincentementelo storico Adam Tooze, queste tensioni preesistenti nella sfera ex sovietica sono state anche spettacolarmente esacerbate dalla ricaduta economica del crollo del 2008.

Soluzione di una crisi debitoria con altri debiti

Nel frattempo, mentre le conseguenze sociali e politiche della crisi cominciavano a farsi sentire, e l’ordine internazionale postbellico sembrava vacillare dalle fondamenta, le principali banche centrali del mondo – ostinate a salvare la pelle di finanzieri privati e a evitare una replica degli anni ’30 – hanno reagito con un esperimento monetario senza precedenti. Non solo hanno fatto scendere i tassi d’interesse a minimi storici, ma si sono anche imbarcate in un aggressivo programma di “alleggerimento quantitativo” (QE) che avrebbe visto le quattro maggiori banche centrali pompare l’equivalente di 15 trilioni di dollari di denaro fresco nel sistema finanziario globale.

Invece di promuovere l’attività produttiva, tuttavia, è divenuto presto chiaro che tale eccesso di liquidità aveva scatenato una nuova ondata di investimenti speculativi. In conseguenza si sono gonfiiate nuove bolle finanziarie a destra e a manca nel settore immobiliare, in azioni, in prestiti studenteschi e per l’auto, in obbligazioni societarie, in mercati emergenti, dovunque tali investimenti parevano produrre un tasso di rendimento decente. A parte alimentare la più lunga corsa al rialzo della storia del mercato azionario statunitense, il vasto aumento di liquidità globale ha anche alimentato un rinnovato boom di prestiti internazionali che ha fatto sì che il debito globale balzasse al 217 per cento del PIL, il suo livello più elevato, del quaranta per cento superiore alla zona di pericolo raggiunta alla vigilia del crollo del 2007.

In breve, i decisori della politica e i banchieri centrali hanno deciso di risolvere una crisi causato da un debito di gran lunga eccessivo mediante ulteriore debito! In assenza di investimenti produttivi sufficienti questa è sempre stata una ricetta per il disastro.

Gli effetti collaterali non voluti stanno già cominciando a farsi sentire in mercati emergenti quali la Turchia e l’Argentina che si sono pesantemente indebitati in dollari durante il boom alimentato dal QE, lasciandoli particolarmente vulnerabili a uno shock economico esterno. Ora, mentre la Federal Reserve statunitense inverte il suo programma di QE e si prepara ad aumentare i tassi d’interesse, il capitale sta cominciando a rifluire dai mercati emergenti agli Stati Uniti, determinando, nel processo, il rallentamento della crescita del Sud Globale e il rafforzamento del dollaro USA. Se persiste, questa combinazione di crescita in rallentamento, aumento dei tassi d’interesse e dollaro più forte, minerà costantemente la capacità dei debitori dei mercati emergenti di rimborsare i loro debiti denominati in dollari, probabilmente determinando un rinnovato panico tra gli investitori.

Anche se l’economia mondiale sarà probabilmente in grado di far fronte a una serie di crisi isolate dei mercati emergenti, c’è un paese il cui altissimo debito, se dovesse implodere, toglierebbe la terra sotto i piedi alla ripresa globale. Quel paese, ovviamente, è la Cina.

Anche se il debito della Cina è prevalentemente detenuto in ambito nazionale, la sua enorme espansione del credito dell’ultimo decennio deve certamente classificarsi tra le più estreme della storia. Il debito totale è atteso raggiungere il 327 per cento del PIL entro il 2022, raddoppiando il livello del 2008 e piazzando la centrale industriale del capitalismo globale tra le economie più indebitate del mondo. L’esplosione del credito ha alimentato un boom senza precedenti dell’edilizia che ha visto la Cina riversare il 45 per cento di cemento in più nelle sue città in tre anni di quanto ne abbiano consumato gli Stati Uniti nell’intero secolo precedente.

Si è dimostrato un’iniezione di adrenalina per i paesi in via di sviluppo esportatori di materie prime, e certamente ha contribuito a mantenere sui binari il capitalismo globale dopo il 2008. Ma lo stesso boom alimentato dal credito ha anche condotto e enormi eccessi di investimenti, lasciandosi dietro vaste città fantasma e un enorme surplus di capacità produttiva accanto a un gigantesco settore bancario ombra da 10 trilioni di dollari. Alcuni temono che questa “madre di tutte le bolle” possa scoppiare scatenando lungo il percorso un grande cataclisma finanziario.

Disordine globale che si auto rinforza

Anche in assenza di un tale scenario disastroso, tuttavia, la combinazione di un rallentamento della crescita cinese e della fine dello stimolo monetario negli USA sta già cominciando ad avere ripercussioni di vasta portata altrove nel mondo. La ricaduta ha colpito con particolare durezza l’America Latina, provocando la rapida ritirata della sua “Marea rosa” di governi progressisti, di fronte al peggioramento delle condizioni economiche.

Il Brasile, per parte sua, di gran lunga la più vasta economia dell’America Latina, ha recentemente affrontato la sua più grave e più lunga recessione della storia. Tale profondo declino è andato mano nella mano con un’intensa instabilità politica, portando a una “colpo di stato costituzionale” di destra contro la presidente Dilma Rousseff e lasciando l’ex presidente Lula in carcere su accuse di corruzione, costringendolo a ritirarsi dalla corsa alla presidenza dell’anno prossimo. Disordini simili hanno afflitto sia il governo socialista di Maduro in Venezuela, sia il governo neoliberista di Macri in Argentina, evidenziando la natura strutturale della crisi che colpisce paesi vulnerabili indipendentemente dall’orientamento ideologico di quelli al potere.

Il più importante disordine politico di tutti, comunque, è indubbiamente quello che sta scuotendo il vecchio cuore capitalista dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. Qui, dal 2016 in poi, anni di austerità hanno indotto sfiducia, decenni di disuguaglianza determinati da globalizzazione e finanziarizzazione e secoli di celebrato razzismo, nazionalismo e misoginia sono alla fine culminati in un parallelo declino politico senza corrispondenti nella storia postbellica.

Su un lato dell’Atlantico l’ala isolazionista del Partito Conservatore britannico, sempre nostalgica dei gloriosi giorni passati dell’Impero Britannico, sta minacciando di uscire dall’Unione Europea sbattendo la porta senza un appropriato accordo di uscita, rischiando indicibili danni non solo alla propria economia ma anche agli agitati mercati finanziari globali. Forze reazionarie simili stanno compiendo serie incursioni elettorali in tutto il continente, agitando lo spettro di una potenziale disintegrazione della UE.

Sull’altro lato, contemporaneamente, il presidente statunitense Donald Trump pare stia tentando di fare tutto quanto in suo potere per minare la stabilità e la futura vitalità della sua stessa amministrazione. Tuttavia, nonostante la successione apparentemente interminabile di scandali e di controversie, mantiene il controllo del suo profilo Twitter e le redini della politica estera, il che gli consente di aizzare divisioni internazionali e tensioni geopolitiche nel mezzo di una guerra commerciale in aggravamento con la Cina.

L’immensa incertezza generata da questa intensificazione di conflitti politici interni e internazionali sta a sua volta avendo un effetto deprimente sulla ripresa economica globale, che a sua volta è destinato ad alimentare un caos politico ancora maggiore altrove, innescando un circolo vizioso di disordine auto-rinforzante.

Uno spazio non immaginato per la politica

In breve, la tempesta globale di fuoco scatenata dal collasso della Lehman Brothers dieci anni fa non si è assolutamente spenta. Non solo le conseguenze del crollo finanziario sono tuttora oggi tra noi sotto forma di disuguaglianza in aggravamento, debito crescente e paralizzante instabilità politica, ma la crisi del capitalismo stesso persiste e continua a provocare disastri in tutto il globo, cambiando costantemente forma mentre si fa strada da un disordine a un altro.

Fortunatamente, tuttavia, non tutti i cambiamenti sociali e politici dal 2008 sono stati in peggio. La stessa dinamica destabilizzante che ha dato al mondo Trump e la Brexit ha anche aperto uno spazio in precedenza non immaginato per la politica, che include un genere differente di politica impegnato a un’alternativa radicalmente democratica e veramente emancipatoria al disordine globale presente.

Questa nuova politica radicale ha mostrato per la prima volta il suo volto nelle rivolte globali che hanno scosso l’ordine stabilito dal 2011 in poi. Ha recentemente cominciato a consolidarsi sotto forma di vivaci movimenti di base, formazioni politiche progressiste e candidature esplicitamente socialiste che cercano collettivamente di sfidare dal basso il potere e i privilegi incontrastati dell’”uno per cento”.

Persino nel mezzo della guerra civile siriana, il conflitto più sanguinoso e intrattabile emerso all’ombra della Grande Recessione in una regione così spesso privata di speranze di un futuro migliore, la lotta per l’autonomia democratica da parte dei curdi e dei loro alleati ha dimostrato le possibilità concrete di un progetto politico rivoluzionario in questi tempi tumultuosi.

A questo punto è ancora troppo presto per dire se questa politica anticapitalista emergente del ventunesimo secolo sarà in grado di avere successo di fronte a un potente contrattacco nazionalista. Ma se gli eventi spettacolari dal 2016 non sono qualcosa da ignorare, la ricaduta politica della crisi finanziaria globale sta solo cominciando. Il vero confronto, pare, deve ancora arrivare.

Jerome Roos è borsista in economia politica internazionale presso la London School of Economics e fondatore della rivista ROAR. Il suo primo libro, “Why Not Default? The Political Economy of Sovereign Debt” sta per essere pubblicato dalla Princeton University Press.

 

Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/crisis-of-global-capitalism-never-really-ended/

Originale: Roarmag.org

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2018 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.

 

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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