Maria Giulia Bernardini

Nell’attuale situazione di emergenza, la “cura” sta acquistando una visibilità finora forse inedita, probabilmente anche in ragione del fatto che, pur su fronti spesso contrapposti, tale parola appartiene ormai in modo stabile al lessico impiegato tanto dalle istituzioni e dagli organi di informazione, quanto dalla società civile.

Alla cura ci si è richiamati, infatti, per indicare il maxi-decreto di marzo diretto a fronteggiare l’emergenza Covid-19, conosciuto appunto come “Decreto Cura Italia”, nonché per denunciare la mancanza o l’insufficienza dell’attenzione istituzionale ai soggetti e ai luoghi della cura. Ancora, si appellano alla cura coloro che vedono nella crisi pandemica un’opportunità e per i quali (più spesso, le quali) la riscoperta dell’ontologia vulnerabile e relazionale potrebbe finalmente portare alla fondazione di un nuovo ordine socio-politico, al cui interno la cura acquista appunto una rinnovata centralità. Un ordine che, per tale ragione, pare potersi configurare in modo più inclusivo ed essere in grado di garantire una maggiore giustizia sociale.

In altri termini, sembra che in questi giorni si stia diffondendo una maggiore consapevolezza relativa all’attitudine generativa e rigenerativa della cura, sovente lasciata ai margini del dibattito pubblico e  oggetto di interesse principalmente da parte di una certa letteratura femminista, tra l’altro non di rado guardata con sospetto anche all’interno del pensiero femminista stesso, a causa degli esiti essenzialistici e differenzialisti cui, soprattutto in un passato, tale riflessione è sembrata giungere.

La situazione emergenziale che stiamo vivendo funziona dunque come amplificatore di una serie di questioni che sono già ampiamente conosciute – relative alla condizione di esclusione, discriminazione ed oppressione dei soggetti cui di norma ci si appella, oltre che attraverso il riferimento alla cura, anche evocando la controversa nozione di “vulnerabilità” – e che vengono esacerbate nel contesto attuale.

Una lettura trasversale dei vari dibattiti che hanno luogo in questa condizione emergenziale ripropone innanzitutto la centralità dell’intreccio tra la le due dimensioni coessenziali alla cura: il suo essere al contempo una condizione primaria dell’esistenza (si pensi alle riflessioni heideggeriane relative al mito di Cura) ed una specifica pratica che l’individuo rivolge certamente a se stesso (il richiamo è all’ampia trattazione foucaultiana della cura di sé), ma che assume un rilievo peculiare soprattutto ove declinata nella sua dimensione intersoggettiva. In ciascuna di tali declinazioni, la cura richiama necessariamente tanto la responsabilità individuale, quanto quella socio-istituzionale. Ed è su quest’ultimo aspetto che pare imprescindibile soffermarsi, seppur rapidamente, proprio a partire dai presupposti appena esplicitati: la forzatura dei confini tra pubblico e privato, unita alla loro politicizzazione, consente infatti di ricollocare alcuni temi tradizionalmente considerati privati – come appunto quelli connessi alla cura – all’interno del quadro politico-istituzionale, risignificandoli nell’ottica della tutela dei diritti e richiamando altresì l’attenzione sulla necessità che le istituzioni adottino un atteggiamento responsive.

In quest’ottica, “ripartire dalla cura” significa ad esempio riflettere sugli effetti che tanto l’emergenza quanto le misure pensate per farvi fronte finiscono per produrre sulle famiglie e, in particolare, sulla vita delle donne. Oramai, che la pandemia possa portare ad un pericoloso arretramento nella tutela dei diritti delle donne e ad un correlato aumento della loro esclusione sociale appare sempre più non un timore, ma una vera e propria certezza. Infatti, se è vero che le misure di contenimento hanno consegnato ciascuno alla sfera privata in ossequio ai dettami del lockdown, è però altrettanto vero che sarebbe fuorviante leggere questo confinamento in termini neutri: esso produce piuttosto un impatto differenziale, che si rivela appunto fortemente sperequativo nei confronti delle donne. La manifestazione forse più drammatica di tale differente posizionamento è da rinvenirsi nell’aumento esponenziale del tasso di violenza domestica, che rivela solo una delle semplificazioni concettuali cui ha dato luogo l’impiego acritico del noto hashtag #iorestoacasa. Riproporre la centralità della cura permette però di leggere anche le dinamiche cui dà luogo la presenza dell’ideale patriarcale relativo alla naturale propensione delle donne al materno e che, nell’ottica patriarcale, induce queste ultime a scegliere di dedicarsi all’adempimento delle attività di assistenza non retribuite, preferendole al lavoro retribuito.

Tale convincimento pare implicito, in primo luogo, nella scelta di chiudere asili, nidi, scuole per l’infanzia senza fornire soluzioni alternative: è accaduto nella prima fase della gestione dell’emergenza e solo pochi giorni fa sembra che si siano aperti spiragli sull’apertura di tali strutture a partire da giugno, in via sperimentale. Per gli istituti scolastici, come è noto, sono allo studio linee guida nazionali dirette a consentire una ripartenza da settembre, sempre secondo modalità contingentate.

Ebbene, appare evidente come la sospensione dei servizi per l’infanzia decisa dal Governo italiano non abbia in alcun modo eliminato l’esigenza di far fronte al carico di cura, ma lo abbia spostato sulle famiglie e, al loro interno, soprattutto sulle donne. Sono queste ultime che, a causa della “propensione alla cura” che la concezione patriarcale presume loro connaturata, si trovano divise tra l’accudimento dei figli e delle altre persone in condizione di dipendenza che compongono il nucleo familiare, come molti anziani. Parimenti, sono principalmente le donne a fornire il proprio supporto ai figli nello svolgimento delle attività scolastiche da remoto; per di più, la maggior parte di loro è anche gravata dall’inevitabile aumento del carico di lavoro domestico (un discorso ulteriore dovrebbe poi essere fatto per la specifica condizione di colf e badanti, che può essere colta attraverso un approccio intersezionale).

Questo sovraccarico produce una serie di conseguenze che, globalmente considerate, porteranno verosimilmente all’aumento del gender gap già esistente in ambito lavorativo, qualora nella gestione dell’emergenza non si introducano efficaci misure volte alla riduzione delle diseguaglianze. Non paiono esserlo, ad esempio, né la proposta di allungare il congedo parentale di 15 giorni, né l’incremento del “bonus baby sitter”: nel primo caso, molte persone hanno già interamente usufruito del congedo; nel secondo, le somme stanziate non consentono comunque di coprire il lasso di tempo corrispondente allo svolgimento di un’attività lavorativa al di fuori delle mura domestiche.

Sulla difficoltà di conciliare la produttività lavorativa con il lavoro domestico di riproduzione si è brillantemente soffermata Alessandra Minello in un articolo relativo alla sua esperienza di ricercatrice accademica in tempo di Covid-19, pubblicato sulla rivista Nature e diventato ormai virale[1]. Al di fuori dalla specificità del caso, che comunque induce a riflessioni di carattere più ampio, relative – oltre che alla conciliazione, anche – alle sperequazioni che, soprattutto nel medio-lungo periodo, si produrranno in termini di avanzamento di carriera, la messa a tema del lavoro femminile consente di affrontare anche questioni ulteriori. In Italia, infatti, il fenomeno della diseguaglianza di genere è assai marcato anche in relazione all’accesso stesso al mercato lavoro: il tasso di occupazione femminile è il più basso rispetto agli altri Paesi europei (49,5%), le donne sono occupate in settori meno retribuiti, hanno contratti meno garantiti, scelgono più di frequente rispetto agli uomini il part-time (lascio da parte, in questa sede, ogni considerazione relativa alle condizioni che inducono a tale scelta). Già nelle condizioni ordinarie, il lavoro delle donne (in Italia, ma non solo) assume dunque minor valore, e quello di cura non viene considerato come aggregato dell’economia.

L’avvento della pandemia sembra allora esacerbare quasi inevitabilmente tale situazione: nell’insufficienza di rete di servizi o, quantomeno, di misure che alleggeriscano il carico di cura (che formalmente è familiare, ma fattualmente grava, come è noto, sulle donne), è ragionevole pensare che, qualora sia necessario stare a casa per seguire i figli, la scelta economicamente più vantaggiosa per la famiglia porterà più di frequente la donna a rinunciare allo svolgimento della propria attività lavorativa. Sarà così riconsegnata ad un “privato” che, scongiurata l’emergenza pandemica, rischia di chiuderla nuovamente nel ruolo di angelo del focolare dal quale decenni di lotte per i diritti avevano contribuito, seppur a fatica, ad affrancarla.

Un’altra lettura è possibile?  Porre (o, meglio, riproporre) la cura al centro del dibattito pubblico, utilizzandola come argomento politico, secondo il noto insegnamento di Joan Tronto, può forse essere una strada percorribile per costruire quel “nuovo ordine” – di cui molte e molti in questi mesi hanno rivelato di sentire la pressante necessità – che assume davvero come prioritaria la riduzione delle asimmetrie di potere e la tutela dei diritti di tutte e tutti.


[1] https://www.nature.com/articles/d41586-020-01135-9

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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