La lunga storia della voglia di privatizzazione dell’acqua pubblica, dell’acqua come bene comune, come diritto veramente naturale per tutte e per tutti, non può finire nella quotazione in borsa della medesima. Siamo all’apoteosi dell’appropriazione indebita, dello sfruttamento di ogni elemento fondante la vita stessa tanto di noi animali umani quanto degli altri animali e di tutto l’ecosistema che si nutre di acqua, che dall’acqua proviene e grazie alla quale continua a vivere e sopravvivere.

Ci sono ancora oltre tre miliardi di persone al mondo che vivono in paesi dove l’accesso all’aqua è ostacolato, oltre che da fenomeni palesemente naturali, da una politica di impossessamento delle fonti da parte di aziende multinazionali che sono peggio della calura equatoriale, del deserto che avanza e dei pozzi e dei fiumi che si prosciugano.

Praticamente, al mondo una persona su tre rischia quotidianamente di non trovare l’acqua sufficiente per idratarsi, per lavarsi, per fare da mangiare, per irrigare i campi, per far funzionare piccole attività commerciali, per garantire i più elementari servizi sanitari.

Si dice che dall’esperienza del Covid-19 avremmo dovuto imparare qualcosa, uscirne migliori: dolci illusioni, perché nel corso del biennio pandemico, pur avendo visto quanto ci è stata utile l’acqua, anche solamente per il lavaggio più frequente delle mani, le mosse del governo sono andate tutte quante nella direzione di una linea privatizzatrice che permea tutto il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR).

Non possiamo chiedere a liberisti e amici del sistema capitalistico di diventare all’improvviso ciò che non possono essere, perché consapevoli del loro ruolo, aderente alle loro convinzioni di tutela dei privilegi con l’impossibile simbiosi del rispetto dei beni comuni, devono spingersi sempre più all’espansione del mercato: per l’appunto la mercificazione di tutto ciò che è universalmente necessario per poter vivere è il migliore degli affari globali, su vasta scala appunto.

Non c’è migliore prospettiva di totalizzazione di ingenti profitti, molto più certa di tante altre fette di mercato, se non quella dello sfruttamento delle risorse naturali. Non sono infinite, è vero, ma permettono di ragionare in termini di concorrenza e di stabilizzazione dei propri investimenti su un così lungo termine da oltrepassare la vita singola di ognuno di noi, capitalisti compresi, stagioni politiche dei singoli Stati comprese.

Acqua, suolo, ambiente, animali, mare, foreste: il pianeta viene messo a disposizione dell’antropocentrismo più esasperato che, nella sua declinazione capitalistica, è acquisizione delle risorse naturali per scopi privati unitamente a finti scopi sociali. Chi imbottiglia acqua minerale non la produce: la sottrae alla comunità, la rende proprietà privata e la utilizza per arricchirsi due volte: sfruttando la fonte di cui si è impadronito e sfruttando la forza-lavoro di chi lavora nelle aziende.

Per questo è corretto parlare di “apogeo del liberismo” quando si tratta il tema dell’acqua come bene comune, quando si discute di qualunque altra risorsa della natura che, invece di essere condivisa, viene espropriata alla comunità da chi ha la proprietà privata dei mezzi di produzione. La quotazione in borsa dell’acqua è la punta estrema di una prepotenza economica che sopravanza tutto, che perpetua le millenarie “tradizioni” che attribuiscono all’animale umano il diritto che si é dato di dominare sulla natura, di fare della Terra il “proprio” pianeta, escludendone tutti gli altri animali non umani e facendo di loro degli esseri viventi al servizio della specie “eletta“.

Economia e morale non si possono incontrare: fanno a pugni da sempre, perché la morale è regolatrice e l’economia ha regole che, oltre ogni criterio di buon senso, non conoscono la giustizia, perché sono intrinsecamente diseguali. Per questo il movimento per l’acqua bene comune deve richiamarsi ad una lotta duplice: sul piano politico, per limitare il più possibile i danni del liberismo rappresentato dalle forze politiche di governo (ed anche di opposizione) in ogni livello istituzionale; sul piano della coscienza sociale, della consapevolezza civica e anche morale che è anzitutto costruzione di una nuova visione dell’esistente, del limitrofo nostro e della nostra collocazione in questa vita terrestre.

Una politica ambientalista degna di questo nome non può sposare le ragioni del mercato, della sola liberazione del genere umano dalla schiavitù che si è autoimposto mediante lo sviluppo dell’economia capitalistica, privatizzatrice e proprietaria. Una vera politica ambientalista e per la tutela di tutti i beni comuni, deve abbracciare una critica antispecista che include anche l’antirazzismo tra noi umani, che però va oltre, che scavalca la ristretta visione antropocentrica anche quando si tratta di rivendicare i diritti per tutte e per tutti.

Il diritto all’accesso all’acqua non può riguardare solamente noi animali umani: questa lotta deve essere fatta in nome e per conto di tutti quegli esseri viventi, vegetali compresi (anche se non senzienti), che hanno ragione di esistere in virtù della loro esistenza. Niente di più, ma anche niente di meno.

Ogni lotta per l’emancipazione umana da questo sistema, che produce l’immane quantità di merci ben descritta da Marx, sarà parziale e insufficiente se ambientalismo, socialismo e comunismo libertario non si renderanno pienamente conto, come movimenti di liberazione, che certe conquiste si potranno anche ottenere ma non si finirà mai per escludere una coazione a ripetere gli errori del passato, le tendenze a marginalizzare l’interesse comune per riproporre quello esclusivista e singolare, padronale e impositivo.

E’ evidente (almeno dovrebbe esserlo) che, essendo il capitalismo un fenomeno tutto umano, stravolgere i rapporti di forza entro la (dis)umanità è il primo passo per raggiungere obiettivi su vasta scale e che non si limitino a questa o quella zona del pianeta ma che estrinsechino chiaramente la loro determinazione a diffondersi su tutto il globo: una globalizzazione antispecista, antiliberista e comunista al posto di quella antropocentrica, liberista e capitalista.

Da una parte o dall’altra: non c’è compromesso possibile per inizare oggi a riportare l’acqua tra i beni naturalmente comuni e farne una lotta antesignana di una vera rivoluzione mondiale che è l’unica speranza di salvare, molto semplicemente, la casa in cui viviamo. Tutte e tutti: noi e gli animali non umani. Noi, loro e tutto il regno delle piante.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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