Un partito stanco e malato Inizia oggi l’XI Congresso nazionale di Rifondazione Comunista. Un partito ormai sconosciuto alla maggior parte della popolazione italiana e che, nonostante compia 30 anni…

Un partito stanco e malato
Inizia oggi l’XI Congresso nazionale di Rifondazione Comunista. Un partito ormai sconosciuto alla maggior parte della popolazione italiana e che, nonostante compia 30 anni di vita proprio in questo disgraziato 2021, si è trovato a vivere una vecchiaia prematura, molto poco saggia e troppo circondata da una retrocessione culturale, ideale ed ideologica che è figlia di una progressiva spinta conservatrice di cui le forze economiche liberiste sono le genitrici e di cui, invece, i partiti liberali (più propriamente definibili “liberisti“) sono i più prossimi esecutori nell’ambito istituzionale e di governo.

Rifondazione Comunista, nonostante la sua senescenza anzitempo, nonostante le ossa rotte dalle scissioni, la muscolatura cedevole per l’espulsione dal Parlamento oltre tredici anni fa, dopo la consunzione patita tornata elettorale dopo tornata elettorale, momenti a cui si è aggrappata con una disperazione insana e completamente illusoria, rimane ad oggi ciò che di meglio organizzato esiste nella cosiddetta area “a sinistra del PD“.

Che si debba ogni volta prendere a riferimento i democratici per significare il piccolo campo in cui si trovano le monadi della sinistra moderata e di alternativa, è emblematico e ci dice che una vera autonomia mentale, una indipendenza cultural-politica dalla teorizzazione del “meno peggio” non esiste e che, a corrente alternata, anche Rifondazione Comunista resta tentata dal partecipare alla riesumazione del progressismo attraverso un rapporto dialettico con l’anomalo bicefalo tutto italiano: quella convergenza a suo tempo tra socialdemocratici, eredi eretici ed impropri del PCI, e i popolari sommati ad ex repubblicani, socialisti e liberali, eredi altrettanto impropri ma molto meno eretici della Balena bianca.

Questa indipendenza culturale, politica e sociale che non solo Rifondazione Comunista dovrebbe continuare a cercare, rimane ad oggi l’elemento più prezioso che si può riconoscere nel definire un metodo di lavoro tanto partitico, organizzativo e riflettente (in tutti i sensi) nella grande e terribile quotidianità di un mondo del lavoro e del disagio sociale più esteso: un disagio in balia del ribellismo autarchico, che non comprende nessuna internazionalizzazione delle lotte e che parcellizza le proteste, separa i lavoratori, li settorializza e li mette gli uni contro gli altri a seconda delle italiche latitudini e longitudini, del colore della pelle o della fede religiosa.

I moderni proletari del 2021, coloro che sopravvivono del loro lavoro, della loro disoccupazione, della loro precarietà e del moderno schiavismo dai campi di arance a quelli di pomodori del Sud del Paese, compongono e scompongono una unità di classe che viene subordinata – persino dai sindacati di base – ad una lotta preterintenzionale sul Green pass, facendo del certificato verde un elemento indubbiamente aggregante ma, oggettivamente, molto poco riconducibile ad un inizio di una più larga visione nel merito della condizione di sfruttamento che si patisce e si subisce.

Ma la lotta contro il Green pass, che rimane una misura ricca di contraddizioni, non libera le coscienze sociali dentro quelle individuali: spinge invece i lavoratori, i giovani, persino gli studenti a riconoscersi tra loro, come appartenenti allo stesso mondo, non in virtù dello sfruttamento padronale ma della divisione ormai volutamente esagerata ed esasperata tra vaccinisti e anti-vaccinisti e diventa un utile strumento di alterazione della percezione classista.

Una nuova stagione evolutiva
L’XI Congresso nazionale di Rifondazione Comunista, dunque, si colloca in questa difficile fase di transizione dall’esplosione della pandemia ad un post-Covid che lascia intravedere le linee guida delle politiche liberiste attraverso lo scorrere dei numeri del PNRR, la vera grande rivoluzione liberista del nostro tempo. In questo frangente, l’Europa e le grandi centrali del capitale internazionale dispongono nuove limitazioni ad un peraltro improbabile allargamento delle maglie di uno stato-sociale che sarebbe invece necessario per attutire gli effetti negativi della crisi scatenata dal coronavirus.

Per un partito che vuole ancora essere comunista, quindi convintamente anticapitalista, serve una nuova stagione evolutiva: ciò che abbiamo alle nostre spalle ci serve come tratto storico-politico per evitare qualunque coazione a ripetere errori che si sono dimostrati fatali per la presenza in Italia di una forza indipendente dagli schieramenti fedeli all’economia di mercato ed alla declinazione liberista del moderno capitalismo globalizzato.

Questa stagione evolutiva non si può aprire rilanciando ciò che oggi mostra i segni di una decrepitezza incontrovertibile: con noi ci sono pochi, energici giovani che si spendono ogni giorno per un sogno che rischia di essere mortificato anche nelle minime aspettative se non rifonderemo la Rifondazione che abbiamo conosciuto. Magari superandola, pensando in grande, avendo anche enormi obiettivi ma restando saldamente con i piedi per terra e misurando i rapporti di forza tra le classi senza abbandonarci alla speranzosa disperazione del governismo a tutti i costi, proprio del moderatismo liberal-socialista di Articolo Uno o del socialismo di sinistra di Fratoianni e compagni.

Superare non vuol dire cancellare una storia, né un aggettivo e nemmeno un nome. Ma se vogliamo bene a ciò che Rifondazione Comunista ha rappresentato in questi trenta faticosi, eppure straordinari anni, ci tocca di riunire la comunità attorno ad un nuovo progetto politico e organizzativo: con lo stesso sogno, con la stessa voglia di rovesciare il sistema di produzione capitalistico, di lottare per l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, per una società dove la cifra dell’uguaglianza sia non solo umana ma a misura di tutti gli esseri viventi e l’antirazzismo si elevi ad antispecismo.

Dobbiamo avere radici solide e ali nuove per guardare meglio ciò che ci sta intorno, sapendo che la sinistra di alternativa non va “riconsolidata” o “ridefinita“, ma pensata e costruita ripartendo da zero, facendo tabula rasa di contraddizioni che sono prima di tutto sociali e che noi non sappiamo interpretare adeguatamente.

La crisi verticale che ha investito la sinistra comunista non le è propria, non è una sua esclusiva. Sarebbe tutto molto più semplice se fosse così: ci saremmo guardati allo specchio e avremmo saputo (forse) riconoscere ciò che non andava in noi. Abbiamo fatto delle ottime autocritiche, flegellandoci ripetutamente e pentendoci per i nostri errori. Ma poi non siamo riusciti a darci una collocazione precisa dentro la crisi strutturale del sistema e dentro la altrettanto strutturale ma del tutto inaspettata tempesta perfetta del coronavirus.

Se già ben prima del biennio pandemico esistevano i presupposti per una rifondazione della “rifondazione comunista” (come processo storico e attuale dell’aggiornamento del movimento anticapitalista in Italia), oggi questi sono ancora più marcatamente evidenti e ci richiamano ad una repentinità che non può scadere nella fretta, ma nell’urgenza di un adeguamento delle ragioni sociali e civili di uguaglianza di tutti gli esseri viventi alle nostre teorie, alle nostre analisi e alle nostro proposte politiche verso una massa di sfruttati che, nella maggiora parte dei casi, non si riconosce come tale.

Il contesto sociale
Ogni giorno le morti sul lavoro crescono di numero ma, a parte comunicati stampa di condanna e scioperi di qualche ora dei sindacati, queste tragedie si ripetono e mostrano una strutturazione quasi endemica, parte di un processo produttivo malato, dove la sicurezza nelle fabbriche, nei cantieri e in ogni luogo è e rimane legata a standard sorpassati e, comunque, disattesa dai controlli, visto che negli ispettorati del lavoro mancano proprio i controllori, mancano proprio gli ispettori.

Noi denunciamo tutto questo e lo facciamo anche con dovizia di particolari, cercando di mostrare una vicinanza empatica ad un mondo che ci è caro perché rappresenta la punta più avanzata della trasformazione sociale, del sovvertimento dell’ordine economico dominante. Ma poi nessuna di queste prese di posizione si concretizza in una organizzazione della lotta nei luoghi di lavoro: non esistono più coordinamenti di lavoratrici e lavoratori comunisti. Il tempo delle “cellule di fabbrica” è lontano, perché è radicalmente cambiata la gestione e la strutturazione del processo produttivo che, tuttavia, segue sempre le identiche leggi di formazione del capitale.

L’alta finanza fa profitti con pochi clic: lo sfruttamento della forza lavoro è solo una parte di una complessità economica che investe il sociale, ma che è diventata profondamente impersonale. Le grandi multinazionali che vendono sul web ogni sorta di merce tagliano innumerevoli costi partendo dalla loro presenza su Internet, senza negozi e siti produttivi o di vendita tanto al dettaglio quanto all’ingrosso. Lo sfruttamento dei lavoratori, in queste nuove centrali di valorizzazione padronale del plusvalore, lo ha descritto meglio Ken Loach rispetto a tanti intellettuali di sinistra e tante tesi congressuali cacofonicamente ripetitive.

La Sinistra Europea, in questo quadro, può rappresentare un coagulante, un punto di riferimento per scrutarsi, per osservarsi e per discutere di una unità delle lotte sul piano continentale. Volenti o nolenti, l’Europa, se non verrà meno sotto le preoccupanti spinte sovraniste e clerico-fasciste dei Paesi di Visegrad (la tensione tra Varsavia e Bruxelles ne è un prologo), è un continente che non può essere lasciato ad un destino meramente economico e finanziario: può trasformarsi in una alleanza di popoli, molto diversi tra loro, che si uniscano per difendere interessi comuni, per fronteggiare le élite che si radunano attorno ai dettami della BCE e, oltreoceano, della Banca Mondiale, del FMI e dell’OCSE.

Un nuovo rapporto dialettico
Nel 1864, scrivendo all’Associazione Internazionale dei lavoratori, Marx si esprimeva così: «I lavoratori possiedono un elemento di successo: il numero; ma il numero non pesa sulla bilancia se non quando è unito in collettività ed è guidato dalla conoscenza». L’unità non serve se non la si corrobora con una piena consapevolezza di ciò per cui si lotta e, quindi, di ciò che si rappresenta come esseri umani in un contesto anti-sociale che ci include nelle più differenti forme. Per questo abbiamo fallito molte volte in questi decenni: perché il nostro pragmatismo, la nostra aderenza al principio di precauzione sul ritorno delle destre ha finito con il rivelarsi più idealistico di qualunque vero idealismo.

Non siamo riusciti a coniugare, al tempo stesso, lotta sociale e lotta politica ed abbiamo rincorso la seconda senza avere più riferimenti certi nel mondo del lavoro, in quello della scuola e nelle grandi fasce suburbane, in quelle enormi periferie che sono la corona di spine delle nostre città e che diventano il paradigma della sconfitta tanto di un capitalismo presuntuoso e spietato, quanto di un riscatto sociale impossibile da mettere in pratica con un partito che sia nuovamente un “paese nel paese“.

Non tutta la storia di Rifondazione Comunista è ascrivibile a sconfitte e fallimenti: anzi, per dare a Cesare ciò che è di Cesare e al PRC ciò che è del PRC, possiamo affermare che senza i comunisti, dopo il 1989 in Italia sarebbe mancata veramente una sinistra degna di questo nome e una tensione sociale che altrimenti avrebbe permesso alla recrudescenza padronale di farsi avanti ben prima e di destrutturare ancora più violentemente i residui contrattuali nazionali e lo stato-sociale costruito guardando ai modelli dell’Est e alle socialdemocrazie scandinave.

Rifondazione Comunista non merita, proprio per questo, una consunzione lenta e inesorabile. Merita di essere valorizzata per quel che ancora può dare: le compagne e i compagni che ne fanno parte possono mettersi a disposizione di un progetto uguale e nuovo, ambizioso nella prospettiva ma non umile nel medio e breve termine. Serve quella “consapevolezza” che Marx chiedeva ai proletari ottocenteschi: una coscienza civile, sociale e per questo un rinnovamento culturale di vasta portata.

Dovremmo pensare al comunismo come ad un movimento veramente dialettico, capace di mettersi in discussione e di essere più grande del piccolo recinto in cui ci siamo asserragliati per lo spavento che – umanamente è comprensibile – ci procura il cambiamento. Ma proprio noi comunisti non possiamo trascendere da una storia pluricentenaria che è potuta essere tale grazie ad una resilienza, ad una capacità di adattamento che non è mai stata servile, acquiescente e compromissoria. Questi semmai sono tratti caratteristici del moderatismo riformista, delle teorizzazioni del cambiamento a piccoli passi, della via parlamentare alla rivoluzione e al capovolgimento del sistema.

Siamo ben lontani dal sognare una rivoluzione. Almeno romanticamente intesa, rivista con gli occhi della disperazione del proletariato di inizio del “secolo breve“. Eppure, se ancora ci sono le ragioni per lottare per una società e un pianeta dove l’uguaglianza sia riconoscibile per e tra tutti gli esseri viventi, queste sono le ragioni dell’anticapitalismo, visto che il capitale porta alla distruzione di ogni risorsa primaria, di ogni società, di ogni ambiente e di ogni ecosistema.

Non facciamoci mettere ancora a lungo nell’angolo. Usciamo noi, riscoprendo la bellezza della passione per una lotta che è e può essere una delle più entusiasmanti ragioni di vita.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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