Benedetta Sabene 

Nonostante sia sempre stata una di quelle bambine che decapitava le Barbie e si dilettava a trasformarle in punk abbestia insieme ai propri fratelli maschi, ho deciso di andare a vedere il film a seguito dei post che lo hanno accolto come un capolavoro di femminismo, critica al patriarcato e decostruzione.

Che dire? “Barbie” sarebbe stata una commedia irriverente, simpatica, tutto sommato godibile, che prende finalmente in giro gli uomini, che strappa una risata e persino qualche riflessione, anche poco complessa, e va bene così. Nessuno si aspetta Rosa Luxemburg da Barbie.

Il problema è che Barbie si è presa (ed è stata presa) davvero troppo sul serio.

Il film poteva limitarsi ad essere una simpatica commedia irriverente e invece si è trasformato in un’insalata di retorica alla Chiara Ferragni del “se vuoi puoi”, su quanto noi donne non ci sentiamo mai “abbastanza”, per poi finire con un melenso dialogo su quanto le madri amino le proprie figlie tra Ruth Handler, la storica creatrice di Barbie, e la bambola.

Insomma, il risultato è un polpettone: pink washing a tutto spiano, un po’ di commedia, critica spicciola al patriarcato e riflessioni pseudo-femministe all’acqua di rose che in confronto Freeda ha la stessa profondità dialettica di Carla Lonzi.

La multinazionale Mattel ha fatto un’operazione di marketing geniale: ha dato una spolverata sbrilluccicosa di femminismo ad una bambola che rappresentava da sempre lo stereotipo tossico di donna perfetta.

Un femminismo all’americana assolutamente innocuo, sorridente, non conflittuale, che fattura miliardi con le magliettine brandizzate e che mette d’accordo tutti. Una perfetta operazione di marketing feminism-friendly, da non prendere così tanto sul serio

Di Red

„Per ottenere un cambiamento radicale bisogna avere il coraggio d'inventare l'avvenire. Noi dobbiamo osare inventare l'avvenire.“ — Thomas Sankara

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