L’idea di una lista per le elezioni europee del 2024 con al centro il tema della pace (e della guerra) è, dal punto di vista della stretta attualità dei fatti, molto interessante su cui occorre riflettere per cercare di capire quanto può essere politicamente, socialmente e culturalmente attrattiva.

Se, infatti, si vuole dare vita – come propongono Michele Santoro, Raniero La Valle e altri giornalisti e intellettuali – ad un luogo, ad un momento, ad un punto preciso attorno a cui ruotino le istanze che spingono per una soluzione diplomatica di una guerra che ha già provocato oltre mezzo milione di vittime in un anno e poco più, che ha causato migrazioni non di poco conto e che continua e rischia di avere una pericolosa escalation, è opportuno interrogarsi su quanto oggi la proposta pacifista sia al centro delle preoccupazioni popolari.

In sostanza, se si facesse una lista “arcobaleno” (tralasciando qualunque paragone con “la Sinistra l’Arcobaleno” del 2008 per ovvie ragioni di lontananza sia di composizione politica sia di quadro complessivo dello scenario attuale dei rapporti di forza tra centro, destra, sinistra, ecc.), quanti sarebbero gli italiani disposti a seguire questo progetto nelle urne dando alla pace la priorità su tutti gli altri problemi che ci affliggono?

Questa è la domanda brutale ma necessaria.

Andrebbe spiegato, senza ombra di dubbio, che attorno alla questione della guerra in Ucraina ruota tutta una economia che si è convertita allo sforzo bellico e che, quindi, sta impoverendo gli investimenti sul sociale a tutto vantaggio dell’industria delle armi, degli equipaggiamenti, della formazione e dell’addestramento delle truppe e che, ormai dall’inizio del conflitto, ci siamo anche noi come Paese adeguati all’imperativo categorico della NATO sul 2% del PIL annuo da investire appunto in questa direzione.

Distraendo in questo modo tutta una serie di risorse che, pur avendo seri dubbi dalla loro eventuale collocazione su capitoli di spesa pubblica e sociale, vista l’impronta liberista del governo delle estreme destre meloniane e salviniane, almeno in teoria dovrebbero essere date a settori dove oggi è carente l’intervento dello Stato e dove dovrebbero essere potenziati i servizi che riguardano la salute, l’istruzione, le garanzie salariali, pensionistiche e tutta una sequela di servizi sempre pubblici non di poco conto.

I sondaggi, ma non solo loro, ci dicono che più della metà degli italiani è contraria all’invio delle armi in Ucraina. E non da oggi, ma a far data dall’inizio della guerra.

Una contrarietà supportata da un ragionamento che è tutto tranne che disfattismo o complicità con il nemico che, si intende, per l’Occidente atlantista e filoamericano, è la Russia o chiunque la sostenga: fornire le armi sempre più pesanti, sempre più a lungo raggio, ed ora prospettare anche l’invio dei caccia F16 significa qualcosa di più del sostenere la cosiddetta “resistenza ucraina“.

Significa impedire alla guerra di fermarsi. Chi ha sempre sostenuto che dando armi a Kiev il conflitto si sarebbe risolto, oggi fa i conti con una crudissima realtà: la controffensiva è fallita, il fronte è, salvo qualche scaramuccia che porta la linea dei combattimenti oggi avanti per gli ucraini e domani per i russi, stabile e con l’arrivo dell’autunno la nuova armata meridionale che Mosca sta costituendo nei dintorni di Melitopol muoverà su più direttrici per sfondare nuovamente a nord e magari anche ad ovest.

La guerra, quindi, nonostante l’enorme appoggio dato “per procura” dagli Stati Uniti d’America, dalla NATO nella sua interezza e, pertanto, anche dall’Italia, è ad un punto se non morto quanto meno fermo.

I proclami di entrambe le parti lasciano poco spazio a soluzioni di carattere diplomatico: Putin al vertice dei BRICS prima elogia lo sforzo bellico russo e poi parla di possibilità di pace. Allo stesso modo Zelens’kyj fa della resistenza ucraina una cerniera tra il suo paese e i futuri nuovi assetti dell’imperialismo occidentale: adesione alla UE e alla NATO come contropartita per aver ostacolato l’altro imperialismo.

Gli italiani si sono resi, almeno nella grande maggioranza che si affida ad una critica democratica, laicamente costituzionale della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, che l’invio delle armi non fa che alimentare il conflitto. La voce di papa Francesco ha implementato questo convincimento di buon senso, profondamente umano e quindi volto a rafforzare la cooperazione tra i popoli, piuttosto che a dividerli in campi di contesa su terreni tutt’altro che utili alla vita comune.

Ma questa coscienza diplomatica, pacifica, magari anche tendenzialmente antimilitarista, può tradursi nello specifico in un voto per una lista che si richiami quasi esclusivamente al pacifismo come elemento fondante di un programma più generale e complesso che riguardi anche i tanti temi controversi della nostra quotidianità?

Non si tratta soltanto di misurare l’asticella dei possibili votanti. Si tratta, semmai, di cercare di interpretare i bisogni sociali e di fare in modo che una lista progressista non metta in secondo piano le esigenze primarie della sopravvivenza di milioni e milioni di cittadini costretti ad una retrocessione economica che si riversa primariamente sulle loro tasche e sul loro tenore di vita giorno dopo giorno.

La lista arcobaleno che Santoro e La Valle intendono promuovere, se farà della pace il collante per tutte le altre grandi problematiche del nostro tempo, allora potrebbe diventare un minimo comune denominatore da cui far dipendere il dialogo interpartitico e, soprattutto, interpolitico: tra culture ed approcci anche molto differenti sul tema della guerra e del ruolo dell’Italia in questa collocazione tutta atlantista in cui siamo immersi ben oltre il collo.

Nella presentazione dell’iniziativa che si terrà questa sera, 26 agost0 2023, e che sarà visibile su Internet e sulla applicazione di “Spazio Pubblico“, si puntualizza la necessità di allargare le maglie democratiche della discussione che, effettivamente, si sono ristrette ai soli campi contrapposti, ed artatamente alimentati, del fronte intransigente dell’invio delle armi ad ogni costo, nel nome della salvezza dei valori occidentali, della democrazia liberal-liberista e della civiltà in senso lato, contro il fronte di un pacifismo dato per scontato, fatto passare per immatura posizione antipragmatica, romantico idealismo, iperuranio ghandiano.

La riconsiderazione di questa dicotomia raccontata dai giornali, dalle tv e dai loro spazi social come l’unica possibile è uno degli aspetti più che interessanti e positivi dell’iniziativa “E se spuntasse un arcobaleno“. Vanno rimessi in circolo tutti gli anticorpi sociali possibili per rimettere in circolo una dialettica che vada dal mondo religioso a quello laico, dal centro alla sinistra, dal pacifismo tout court a quello che ha dei rilievi critici da mostrare e dimostrare, per coinvolgere in questo modo il maggior numero di persone possibili e fare del dibattito qualcosa di serio.

Qualcosa che, quindi, dalle parole passi ai fatti e che, mettendo in campo una proposta squisitamente politica per le elezioni del Parlamento europeo, inserisca nel più ampio scenario dei ventisette paesi della UE un cuneo critico fin dentro l’impenetrabile corazza atlantista dei maggiori partiti che sono al governo negli Stati europei e che gestiscono le voci di bilancio che garantiscono i rifornimenti bellici e, almeno da questa parte del Vecchio continente, la continuazione della guerra.

Ed è assolutamente necessario essere chiari fin da subito, perché di progetti politici, di movimenti, di partiti ce ne sono tanti. Nascono facilmente tanto quanto vengono meno altrettanto disinvoltamente una volta finita la campagna elettorale e passata o meno l’asticella della percentuale per avere seggi nel Parlamento di Strasburgo. Non servirebbe a molto comporre una serie di soggetti organizzati, di singoli cittadini, di comitati se questa ancora ipotetica lista pensasse di essere già da ora un nuovo partito.

Sarebbe molto più opportuno, sensato ed anche logico, vista l’elasticità con cui si aggregano e si disaggregano i consensi nei confronti delle formazioni politiche oggi, pensare ad una elaborazione più culturale che organizzativa, più politica che strutturale, più eterogenea che omogenea nel tentativo di condividere la posizione della pace al di sopra di qualunque altra interpretazione della guerra in Ucraina e delle guerre in generale.

Pace oggi vuol dire un diverso approccio con le politiche migratorie, con quelle di accoglienza e di condivisione degli stessi luoghi, forme e sostanze delle nostre comunità: sia locali sia nazionali. Pace deve poter voler dire rimettere al centro il tema del lavoro non come produttore di armi ma di vera ricchezza sociale. Pace vuol dire intendere la sostenibilità ambientale come problema dell’oggi e non del domani: le guerre devastano i territori, inquinano, lasciano sul campo mine, radiazioni, bombe inesplose, ordigni di ogni tipo.

Il fronte della pace non può non essere quindi un fronte progressista. Ma deve esserlo senza preconcetti verso niente e nessuno: anche nei confronti di chi ci individua e ci tratta come dei nemici, indirettamente simpatizzanti per Putin, per la Russia, per quella che è l’altra parte rispetto a dove tutte e tutti viviamo. Essere pacifici e pacifisti in un mondo in guerra comporta questi rischi: di esporsi ad un fuoco di fila di falsità e di alterazione dei concetti per dimostrare che la pace è un accidente inconsiderabile, una eventualità scartabile.

Le destre, ma non solo loro, disgraziatamente, sono le alfiere dell’interventismo, del militarismo spinto all’ennesima potenza, esponenziale nuova igiene di un mondo senza anima, di un’età del modernismo in cui vige la regola del nazionalismo pronto a smarcarsi da sé stesso quando sopraggiungono le compatibilità internazionali e si deve obbedire al vecchio “gendarme americano“, all’alleanza che sul nostro territorio ha tante di quelle basi da ricordarci sempre della nostra sovranità limitata.

A questa agenda della distruzione di esseri umani, di animali, ambiente, case, città, industrie e quanto di valore possiamo ancora dare ai nostri paesi così devastati dalla corsa alle armi, da quella alle deforestazioni, agli inquinamenti marini (vedasi lo sversamento delle scorie nucleari di Fukushima nel mare del Giappone…) ed atmosferici, c’è la necessità di contrapporre una agenda nettamente e letteralmente opposta.

Se tutto questo si chiama pace, allora sintetizziamolo pure così e procediamo.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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