È noto che le origini del neoliberismo siano da rintracciarsi nella crisi, a partire dai primi anni Settanta, del cosiddetto “regime keynesiano” che, pur con significative differenze tra Paesi, aveva dominato le economie occidentali fin dal secondo dopoguerra. Un aspetto che però si tende a sottovalutare di quella crisi, fondamentale per capire la genesi del neoliberismo, è che essa non fu solo una crisi economica ma, dalla prospettiva delle classi dominanti, anche e soprattutto una crisi politica. In breve, negli anni Settanta cominciarono a venire meno le premesse – sia economiche che politiche – su cui si basava la partecipazione delle classi capitalistiche al “compromesso di classe” keynesiano: dal punto di vista economico, la possibilità di coniugare una crescita stabile dei salari con una crescita stabile dei profitti; dal punto di vista politico, la possibilità di coniugare la partecipazione dei lavoratori, tramite i partiti di massa, alla determinazione delle politiche pubbliche, soprattutto di natura economica, con un dominio di fatto delle classi possidenti.

A partire dai primi anni Settanta, come si diceva, entrambe quelle premesse cominciarono a venire meno: dal punto di vista economico, la combinazione di diversi fattori – l’aumento del prezzo delle materie prime, la crescente concorrenza tra potenze capitalistiche, il rallentamento della produttività, ma soprattutto le lotte sindacali per il salario e per il miglioramento delle condizioni di lavoro – cominciarono a esercitare una crescente pressione sulle rendite e i profitti; dal punto di vista politico, la piena occupazione e il rafforzamento senza precedenti delle masse lavoratrici, e la loro integrazione nei sistemi politici tramite i grandi partiti di massa di ispirazione socialcomunista, nonché la fusione del movimento operaio con blocchi sociali di altro tipo (studenti, ecc.), aveva determinato una radicalizzazione delle rivendicazioni non solo in ambito lavorativo ma anche in ambito politico, nella direzione di un superamento, seppur graduale, di certe logiche capitalistiche.

Il terrore della democrazia sostanziale

[Manifestazione di operai in lotta durante l’autunno caldo, 1969]

L’Italia è un ottimo esempio. La stagione che va grosso modo dal 1965 al 1975 fu sì caratterizzata da caos e disordini (e, in parte, da violenze, ma quelle arriveranno soprattutto dopo), ma fu anche una grande stagione democratica. Come argomenta il politologo americano Sidney Tarrow nel volume Democrazia e disordine, il “disordine” di quegli anni andrebbe letto soprattutto come il sintomo di un maggiore coinvolgimento dei normali cittadini nella cosa pubblica e dell’emergere di nuovi attori politici, “poiché quando si calmò la polvere del disordine, divenne chiaro che i confini della politica di massa erano stati estesi”. Proprio l’alta conflittualità di quegli anni, insomma, aveva allargato le maglie della democrazia, intesa in senso sostanziale e non solo formale, ovviamente. Come scrisse Romano Prodi in un saggio di inizio anni Settanta, all’epoca “per la prima volta le organizzazioni dei lavoratori entrano tra i protagonisti stabili di avvenimenti che [fino a quel momento] avevano, salvo qualche temporanea eccezione, subìto”.

Non è un caso che quel periodo, nonostante la congiuntura internazionale negativa – ricordiamo che il 1973 fu l’anno della prima crisi petrolifera –, fu anche una stagione di grandi riforme progressive, proprio grazie alla forza del movimento operaio e all’altissimo livello di conflittualità sociale e industriale: l’accordo sulla “scala mobile” (che rendeva automatici aumenti di stipendio in base all’inflazione), la riforma del sistema pensionistico, lo Statuto dei lavoratori, ma soprattutto (anche se ormai la stagione progressiva, a quel punto, volgeva già al termine) l’istituzione del Servizio sanitario nazionale, nel 1978. Ciò che si andava determinando in quegli anni, insomma, era esattamente quella situazione (da incubo, dal loro punto di vista) che i primi teorici del pensiero neoliberale – Hayek, von Mises, Robbins e altri -, negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, avevano prefigurato come prevedibile esito della democrazia di massa e del suffragio universale (fenomeno al tempo abbastanza recente e in realtà neanche pienamente compiuto): ovvero che le masse lavoratrici, una volta integrate nei processi politici e democratici, ed essendo ovviamente la maggioranza in qualunque società, avrebbero finito per utilizzare gli strumenti della democrazia rappresentativa per trascendere le logiche del capitalismo.

In questo senso, sbagliano coloro che vedono nel neoliberismo un’ideologia liberomercatista e antistatalista (interpretazione purtroppo ancora molto diffusa): al contrario, i neoliberisti della prima generazione erano perfettamente consapevoli del fatto che il mercato non si autoregola, ma che anzi il capitalismo necessita di uno Stato forte, anche autoritario – come dimostrato poi dalle varie esperienze golpiste degli anni Settanta, prima fra tutte il Cile di Pinochet – per imporre le logiche di mercato, tutelare gli interessi del capitale e garantire il dominio “di fatto” delle classi possidenti. In questo senso, i neoliberisti non avversavano affatto lo Stato, di cui anzi riconoscevano l’assoluta necessità, ma osteggiavano la democrazia di massa – il fatto che le masse si sarebbero un giorno potute appropriare delle leve dello Stato.

Cominciarono quindi a pensare a delle possibili soluzioni: posto che non disdegnavano soluzioni apertamente autoritarie – come dimostrerà l’esperienza cilena, esplicitamente difesa da Hayek –, sapevano bene che il processo di estensione formale della democrazia era una tendenza ormai iscritta nella storia, quantomeno in Occidente. Avanzarono dunque una soluzione che consisteva nel mantenere inalterati tutti gli aspetti della democrazia formale – libere elezioni, suffragio universale ecc. – ma erodendo la democrazia sostanziale attraverso una separazione tra i meccanismi di rappresentanza popolare e le scelte di carattere macroeconomico, soprattutto, ma non solo, attraverso il trasferimento di prerogative nazionali a istituzionali internazionali e sovranazionali, a-democratiche per definizione. Questa ideologia è quella che oggigiorno va sotto il nome di globalismo.

Il reale scontro di classe, obiettivo: espellere le masse dalla politica reale

[Franco Modigliani, uno dei più famosi neokeynesiani.]

Nei primi decenni del secondo dopoguerra le idee dei neoliberisti rimasero piuttosto marginali, perché incompatibili con l’inevitabile allargamento dei margini della democrazia sostanziale conseguente all’integrazione dei lavoratori nei sistemi politici tramite i grandi partiti di massa. Ma furono riscoperte a seguito della crisi – economica ma soprattutto politica, come detto – degli anni Settanta. D’altronde, cosa era quella crisi se non la realizzazione dello scenario preconizzato dai neoliberisti mezzo secolo prima? Uno scenario in cui le masse lavoratrici si erano andate progressivamente rafforzando e politicizzando – tanto nel cuore dell’Occidente, come in Italia, quanto alla sua periferia, in Paesi come il Cile di Allende – al punto da rappresentare una minaccia, se non ancora per l’ordine capitalistico costituito in quanto tale, senz’altro per i rapporti di forza tra le classi.

Ciò che veramente preoccupava le classi dirigenti dell’epoca, insomma, più che la compressione dei profitti in quanto tale, era l’eccessivo peso politico che i lavoratori avevano acquisito all’interno dei processi democratici, al punto da riuscire a orientarne significativamente gli indirizzi politici, come disse Prodi. Furono piuttosto espliciti a questo riguardo. Basti pensare a un testo come La crisi della democrazia, pubblicato nel 1975 dalla Commissione Trilaterale, uno dei tanti centri studi (i cosiddetti think tank) neoliberisti che videro la luce in quegli anni, in cui per crisi della democrazia non si intendeva un deficit di democrazia, come verrebbe logico pensare, ma piuttosto un eccesso di democrazia, come scrivono gli autori. Da risolvere, ovviamente, dal loro punto di vista, con una compressione dei livelli di democrazia e di potere popolare. Compressione che in quegli anni assunse forme diverse: negli Stati della periferia, come in Cile, si passò alla cancellazione tout court della democrazia formale e all’instaurazione di regimi militari di vario tipo (soluzione che, come detto, godette dell’esplicito sostegno degli economisti neoliberisti); nei Paesi del nucleo occidentale, come l’Italia, per quanto non furono mai del tutto escluse soluzioni apertamente golpiste e autoritarie, si privilegiò invece una strategia più raffinata, che si richiamava proprio alle teorie sviluppate dai neoliberisti.

Come veniva indicato esplicitamente ne La crisi della democrazia, si trattava da un lato di minare le basi materiali della democrazia – il potere dei sindacati, i diritti sociali e tutte quelle protezioni che sono condizione necessaria per “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (come recita l’art. 3 della Costituzione); dall’altro si trattava di ottenere “un grado maggiore di moderazione in democrazia” e una riduzione della partecipazione popolare alla vita politica, grazie anche alla diffusione di “una certa dose di apatia e disimpegno”. Si trattava, insomma, di espellere le masse dalla politica pur mantenendo in piedi gli assetti della democrazia formale. In questo senso, la congiuntura economica negativa degli anni Settanta fornì alle classi dirigenti occidentali l’occasione perfetta per mettere in atto questo progetto; per sferrare cioè un attacco decisivo al regime politico-economico del dopoguerra. Sul piano economico-distributivo questo attacco si caratterizzò per la compressione dei salari e, più in generale, per una riduzione del potere di contrattazione dei sindacati, operazione che politicamente fu “legittimata” da un lato addossando ai soli sindacati (e all’eccessiva spesa pubblica) la responsabilità della spirale prezzi-salari, nonostante la causa principale dell’inflazione risiedesse sul lato dell’offerta, cioè nell’aumento del costo del petrolio e delle materie prime; dall’altro, l’attacco si dipanò attraverso l’evocazione ossessiva del cosiddetto “vincolo esterno della bilancia dei pagamenti”, ossia l’idea che i salari troppo alti impedissero il necessario aggiustamento dei conti esteri dei Paesi in deficit (come era l’Italia in quegli anni) e che tale aggiustamento dovesse passare per una riduzione dei salari stessi.

Sul piano teorico si trattava di un’interpretazione molto discutibile, tuttavia questa ebbe un grande successo sul piano politico, anche per l’incapacità tanto degli economisti neokeynesiani quanto delle sinistre socialcomuniste di offrire un’interpretazione alternativa degli eventi. Un ruolo chiave in questa controffensiva ideologica fu giocato dalla scuola neomonetarista, che poggiava in buona parte sull’impianto monetarista classico di Milton Friedman, estremizzandone però alcuni aspetti. Il neomonetarismo ebbe una notevole influenza in particolare in Italia, anche grazie alla sostanziale convergenza che si venne a determinare tra le idee di Friedman e quelle di uno dei più famosi neokeynesiani dell’epoca: l’italiano Franco Modigliani.

La tesi di Friedman era in sostanza la seguente: esiste un solo livello salariale compatibile con la piena occupazione e, di contro, esiste un solo tasso di disoccupazione – il cosiddetto “tasso naturale di disoccupazione”, ancora oggi utilizzato dalla Commissione europea e altre istituzioni – compatibile con la piena occupazione. Qualunque intervento discrezionale di politica pubblica – di natura monetaria, fiscale o di altro tipo – volto ad aumentare l’occupazione o a difendere il salario avrebbe necessariamente comportato un aumento sia dell’inflazione che della disoccupazione. È evidente la portata politica di questa teoria: siamo di fronte a un ribaltamento radicale del principio keynesiano che aveva ispirato le politiche pubbliche ed economiche nel secondo dopoguerra, ovvero quello secondo cui il capitalismo è un sistema intrinsecamente instabile ed intrinsecamente incapace di garantire la piena occupazione, motivo per cui sono necessari interventi pubblici di vario tipo per garantire la piena occupazione e un’equa distribuzione di reddito e di ricchezza.

Le radici teoriche delle diseguaglianze che viviamo oggi

La teoria (solo apparentemente tecnica) di Friedman rappresentava un ribaltamento radicale di questa impostazione, volto a dimostrare la sostanziale impossibilità della piena occupazione e la dannosità di qualunque forma di intervento pubblico discrezionale. Ma, in un senso ancora più profondo, rappresentava un ritorno alla barbarie del capitalismo ottocentesco, in cui il lavoro era trattato alla stregua di una merce come qualunque altra, di fatto subordinando la vita stessa degli esseri umani, l’essenza stessa della società, alle leggi del mercato. Con l’obiettivo, evidente, di rimettere i lavoratori al loro posto, anche utilizzando lo strumento della disoccupazione. Purtroppo in Italia furono in pochi a comprendere la reale portata di quello che stava avvenendo.

Uno di questi fu l’economista Federico Caffè, che cercò di mettere in guardia soprattutto la sinistra sui rischi insiti nell’accettazione, anche solo parziale, di queste teorie: farlo avrebbe voluto dire spalancare un processo di regressione politica, economica e sociale potenzialmente senza fine – che è ovviamente quello che è successo, come conferma la drammaticità dello stato attuale del nostro Paese. Caffè fu tra i pochi a comprendere che l’enfasi ossessiva di quegli anni sul problema dell’inflazione e soprattutto la lettura antioperaia che veniva data del fenomeno erano da considerarsi funzionali a una strategia che non mirava realmente, o primariamente, a risolvere il problema dell’inflazione stessa – che era meno grave di quanto si voleva far credere, e per il quale esistevano comunque altre soluzioni ipotizzabili – ma piuttosto a sfruttarne lo spauracchio per raggiungere obiettivi politici ed economici di ben altra natura. «Oggi l’inflazione più che essere combattuta viene strumentalizzata, nel senso che evocando questo male dell’inflazione si intendono risolvere molti altri problemi di natura industriale, sindacale, rivendicativa e così via», scriveva Caffè. Qualche lettore noterà una certa assonanza con la situazione attuale. Caffè la chiamava «strategia dell’allarmismo economico»: una sorta di equivalente mediatico-narrativo della strategia della tensione di matrice propriamente terroristica. Proprio perché il nocciolo della questione era di natura politica – o meglio di classe – e non economica, Caffè si prodigò infaticabilmente in quegli anni per cercare di convincere la sinistra a non fare propria la narrazione dell’avversario sull’inevitabilità della disoccupazione. Ma i suoi avvertimenti rimasero perlopiù inascoltati.

Un altro aspetto del neomonetarismo era la sua insistenza sull’adozione del cambio fisso o semifisso – presentato come strumento economico, quale sicuramente era (stabilizzazione del cambio in senso anti-inflazionistico), ma che, come altre misure già discusse, aveva anche un importante componente politica, o meglio di classe: i cambi flessibili permettevano di accomodare le richieste salariali dei lavoratori, scaricando – in parte almeno – sul cambio l’aggiustamento degli squilibri della bilancia dei pagamenti. Proprio per questo i neomonetaristi erano fautori dei cambi fissi, perché, per contro, non permettendo di scaricare gli aggiustamenti sul cambio, lasciavano come unica soluzione la compressione salariale. Ovviamente, nel contesto italiano ed europeo, il momento di svolta è l’introduzione del sistema di cambi fissi del Sistema monetario europeo (SME) nel 1979, che di fatto rappresenta il primo passo nel percorso di unificazione monetaria che porterà poi all’introduzione dell’euro. Non a caso, negli anni Ottanta sarebbe seguito l’attacco alla scala mobile e l’inizio di una drammatica stagnazione salariale e di una erosione dei diritti dei lavoratori che continua fino ai giorni nostri.

L’integrazione europea come realizzazione del progetto

Ma c’è una dimensione più prettamente politica alla radice del processo di integrazione europeo. In ultima analisi, tutto il processo di integrazione economica e monetaria europea può essere visto come la realizzazione di quel progetto teorizzato dai primi neoliberisti nei primi decenni del secolo scorso: trasferendo quote crescenti di sovranità nazionale – fino ad arrivare alla cessione del pilastro fondamentale dell’indipendenza economica di un Paese, la sovranità monetaria -, di fatto si riduce la capacità dei cittadini di influenzare gli orientamenti di politica economica di un Paese, per il semplice fatto che lo Stato è privo di tutti quegli strumenti necessari ad orientare gli indirizzi di politica economica. Si arriva così a recidere definitivamente il legame tra i meccanismi di rappresentanza popolare e le scelte di carattere macroeconomico: dal punto di vista formale, i Paesi rimangono democratici ma nella sostanza la democrazia viene svuotata dall’interno. Se consideriamo tutti questi elementi nel loro complesso, possiamo concludere che l’Italia è stato uno dei Paesi in cui il processo di neoliberalizzazione è stato portato alle sue più estreme conseguenze. È diffusa l’opinione secondo cui il neoliberismo non avrebbe mai preso piede in Italia, essendo il nostro Paese ancora oggi caratterizzato da un vastissimo apparato burocratico e da una spesa pubblica molto significativa in proporzione al PIL. Ma si tratta di lettura fallace della natura del neoliberismo, che si considera erroneamente volto alla minimizzazione del ruolo dello Stato.Come detto, il neoliberismo va inteso innanzitutto come un progetto politico finalizzato a indebolire il mondo del lavoro, a desovranizzare e de-democratizzare gli Statia ridurre la capacità delle masse di incidere sui processi economici e a consegnare le leve di politica economica a istituzioni sovranazionali che usano lo Stato per avanzare gli interessi dei ceti dominanti.

In quest’ottica, risulta difficile non concludere che controrivoluzione neoliberista sia stata, in Italia, un successo clamoroso dal punto di vista di chi la propugnava. Basti pensare a quanto siano diffusi nel nostro Paese i sentimenti di disillusione e di apatia nei confronti della politica – ovverosia esattamente lo scenario auspicato ormai cinquant’anni fa nel sopracitato testo La crisi della democrazia. Per concludere con una battuta amara, potremmo dire: l’operazione è stata un successo ma purtroppo il paziente – cioè la Costituzione materiale di questo Paese – è morto.

[di Thomas Fazi]

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy