Sempre più in profondità, per smantellare le difese di Hamas, per neutralizzare l’organizzazione terroristica che ha fatto strage di millequattrocento israeliani il 7 ottobre e rapito oltre duecento persone trasformandole in ostaggi e scudi umani. Viene da abbozzare un nervosissimo sorriso se si sente qualche giornalista italiano che, in questa notte di incursioni e di fitti bombardamenti nel lembo di terra gazawita, afferma: «La guerra sta entrando a Gaza».

Ma quello che sino ad ora ha scatenato Israele, in venti giorni di “risposta” al massacro delle Brigate al-Qassam, cos’era se non guerra? Giorno dopo giorno il vantaggio morale che poteva essere concesso allo Stato ebraico, in quanto democrazia che reagisce ad una organizzazione di fanatici terroristi più jihadisti che nazionalisti ed indipendentisti palestinesi, si è assottigliato e, parallelamente, si è sempre più manifestato il vero intento del governo di Benjamin Netanyahu: farla finita una volta per tutte con i palestinesi di Gaza.

La guerra non sta entrando ora a Gaza.

La guerra nella prigione a cielo aperto della Palestina c’è da decenni ed è negare un dato di fatto l’affermare che dal 2005 quel lembo di terra era stato abbandonato da Israele e che quasi tre milioni di palestinesi erano divenuti pienamente padroni della loro esistenza. Tel Aviv ha recintato il confine, lo ha sigillato e gestito le forniture di acqua, di gas, di luce elettrica, praticamente tenendo tutti i gazawiti al guinzaglio, dopo aver permesso ad Hamas di rafforzarsi nel corso degli anni precedenti in funzione anti-ANP.

Quando si commentano le guerre, la prima cosa da non fare è decontestualizzarle e trattarle quindi come fatti a sé stanti, incapsulati solamente in una attualità del presente che non spiega nulla e non permette di capire le (s)ragioni per cui si è arrivati allo scontro armato, al genocidio vero e proprio di un popolo. Quello palestinese.

Una vera democrazia – ammesso che al mondo si possa dire che ne esiste davvero una, almeno per come la intendevano gli antichi greci – quale Israele si picca di essere, avrebbe potuto reagire “chirurgicamente” all’attacco di Hamas.

Avrebbe potuto mirare solo alle abitazioni in cui si trovano i leader dell’organizzazione e non bombardare la Striscia indiscriminatamente, fare oltre settemila morti e quasi ventimila feriti. La preannunciata operazione di invasione totale della parte nord di Gaza sarà una strage veramente epocale. Un massacro su vastissima scala. I palestinesi che si sono spostati a sud, su ordine dell’esercito israeliano, sono stati a loro volta bombardati nei giorni scorsi.

Molti di loro hanno dovuto fare il percorso inverso e tornare là dove le incursioni aeree sono molto più intense, dove non sta rimanendo nulla se non macerie, polvere e il tremolio dei bambini terrorizzati. Come Hamas ha trascinato Israele in una guerra che sta sterminando i palestinesi, così lo Stato ebraico sta portando tutto il Medio Oriente sulle soglie di un conflitto macroregionale che impensierisce gli Stati Uniti che, però, non si esimono dal bombardare le basi dei pasdaran iraniani al confine tra Siria e Iraq.

Le affermazioni di Blinken e Kirby suonano, così, tanto beffarde quando invocano una tregua ieri, un limite alle operazioni militari di Israele oggi e, magari, domani ad una maggiore precisione negli attacchi per “tutelare” i civili.

Veramente le proporzioni enormi degli omicidi di massa fatti dall’esercito israeliano, su comando del suo governo, rendono incredibile (nel senso proprio di impossibile da credere) pensare che, dietro le dichiarazioni del Segretario di Stato e del portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale americano, ci sia una anche minima parvenza di buona fede, accompagna da una azione diplomatica.

Se così fosse, la mozione presentata alcuni giorni fa dal Brasile per un cessate il fuoco sarebbe stata approvata. Invece alle Nazioni Unite il fronte che cerca di fermare il conflitto non comprende Washington e nemmeno i paesi europei. La Giordania ha guidato i paesi arabi nell’approvazione di una bozza di risoluzione per un cessate il fuoco che consenta agli aiuti umanitari di entrare nella Striscia e che permetta, nel contempo, uno sfollamento vero della popolazione verso sud.

Stati Uniti e Israele, ovviamente, si sono pronunciati contro. L’Italia si è astenuta. Non ci troviamo davanti ad un atteggiamento prudenziale del nostro governo, ma proprio innanzi ad una sfacciata conferma dell’approvazione della linea di totale e incondizionato sostegno all’azione israeliana contro Gaza.

Due giorni fa, del resto, Giorgia Meloni aveva definito “effetti collaterali” i morti civili sotto i bombardamenti dei caccia di Tel Aviv. Abbiamo oltrepassato il confine del politicamente scorretto e abbracciato a tutto tondo l’atlantismo con tutte le sue conseguenze: compresa l’amicizia indefessa per la destra israeliana che, da buone destre di casa nostra, è impossibile non manifestare e praticare.

Le parole di papa Francesco sono la voce che chiama nel deserto, il suono inascoltato da più parti. I pacifisti vengono derisi, chiamati “utopisti“, ridicolizzati alla stregua di bonari idealisti ideologizzati non si sa bene da chi e da cosa. Eppure anche Tajiani, a latere di una riunione europea, sostiene un concetto che, per la forza degli eventi che si sono scatenati, non si può non condividere: Hamas lo si neutralizza soltanto con la creazione di un vero Stato palestinese.

La guerra tra la formazione terrorista e lo Stato ebraico (e viceversa) è la quintessenza di un orrore vicendevole, alimentato da estremismi che fanno capo allo jihadismo da un lato, al sionismo colonico dall’altro.

Coloni che, in questa notte di bagliori che si vedono dalle riprese di Al Jazeera, affiggono dei volantini per le vie delle città palestinesi in Cisgiordania minacciando la popolazione, spingendola ad emigrare in Giordania per evitare una nuova Nakba. Di tutto questo il governo di Netanyahu è responsabile ieri, oggi e lo sarà domani. Di tutto questo la comunità internazionale diventa responsabile se sostiene l’oramai esaurito diritto di Israele di difendersi.

Quello che vediamo in televisione, che leggiamo, che scorriamo su Internet non è autodifesa, ma solo un genocidio. Iniziano a confessarselo persino i commentatori più filo-occidentali del progressismo italico. Iniziano a pensarlo veramente anche molti israeliani e molti ebrei che pure hanno tutto il diritto di piangere, e noi con loro, per i morti che hanno avuto, per la criminale azione di Hamas sulla quale non si può trovare alcuna ragione che la leghi alla giusta lotta per l’indipendenza della Palestina, per la libertà tanto del popolo dei Territori occupati, di Gaza ed anche di Israele.

Ma i toni dei delegati di Netanyahu all’ONU sono esacerbazioni dell’odio. Non conoscono nessuna tregua nella muscolarità prepotente del linguaggio in cui c’è tutto il sapore della guerra che il loro governo porta dentro Gaza, nelle case di ogni palestinese, fin sotto i cumuli delle macerie che sono il paesaggio devastante di un atroce crimine contro l’umanità. Al pari di quello che ha fatto Hamas uccidendo donne, bambini, anziani e chiunque si trovasse nei kibbutz al confine con la Striscia.

La specularità poteva essere data da un meschino conteggio sull’equipollenza dei numeri delle vittime. Adesso anche questo cinico criterio è saltato. A fronte di millequattrocento morti israeliani, dall’altra parte abbiamo settemila morti, un territorio che sarà raso al suolo, ventimila feriti e un Medio Oriente in ebollizione.

Gli Stati Uniti hanno retoricamente chiesto ad Israele quale sia la sua strategia. Ma l’amministrazione americana sa benissimo che Tel Aviv non ha nessuna strategia. Sta procedendo sulla linea della distruzione totale, dell’annientamento di qualunque cosa possa sopravvivere nella Striscia di Gaza.

Una tabula rasa che l’operazione di terra renderà tale nel momento in cui si scatenerà in quella potenza preannunciata tanto da Netanyahu quanto dai comandanti dell’IDF. Se Hamas bluffa quando millanta una capacità di resistenza a qualunque attacco da parte di Israele, quest’ultimo invece parla sul serio e non millanta nulla.

Ha la capacità di creare l’inferno a Gaza e, infatti, lo sta creando. Mark Regev, consigliere politico del premier israeliano, non fa nessun mistero delle intenzioni del gabinetto di guerra: «La vendetta inizia stanotte». Appunto, vendetta e non giustizia, vendetta e non risposta democratica al terrorismo. Di contro, Hamas chiama alle armi i palestinesi della Cisgiordania e lo stesso fa con la nazione araba. Lo scontro di civiltà è tutto sul terreno e i bagliori delle bombe che piovono sul centro della Striscia ne sono la riprova.

L’ostilità di Israele nei confronti dell’ONU somiglia a quella che gli Stati Uniti riservano da sempre ad una organizzazione in cui si approva ogni anno la condanna dell’embargo nei confronti di Cuba, rea di essere l’isla rebelde, l’intollerabile esempio di una alternativa di società in un continente dominato dall’Impero per antonomasia.

Gli imperialismi, alla fine, si somigliano un po’ tutti, mentre le democrazie sono così tanto differenti l’una dalle altre. Il problema è che gli imperialismi si nutrono delle democrazie e provano ad apparire al resto del mondo come esempi di esportazione dei princìpi su cui si dovrebbe fondare l’esistenza di un popolo libero in uno Stato libero, in un mondo libero. La superiorità etica dell’Occidente ci è mostrata così come l’unica possibilità di sviluppo nella pace. Ma quale sviluppo? Quale pace?

Lo sviluppo capitalistico e liberista che produce soltanto disparità, diseguaglianze, sfruttamento e morte? La pace portata con l’espansione della NATO nell’Est Europa, con la colonizzazione israeliana in Cisgiordania, con il neocolonialismo europeo nel povero continente africano? Chi parla di pace dall’alto dell’etica di un mondo che si erge a paladino della modernità, richiamandosi alla sua grande storia, fatta di rivolte, di guerre civili nel nome dell’indipendenza dai tiranni, dovrebbe pensarsi come un palestinese a Gaza oggi, stanotte. Proprio ora.

Una immedesimazione purtroppo aleatoria, sic stantibus rebus. Molto meglio essere pragmatici e inneggiare alla democrazia israeliana, al diritto di rappresaglia su vasta scala, senza fare prigionieri, senza lasciare nessuna casa in piedi. Quanti morti servono per rimescolare le carte mediorientali e permettere ad americani, israeliani e qatarioti di fare i loro sporchi affari?

Quanti “martiri” servono ad Hamas, agli ayatollah iraniani, ai regimi del jihad e del fanatismo religioso, per diventare alla pari dei loro nemici l’esempio virtuoso di un mondo alternativo al infedele impero americano? Sembra quasi di trovarsi in una situazione di stallo se si osserva il tutto dal nostro punto di vista: quello pacifista. Ma, mai come ora, l’ora più buia deve ancora venire e, anche se è notte, sembra quasi, in confronto, che sia giorno.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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