di Marco Sferini

Dai trionfalismi della controffensiva annunciata da Volodymyr Zelens’kyj prima dell’estate all’offensiva russa che sta prendendo corpo in questi giorni, su parecchie porzioni del fronte. Lo scenario della guerra in Ucraina sta radicalmente cambiando e non in meglio. Ovviamente, dipende dai punti di vista, ma per chi si augura una fine delle ostilità con un base negoziale solida, le notizie che arrivano sono tutt’altro che rassicuranti.

Dopo quasi due anni, è possibile fare un primo bilancio di questa che si annuncia essere una prima fase della guerra in corso. Ed anzitutto tocca notare che, come era abbastanza ovvio, di per sé, senza aiuti militari esterni, senza addestratori di altri paesi della NATO, l’Ucraina non avrebbe resistito alla preponderante forza di penetrazione dell’armata russa. Può apparire una considerazione ovvia, ma tante volte sono proprio queste riflessioni che permettono di avere un quadro più nitido sia delle forze militari, sia di quelle politiche in campo.

Senza l’appoggio dell’Alleanza atlantica (e quindi degli Stati Uniti e di tutti i loro alleati), oggi l’Ucraina sarebbe uno Stato satellite della Russia di Putin. Il dramma della questione è che, nel caso in cui la guerra venga vinta da Kiev, di indipendenza vera si potrà parlare solo se un ormai sfibrato Zelens’kyj saprà rendersi equidistante da ciò da cui non ha mai detto di voler prendere le distanze: ossia la NATO per prima, l’alleanza con gli USA e l’internità all’Unione Europea.

Tutto gravita attorno all’orbita entro cui l’Ucraina si troverà una volta in cui il conflitto sarà messo a tacere e, quindi, tra i due imperialismi che si stanno fronteggiando, avrà prevalso l’Est o l’Ovest. Difficile pensare ad una soluzione terza, quindi ad una vera e propria neutralità di Kiev rispetto alle attese tanto di Biden e Stoltenberg da un lato, quanto quelle di Putin dall’altro. Oltre al popolo ucraino, alla pace, ai soldati e a tutto ciò che ne consegue, altra vittima delle guerre che hanno avvampato questi ultimi anni è il diritto internazionale.

Non si può forse affermare che abbia oggi toccato il fondo la considerazione che ne hanno i paesi che compongono l’ONU, se pensiamo ad esempio alle Guerre del Golfo, a quelle balcaniche, a tutta la parabola ascendente e discendente della costruzione del fenomeno terroristico su scala globale, ma è evidente che le Nazioni Unite sono date per rispettabili da quegli Stati che vedono favorevoli le risoluzioni che di volta in volta vengono adottate e, puntualmente, disattese dal resto del pianeta.

Mentre il meccanismo del bilanciamento militarista funziona in chiave di supporto all’espansione delle aree di influenza dei singoli poli imperialisti, il Consiglio di sicurezza viene costantemente messo sotto scacco dal diritto di veto conservato dalle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale. Un presupposto di garanzia reciproca è divenuto, nel corso dei decenni, un ostacolo esplicito alla pace nel mondo o, quanto meno, un impedimento ulteriore che si aggiunge a quelli già presenti.

Le risoluzioni dell’ONU, che si sono succedute dal reinizio della guerra in Ucraina (perché, va sempre ricordato, il conflitto in Donbass data dal 2014 e non dal febbraio del 2022), hanno ricevuto più che altro il consenso di una parte del mondo: quella schierata col blocco occidentale. Mentre la Russia ha ricevuto, come gesto di condivisione di sponda l’astensione dei giganti asiatici e di gran parte dell’America Latina.

La geopolitica globale si è, dunque, espressa figurativamente nei tabelloni delle votazioni dove era netta la dicotomia tra l’asse atlantico-europeo e quello dei paesi che si sarebbero riuniti, in sempre maggiore numero, attorno all’acronimo BRICS. Ciò non significa affatto che, come al tempo della Guerra fredda, ci troviamo in presenza di una divergenza storica tra democrazie liberali da un lato e paesi socialisteggianti dall’altro. In entrambi i blocchi vi sono enormi contraddizioni che impediscono di tratteggiarne compiutamente la fisionomia.

Il ventre molle di questa insofferenza comune è la parte di mondo che si riferisce essenzialmente al continente africano e alla regione mediorientale. Proprio due aree del pianeta dove i conflitti si stanno esacerbando e stanno divenendo la costante di una riscrittura tanto dei confini quanto, ovviamente, dell’intromissione degli affari delle grandi potenze nelle zone in cui gli scontri storici e tribali si sono trasformati in ciò che, anche nel vecchio assetto coloniale novecentesco, erano stati: terreni di confronto per il controllo delle economie locali.

Militarismo ed espansionismo politico-economico sono due facce della stessa medaglia di un potere che, oggi più che mai, è al soldo di un capitalismo globalizzato, iperliberista e che, quindi, non si fa alcuno scrupolo nell’alimentare la sua sopravvivenza (sempre più incerta se si guarda l’enormità della crisi climatica) sulla pelle dei popoli più diseredati, depredati di tutto, spinti a traversate marine in cui i fondali diventano vasti cimiteri dimenticati nelle oscurità di un oblio che serve a lavare le incoscienze tanto dei governi quanto di buona parte dei loro popoli.

Là dove, per fare un esempio rilevante, si era formata la “Françafrique” (altrimenti detta: “Franciafrica“), eredità anche piuttosto moderna nel traghettamento dal dominio di Parigi su larga parte del continente nero ad una forma di neocolonialismo formalmente rispettosa dell’indipendenza delle proprie ex-colonie, oggi si estende sempre di più la presenza delle milizie Wagner, sotto diretto controllo del Cremlino. Anche questa è una guerra. Un conflitto armato che però non viene combattuto direttamente da due eserciti sulla linea di un fronte.

I colpi di Stato che hanno letteralmente espulso la presenza francese dai loro territori, hanno pari pari determinato la sua sostituzione con la presenza russa. Mentre la Cina avanza nella parte più ad est dell’Africa, con ingenti investimenti in infrastrutture, controlli di settori produttivi importantissimi nel commercio mondiale, la Russia guerreggia in Libia (sempre con la Wagner) a sostegno di Haftar, ha basi militari in Siria e mantiene il suo canale di interlocuzione diretta con l’Iran, molti paesi arabi  e, non da ultimo certamente, Cina e Corea del Nord.

Se si considera, inoltre, che la maggior parte di questo impegno è, quindi, messo in pratica tramite milizie mercenarie e che le forze armate russe hanno libero accesso alle installazioni militari di Egitto, Guinea, Madascagar e Libia, e che, inoltre, l’esportazione delle armi in Africa è per il 30% ascrivibile alla produzione russa, potrà essere fondata almeno la domanda su quanto sia in espansione il polo est-asiatico rispetto a quello occidentale? In pratica, nonostante gli Stati Uniti tentino di spacciare per loro stessi una immagine di incontrastata potenza mondiale, risulta evidente il loro arretramento su scala mondiale sul piano militare ed economico.

Visto in questa ottica un po’ meno semplicistica del ridotto conflitto tra democrazie da un lato e tirannie dall’altro, come vorrebbero farci credere molti mezzi di informazione presentandoci la guerra in Ucraina, la lotta tra gli imperialismi ne viene fuori in tutta la sua carsica inevidenza, occultata proprio perché la ragione prima del conflitto deve rimanere una sorta di superiorità morale dell’Occidente rispetto all’arretratezza etico-costituzionale di paesi che vengono definiti troppo facilmente come regimi autocratici e dittature.

Indubbiamente lo sono. Ma non sono solo quello. Così come gli Stati Uniti d’America, Israele, l’Ungheria e altre nazioni che pretenderebbero di avere la patente esclusiva della democrazia, per origine storica, per presenza in consessi più ampi dove si sottolinea la necessità del pluralismo come forma e sostanza della vita comune, difettano in quanto a mantenimento interno ed esterno di quei valori di cui si fanno ampiamente portatori.

Guantanamo come emblema della repressione al di fuori di qualunque schema legale, di qualunque diritto nazionale e internazionale. Oppure le tante altre prigioni americane sparse nei paesi occupati o sotto protezione dello Zio Sam: dalla Somalia all’Afghanistan, dall’Iraq alla Siria. Ed ancora, l’utilizzo di armi di distruzione di massa contro nemici accusati di averle e che, poi, si sono rivelati molto più innoqui di quello che realmente si propagandava non fossero.

Il fosforo bianco, questo grande alleato delle guerre delle democrazie occidentali, tanto nella Mezzaluna fertile quanto a Gaza. Ed Israele, appunto… E’ una democrazia quella che colonizza terre altrui, che nega la vita ad un popolo, che lo stermina dopo l’eccidio di Hamas del 7 ottobre? Ed è una democrazia quella di Kiev che mette al bando i partiti di opposizione, che non permette la conoscenza della propria lingua in oblast dove, come minimo, sarebbe stato opportuno uno statuto speciale di autodeterminazione?

Non si può dividere il mondo tra buoni e cattivi in mezzo a tante complessità. Putin non Hitler e Milei non è un liberale. Biden non è un campione di libertà e democrazia, mentre Xi Jinping non è esattamente quel comunista che a molti piace pensare, o conviene spacciare, che sia. Così, le guerre fanno venire a galla tutta una serie di sottoinsiemi che vengono, spesso, trascurati. Si dice per esigenza di sintesi; in realtà, per evitare che ci si faccia troppe domande su chi è veramente chi.

Se andiamo a cercare le irragionevolezze pratiche del conflitto in Ucraina, non le troveremo a ridosso del 24 febbraio 2022, ma fin dai postumi della Guerra fredda e, poi, nella ristrutturazione globale dal bipolarismo al nuovo multilateralismo che, proprio con la fine del ‘900 e l’inizio del nuovo millennio, si è imposto nonostante il tentativo di imposizione unilaterale degli Stati Uniti d’America. Tentare di stabilire una gradazione moralistica nei diversi livelli di interazione tra governi e popoli, attribuendo patenti di democrazia da un lato e di regimi del terrore dall’altro, è, come si è potuto constatare citando solo alcuni casi, un assurdo.

Ma non è invece assurdo pensare che dal confronto tra queste visioni del mondo, torve da un lato e disperanti dall’altro, possa venire fuori una tertium datur, una alternativa concreta tanto al liberismo occidentale, all’atlantismo, quanto all’autocrazia, al teocratismo e alle smanie imperialiste dell’altro blocco orientale (con qualche alleato sudamericano).

La catastrofe ucraina è anzitutto una sorta di fenomenologia della lotta tra questi settori emiglobali che pretenderebbero di avere l’egemonia anzitutto economica e militare del mondo intero. Pensare ancora a quello che avviene tra Kiev e Mosca come ad una guerra fra libertà e tirannia, tra detentori dei veri valori democratici e assolutismo quasi monarchico-zarista, è semplificare all’eccesso tutta una serie di fatti che, come in ogni ambito storico che si rispetti, aprono sempre le feritoie più intriganti di contraddizioni apparentemente invisibili.

Lo scorso 6 dicembre il presidente russo Putin ha compiuto un viaggio in Medio Oriente: Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita. Dalla Cop28 alle questioni che concernono i conflitti in atto: tanto in Ucraina quanto in Palestina. Sanzioni internazionali e questioni petrolifere sono sul piatto di una bilancia veramente pesante. Guerra e sostenibilità, come se non fosse sufficientemente evidente, si compenetrano, si attirano e si respingono allo stesso tempo. La Russia muove le sue pediene e così fanno Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Cina, India, Giappone.

Rimane una grande assente sul piano dei rapporti tra i grandi blocchi: la voce dell’Unione Europea. Una voce che, di fatto, non esiste, perché i singoli interessi dei suoi Stati membri sopravanzano quelli di una comunità che si regge sempre meno sulla collaborazione fattiva interna e che si mostra esternamente quanto meno divisa in due se si parla di aiuti a Kiev o di questione israelo-palestinese.

Purtroppo da questo piano di incertezza europea non viene fuori nulla di buono nemmeno in materia di politiche ambientali e di difesa del sociale. La UE rischia così di essere uno specchietto per le allodole, un paradosso che si perpetua stancamente e che le prossime elezioni del Parlamento di Strasburgo potrebbero definitivamente mettere all’angolo, oppure rilanciare ma soltanto se si affermasse un progressismo degno di nota. Vista la cavalcata ad ampie falcate delle destre sovraniste e populiste in metà del Vecchio continente, è lecito dubitarne.

La guerra in Ucraina – sostiene Putin – durerà almeno ancora un lustro. Senza poter trarre delle conclusioni certe su quanto scritto qui fino ad ora, c’è da credergli, perché Washington e NATO non molleranno sul ruolo da intercapedine di Kiev tra Est ed Ovest, puntando a farne comunque un cuneo infilato nell’area di ingerenza russa verso l’Europa e a ridosso del Medio Oriente.

Lo scombussolamento multilateralista è destinato ad amplificarsi e a complicarsi notevolmente. Niente di nuovo su nessun fronte. Liberismo e guerre, migrazioni e crisi climatiche, ce n’è abbastanza per un antifuturo, per una retrocessione sociale, per un impoverimento di massa, per una sempre maggiore inospitalità da parte della Terra nei nostri confronti e, scusate se è poco…, per tutti gli altri esseri viventi.

MARCO SFERINI

29 dicembre 2023

foto: screenshot ed elaborazione propria

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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