Umberto Vincenti

 Nella Costituzione italiana – che pur avrebbe bisogno di essere rivisitata ma con riforme non insulse o furbesche (come il ddl Casellati) – vi è un articolo, il 9, che non è stato considerato come si sarebbe dovuto. Esso obbliga la Repubblica a tutelare «il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»: un patrimonio non valutabile economicamente e tuttavia di valore incalcolabile. Ora, se  ci guardiamo intorno, è scontato domandarsi se la Repubblica abbia assolto al dovere di tutela che la Costituzione le aveva imposto; e se altrettanto abbiano fatto le Regioni.

 Per parte sua, il legislatore, cioè il Parlamento, ha pensato di metterci una pezza  (tra l’altro) riformando malamente l’art. 9 attraverso l’aggiunta di parole inutili (come «ambiente», «biodiversità», «ecosistemi»), che tanto non costano nulla; e, però, a nulla servono perché, nel paesaggio italiano, è naturalmente incluso l’ambiente in tutte le sue connotazioni e, anzi, si identifica con esso: semplicemente formule o parole diverse per indicare la medesima entità, lo spazio in cui  viviamo.

 Parole fungibili, equivalenti, sinonimi; parole interscambiabili e interscambiate; espressione del medesimo scopo istituzionale, che si introducono una dopo l’altra, a rafforzare una tutela che, tuttavia, resta miseramente verbale e, alla prova dei fatti, elusiva ed elusa. Comunque sia (e a  conferma che, a riformare la Costituzione, bisogna essere attrezzati, massimamente se si metta mano agli equilibri fondamentali dello Stato), le parole, quelle della legge e della stessa Costituzione, non bastano se poi non seguano le condotte concrete, che – esse sole – realizzano gli obiettivi.

 Quella che già Concetto Marchesi aveva paventato, alla Costituente, come la «raffica regionalistica», si è abbattuta anche sul ‘paesaggio’ o sull’ambiente’ visto che l’art. 117 Cost., nel testo consegnato dalla riforma del titolo V del 2001, ha assegnato alle Regioni la potestà legislativa e regolamentare in tema di «valorizzazione dei beni culturali e ambientali». Qui è la Costituzione – meglio, la riforma che l’ha peggiorata – ad aver introdotto  un’imperdonabile confusione nella titolarità dei poteri.  Chi, allora, proteggerà il paesaggio o l’ambiente? Lo Stato, la Regione oppure entrambi in concorso tra loro?

 Si era pensato (ma ancora si giura che così sia dai fautori del ddl Calderoli) che il nostro (magnifico) patrimonio naturalistico sarebbe stato salvaguardato molto più efficacemente in sede locale per la maggiore contiguità degli enti territoriali agli interessi dei cittadini. Ma si tratta di una petitio principii, che corrisponde a un argomento ingannevole. A parte che, mediamente, il potere centrale e le sue amministrazioni sono dotate di personale più qualificato e anche più controllato a livello di media, l’esperienza dimostra esattamente il contrario. Gli amministratori locali sono quasi sempre più disposti a cedere rispetto al funzionario ‘lontano’, cioè allo ‘statale’: a cedere alle pressioni perché prevalgano interessi particolari o, peggio, speculativi, sottostanti alle esigenze del commercio e del turismo, che hanno più margini di pressione nei singoli territori, spesso attraverso potenti o potentati di zona. Quel patrimonio diviene così merce di scambio elettorale, rendendo evidente che, anche nelle ricche Regioni del Nord, è diffusa o è presente una concezione distorta, familistica, della democrazia.

 Il paesaggio distrutto dalle leggi: questa la sintesi dello ‘stato dell’arte’ espressa da Salvatore Settis che, da decenni, si batte ammirevolmente per il paesaggio italiano. Ovviamente senza fortuna. Un esempio per tutti. Nel mentre si discute – e ne discute anche la Corte costituzionale – sul rapporto tra poteri regionali e attribuzioni comunali in tema di pianificazione urbanistica, il consumo di suolo in Italia cresce inarrestabilmente e ha assunto dimensioni preoccupanti; per di più oscilla parecchio tra Regione e Regione e tra Comune e Comune. Occorrerebbe un limite eguale per tutto il territorio italiano; occorrerebbe una legge statale che, però, non è ancora stata adottata. Così ogni anno si riversa a terra una colata di 50 milioni di tonnellate di cemento. Dietro vi è spesso una lotta di potere: chi deve vincere? L’assessore o il ministro o le convenzioni internazionali? Probabile che burocrati e politici tengano prima di tutto a loro stessi, meno alla tutela del paesaggio.

 Ci si attenderebbe che i giuristi intervenissero perché prevalesse, quando si controverta della tutela del paesaggio, l’antico criterio dell’utilitas publica, cioè l’interesse generale, di tutta la comunità nazionale. Ma andiamo a fare un giro sulle nostre coste; troppo spesso faremo fatica anche solo ad immaginarne il paesaggio originario, naturale: ville, condomini, grattacieli, alberghi, esercizi commerciali ecc. lo hanno cancellato e vorrebbero cancellare anche porzioni di mare. Dov’erano le istituzioni tutorie? In base a quale inganno hanno concesso autorizzazioni implausibili? Com’è possibile che il diritto si sia trasformato in una menzogna istituzionale? E che i proprietari dimentichino di essere prima di tutto cittadini? La cultura giuridica sembra più affaticata dalla questione della ricerca di adeguate ‘compensazioni’ per i non frequenti casi in cui l’interesse proprietario dovrebbe in thesi essere sacrificato per finalità di interesse generale. Per esempio, quanto si è parlato, in pandemia, dei ristori per i titolari di bar e ristoranti? Dimenticando che si tratta di imprenditori, che corrono il rischio d’impresa; e che, in quanto tali, si sono rapidamente ri-attrezzati e, favoriti dalle amministrazioni comunali, hanno finito con il beneficiare del (post) Covid, che ha fatto stabilmente, e notevolmente, lievitare i loro incassi.  

 Il paesaggio o l’ambiente stanno rapidamente evolvendo in beni aziendali: beni pubblici sì, ma utili, utilissimi ai privati. Qualche giorno fa su Il Manifesto si denunciava che il caldo di questi giorni natalizi ha creato problemi di innevamento delle piste da sci, con la conseguenza che nove su dieci sono innevate artificialmente. Tutti contenti: imprenditori degli impianti e degli alberghi e, naturalmente, gli sciatori. Ma quanta acqua si spreca per sciare? Perché poi, se la siccità dovesse continuare, quest’estate i problemi saranno altri, forse un po’ più gravi dello stop allo sci di capodanno: «ma da noi si pensa agli sciatori», questa la conclusione dell’articolista.

 In quanto avvertiti (sia pur da minoranze senza principi) quali beni aziendali, il paesaggio o l’ambiente sono sotto attacco: minacciati da un turismo becero, dal dilagante consumismo, dalla primazia degli interessi privati e speculativi. Sotto attacco sono le nostre città e i nostri borghi: musei a cielo aperto, la cui monumentalità non può essere al servizio di chi vuol mangiare, bere, ubriacarsi e anche altro; e (soprattutto) di chi vuol solo arricchirsi, talora somministrando a caro prezzo commestibili di dubbia qualità o senz’altro nocivi. Con la connivenza degli amministratori locali che, di qualunque parte essi siano, hanno smarrito le loro funzioni istituzionali e si diversificano al massimo per la varietà degli accenti retorici.

 Anni fa Settis aveva segnalato l’assedio, che stava cominciando, dei nostri centri storici, trasformati da luoghi di residenza e del governo del territorio, a sede astuta di giochi, marce, maratone della salute e sagre dell’immaginifico ritorno alla ‘buona terra’ e ai suoi prodotti tipici: mitologia della nostra contemporaneità funzionale, come sempre, ai calcoli del potere e del profitto.

 Il paesaggio dell’Italia è anche, forse soprattutto, il lascito della sua straordinaria, unica, storia: una storia fatta di monumenti, palazzi, piazze, arte e idee che ancora pulsano attorno, idee capaci di trasmettere sensazioni e innescare tuttora progetti e ispirazioni. ‘Cose’ che ci dovrebbero rendere orgogliosi se sol avessimo consapevolezza di quel che hanno significato e potrebbero, anzi dovrebbero, significare tuttora per gli Italiani. La Presidente del Consiglio ci ha recentemente invitato ad essere orgogliosi, ma ha poi omesso di spiegarci di che cosa dovremmo esserlo. Vogliamo sperare che, almeno lei, che si professa patriota da manuale, conosca la storia dell’Italia. Però non è tanto sicuro che sia così. E, purtroppo, la storia dell’Italia è nota a un numero sempre più esiguo di cittadini: colpa dei programmi scolastici e di certi rigurgiti ideologici.

 Questa ignoranza, che diviene inconsapevolezza, è l’insidia maggiore per la comprensione del valore del nostro «patrimonio storico e artistico». Gli operatori turistici ne hanno afferrato al volo la potenzialità economica e i politici si sono subito adeguati: spazi pubblici di suprema monumentalità oscurati da eserciti di plateatici, le cui fila si sono moltiplicati con la scusa della consolazione post Covid. Le Soprintendenze che denunciano l’abuso, ma senza che nessuno le ascolti. Eppure il codice dei beni culturali e del paesaggio impongono la necessità di un’autorizzazione proprio della Soprintendenza – organo statale – per queste strutture movibili; e la Corte costituzionale ha riconosciuto l’inderogabilità del regime autorizzatorio anche in confronto delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e Bolzano.

 Ancora una volta l’interesse pubblico è stato posposto agli interessi e alle querule degli operatori che accusano le Soprintendenze di essere causa di significative diminuzioni negli incassi. E, siccome questo è il Paese dell’eccezione, nelle Regioni ci si è affrettati a stipulare accordi in deroga (però di durata temporalmente limitata …). Miopia della politica, miopia di questo Governo che vedono nel turismo e nel made in Italy la scialuppa di salvataggio; ma è difficile raddrizzare il debito pubblico, e la nostra credibilità internazionale, con gli ombrelloni, la pizza o il prosecco, quando abbiamo rinunciato a produrre nell’industria e nel manifatturiero e importiamo tanto, troppo.

 La vicenda dei plateatici è un esempio, fra i molti, dell’inattitudine, specie in chi coltivi un interesse privato, a percepire la presenza, e la prevalenza, dell’utilitas publica. Non c’è dubbio che i plateatici piacciono parecchio agli spensierati avventori-consumatori, forse troppo ripiegati su loro stessi.. Ma il loro gradimento è sufficiente ad accantonare Costituzione e legislazione speciale? Ultima domanda, inquietante: se la gran maggioranza non sarà più in grado di leggere ‘culturalmente’ i nostri paesaggi, chi li tutelerà nel futuro? Intanto registriamo che, ai vertici di importanti musei italiani, ci sono direttori stranieri, dagli Uffizi alla Pinacoteca di Brera e al Museo di Capodimonte. Il Governo ci gira attorno e sta pensando di riservare i concorsi solo ai cittadini italiani. Sarebbe un buco nell’acqua (l’ennesimo) perché una disposizione del genere non reggerebbe dal punto di vista giuridico.

 Il Ministro Valditara smetta di pensare alla scuola italiana quale istituzione impegnata ad insegnare la buona educazione e cerchi di capire perché gli studenti non sappiano più nemmeno dove vivono. Se continueremo a non studiare la nostra storia, la tutela del patrimonio culturale diventerà impresa ardua o impossibile: dovremmo integrare gli stranieri insegnando loro cosa siano stati Roma antica o i liberi comuni italiani tardo-medievali, ma dovremmo prima re-integrare gli Italiani. Credo che da ciò passi una parte importante del futuro dell’Italia: in gioco è il capitale spirituale del Paese, a sua volta componente fondante e fondamentale della civiltà occidentale. Se lo perderemo, sarà per noi quasi impossibile mantenere i vantaggi materiali di cui ora beatamente continuiamo a godere

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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